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L’acefalo – l’insensibile – gli incontri.

La genesi del pensiero in Gilles Deleuze

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 22/08/2024
  • Data accettazione: 25/09/2024
  • Data pubblicazione: 04/12/2024

Abstract

L'articolo ripercorre il percorso tracciato da Gilles Deleuze nel terzo capitolo di Differenza e ripetizione (1968), in cui viene criticata la tendenza del pensiero a rappresentarsi la propria attività come spontanea e naturale. Al contrario, richiamandosi ad Artaud, Deleuze intende mostrare come il pensiero non sia una facoltà innata ma debba essere generato, e come ciò non possa accadere che per tramite di un’esperienza traumatica. Il testo approfondisce quindi lo stretto nesso tra la filosofia dell'esperienza di Deleuze e la sua riflessione sulla genesi del pensiero. La prima implica una revisione del concetto di “trascendentale” che, lungi dall'essere inteso come l'insieme delle condizioni che rendono possibile l'esperienza, in questo contesto designa il campo meta-empirico di intensità che produce l'esperienza. L'ultima sezione del saggio illustra come il sorgere di questo strato inferiore della realtà generi un'esperienza specifica che sconvolge il coordinamento ordinario delle facoltà e quindi gli automatismi quotidiani del pensiero. Questo tipo di esperienza è ciò che nell’opera Proust e i segni (1964) è definito come un incontro involontario che costringe il pensiero a pensare.

 

The article tracks down the path traced by Gilles Deleuze in the third chapter Difference and Repetition (1968), where he critiques thought’s tendency to represent its own activity as spontaneous and natural. On the contrary, by recalling Artaud, Deleuze aims to show how thought is not an innate faculty but must be generated by a traumatic experience. The text therefore delves into the strong connection between Deleuze’s philosophy of experience and his reflection on the genesis of thought. The first one implies a revision of the concept of “transcendental”, which, far from being intended as the set of conditions which make experience possible, in this context designates the meta-empirical field of intensities which actively produces experience. The last section of the essay explains how the rise of this bottom layer of reality engenders a specific experience which disrupts the ordinary coordination of faculties and therefore the daily procedures of thought. This sort of experience is what Deleuze, in his previous work Proust and Signs (1964), defines as an involuntary encounter that forces thought into thinking.


Parole chiave
Keywords

Il y a des moments dans la vie où la question de savoir si on-peut penser autrement qu’on pense et percevoir autrement

qu’on voit est indispensable pour continuer à regarder ou à réfléchir.

Michel Foucault, Histoire de la sexualité II. L’usage des plaisirs

 

1. Che cosa significa pensare? – che cosa sa Eudosso

Il terzo capitolo di Différence et répétition (1968) è stato spesso interpretato come il manifesto programmatico dell’opera deleuziana, poiché è il luogo in cui Deleuze si domanda che cosa significhi pensare e, su un piano meta-filosofico, che cosa significhi pensare filosoficamente.

La prima parte del capitolo è dedicata alla discussione di quella che viene identificata come la concezione ordinaria, l’idea diffusa dell’attività del pensare. Per designare il suo obiettivo polemico, Deleuze riprende il concetto di “Immagine del pensiero”, che aveva già forgiato in precedenza (troviamo una prima occorrenza in Nietzsche et la philosophie1 e poi in Proust et les signes2). L’Immagine del pensiero designa la tendenza, insita nel pensiero, a produrre una rappresentazione del proprio esercizio3: essa non ha come referente una particolare concezione del pensiero prodotta da un singolo filosofo o da una specifica corrente filosofica, ma descrive piuttosto l’inclinazione pre-filosofica del pensiero in quanto tale a rappresentarsi la propria attività, dando vita a un’illusione naturale e condivisa su che cosa significhi pensare. La penetrazione dell’Immagine del pensiero all’interno della filosofia si verifica soltanto secondariamente, l’Immagine del pensiero non è immediatamente un prodotto della filosofia: «in tal senso, il pensiero concettuale filosofico ha come presupposto implicito un’Immagine del pensiero, prefilosofica e naturale, tratta dall’elemento puro del senso comune»4. L’infiltrazione è sintomo del fatto che la filosofia ha disertato il proprio compito5, ossia ha rinunciato alla critica. Infatti, come nota acutamente Levi R. Bryant

per questo aspetto, Deleuze si colloca perfettamente all’interno della tradizione critica caratterizzata da Platone, Cartesio, Kant e dalla fenomenologia. Ciò non significa che Deleuze condivida le posizioni di questi pensatori, ma che ne condivide il progetto critico di rifiutare ogni dogma e di rompere con le credenze e le superstizioni infondate6.

È opportuno precisare, però, che l’operazione critica non si esplica soltanto nel vaglio delle opinioni e delle credenze; il suo fulcro consiste nell’analisi delle modalità con cui idee e giudizi vengono prodotti, ossia nell’«esame delle strutture di coscienza»7.

Fedele al suo gusto per la “drammatizzazione”, Deleuze illustra questo passaggio particolare della sua argomentazione mettendo in scena la querelle tra due personaggi concettuali, Eudosso ed Epistemone, cammei tratti dal dialogo cartesiano incompiuto La Recherche de la verité par la lumière naturelle. Epistemone – ci dice Deleuze – è il «pedante», colui che è dotato di una «comprensione troppo piena»8 – comprensione fondata sul sapere amministrato dalle istituzioni del tempo. Le nozioni di Epistemone sono quelle del «professore pubblico» che «non smette di rinviare ai concetti insegnati»9: egli non si interroga mai sulle conoscenze acquisite e che a sua volta ha trasmesso, non si è mai posto il problema di dover pensare qualcosa di nuovo. Eudosso, la sua nemesi, rifiuta di accettare a priori i contenuti di un sapere consolidato, che sottopone rigorosamente al vaglio del proprio lume naturale, della facoltà razionale di cui innatamente dispone: egli è «l’uomo particolare dotato solo del suo pensiero naturale»10. La figura di Eudosso, segnala Jean-Michel Counet, richiama quella dell’idiota cusaniano, «colui che non ha studiato, ma che possiede una saggezza acquisita attraverso la sua sola esperienza»11. L’idiozia presenta qui la doppia caratterizzazione di un’ignoranza socratica – ossia, la consapevolezza dell’insufficienza del sapere acquisito – e di un’autonoma solitudine del pensiero – cioè, l’esigenza di pensare privatamente, “per conto proprio”, in opposizione al pensatore pubblico. Se il secondo, come si è detto, «non smette di rinviare ai concetti insegnati», Eudosso al contrario forma concetti «con le forze innate che ciascuno di per sé possiede di diritto»12.

Eudosso è l’alter ego di Cartesio: nelle Meditazioni metafisiche, quest’ultimo porta a compimento l’impresa incompiuta del suo alias. Il filosofo diffida di tutto, il suo dubbio investe prima le percezioni sensibili13, fino a erodere la certezza delle verità innate geometrico-matematiche14. Ogni presunta evidenza su cui si fonda la conoscenza umana viene così progressivamente questionata, il dubbio promosso dal lume naturale si radicalizza fino a trascinare ogni cosa in una nera voragine. Non esiste illusione così sfrenata, tuttavia, da oscurare la fulgida verità che Cartesio ritrova al fondo del baratro: per prender coscienza delle chimere dei sensi, per constatare la frode del genio maligno, è necessario che qualcuno o qualcosa stia pensando (cogito) e, grazie a questa necessità (ergo), è possibile affermare l’esistenza di quel qualcuno o di quel qualcosa che pensa (sum) – devo esistere, quantomeno, come sostanza pensante.

A partire dalla certezza irrefutabile a cui approda l’impresa di Cartesio, Deleuze può affermare che Eudosso è tutt’altro che un idiota, egli sa troppo, possiede una saggezza troppo ingombrante e, come ricordato qualche anno prima in Nietzsche et la philosophie, ogni volta che si scambia un filosofo per un saggio, l’immagine del filosofo ne risulta travestita, offuscata15. La saggezza di Eudosso ha un unico appiglio, un unico fondamento: egli dispone per natura della facoltà di pensare e dunque sa che cosa pensare significhi – e da ciò è in grado di determinare che cosa significhi essere. La sua solitudine è più affollata di quanto egli non voglia ammettere: Eudosso, pur ritirato nelle sue stanze private, condivide con tutta l’umanità una convinzione, avviluppata in un sentimento irriflesso:

Tutti sanno, prima del concetto e in modo prefilosofico… tutti sanno cosa significa pensare ed essere… talché, quando il filosofo dice Io penso dunque sono, egli può supporre come implicitamente compreso l’universale delle sue premesse, cosa vogliono dire essere e pensare… e nessuno può negare che dubitare sia pensare, e pensare essere…16.

La figura di Epistemone ritrae il modo più ovvio, più volgare con cui la filosofia tradisce la propria vocazione, nell’accettazione acritica di un sistema di verità e di valori che gode del favore dei sapienti. Deleuze chiama questo sistema l’insieme dei “presupposti oggettivi”, ossia «i concetti esplicitamente supposti da un concetto dato». Come abbiamo visto, i presupposti oggettivi sono precisamente ciò che Eudosso rifiuta; ciò non è però sufficiente, poiché egli non ha affatto abbandonato ogni tipo di presupposto. L’alter ego cartesiano è ancora succube dei “presupposti soggettivi”, nozioni «inviluppate in un sentimento anziché in un concetto»17, poiché è persuaso di disporre di una facoltà di pensiero innata che gli permetterà di rifondare autonomamente il sapere.

A fondamento della certezza di Eudosso vi è l’Immagine del pensiero, presupposto soggettivo per eccellenza: l’idea di che cosa significhi pensare è qualcosa che è “sentito” più che concettualizzato, messo a tema dalla riflessione; e tuttavia condiziona alla radice l’esercizio del pensiero, il modo in cui la filosofia si produce.

 

2. Inneità e affinità col vero – Il dogma dell’immagine

Il problema fondamentale che Deleuze individua nell’Immagine del pensiero è che essa è vincolante: se, come si è detto in precedenza, l’Immagine designa la predisposizione intrinseca al pensiero a raffigurarsi la propria attività, questa raffigurazione si produce mediante l’«estrapolazione di taluni fatti, e di fatti particolarmente insignificanti, attinenti alla banalità quotidiana stessa»18. Ciò significa che a modalità di pensiero particolari e contingenti – caratterizzate da operazioni che il pensiero compie mosso da esigenze di ordine pratico19 – viene conferito un valore universale e normativo: esse arrivano a sancire il diritto, cioè la norma di funzionamento del pensiero. Ne consegue l’occultamento totale delle circostanze in cui il pensiero sorge e delle esigenze a cui una determinata forma di pensiero risponde, nonché la svalutazione di quelle modalità che deviano dalla regola presunta. Così, si approda

a una sorta di filosofeggiare tolemaico in cui tutte le altre individuazioni sono comprese come relative alla propria individuazione, […] [per cui] diviene impossibile affermare le altre affermazioni nella loro differenza come altro se non aberrazioni20.

L’Immagine del pensiero designa la pura tendenza del pensiero a ritrarre il proprio funzionamento, ma quali sono i contenuti dell’Immagine? in altri termini, come viene raffigurato il pensiero? Quali sono quei «fatti quotidiani» innalzati a modello del pensiero in generale? Deleuze afferma che gli atti di pensiero che ordinariamente compiamo sono Rappresentazioni e Riconoscimenti: quotidianamente formiamo rappresentazioni degli oggetti e delle circostanze che incontriamo, e riconduciamo eventuali elementi di novità alle rappresentazioni di cui già disponiamo. D’altronde, è proprio il fatto che il pensiero operi così nella maggior parte delle circostanze a far insorgere in esso il desiderio di rappresentare il suo stesso esercizio, cioè di produrre un criterio per discernere ciò che è pensiero da ciò che non lo è.

L’Immagine del pensiero implica una serie di postulati che, come si è già detto, «non sono proposizioni che il filosofo chiede che gli vengano accordate, ma viceversa sono temi impliciti di proposizioni, intesi in modo prefilosofico»21. Il primo postulato, sul quale ci soffermeremo in questa sede, è quello incarnato da Eudosso, significato dal suo disporre «soltanto del suo pensiero naturale», di «forze innate» per formare concetti, per pensare. Il primo postulato pone l’innatismo del pensiero, nominato da Deleuze “inneità”: si tratta dell’assunto che pensare coincida con «l’esercizio naturale di una facoltà»22 innata e universalmente diffusa, un «pensiero universale per natura»23 (cogitatio natura universalis24). L’assioma fondamentale dell’Immagine del pensiero afferma che chiunque è in grado di pensare, poiché ogni essere umano è dotato di ragione. Questo assunto è corredato da due corollari – il primo di natura epistemica, il secondo morale –, che sanciscono l’affinità tra pensiero e verità. L’attività innata del pensiero è naturalmente orientata verso il vero; pensare, secondo l’Immagine, significa essenzialmente mettersi alla ricerca della verità, che sarà raggiunta una volta prodotta una rappresentazione veridica. La nozione di verità sancisce l’interiorizzazione del rapporto che il pensiero intrattiene necessariamente con un’esteriorità: il pensiero è sempre “pensiero di qualcosa” e “a partire da qualcosa”. Vero è, oggettivamente, ciò che accade a prescindere dal soggetto pensante; soggettivamente, è ciò che deve esser pensato.

Il primo corollario afferma allora che il pensiero è dotato di una «natura retta»25, è cioè formalmente predisposto a cogliere il vero, dispone di strutture che anticipano la forma della verità ancor prima che se ne dia un’appropriazione materiale, un riempimento sul piano dei contenuti.

Il secondo corollario dichiara, invece, la «buona volontà del pensatore»26: colui che pensa, oltre a essere strutturalmente predisposto ad accogliere il vero, «vuole materialmente il vero»27, è mosso da un desiderio, da uno slancio verso la verità.

L’Immagine del pensiero ratifica allora una concezione volontaristica del pensiero, secondo la quale pensare sarebbe un’attività non soltanto naturale, ma anche, almeno a monte, assolutamente priva di intoppi, destinata al successo da un punto di vista non solo formale, ma anche motivazionale28: nulla sembrerebbe inceppare l’inarrestabile marcia verso la verità.

Perché, allora, la ricerca del vero rimane però un’impresa tanto ardua? Per quale motivo la missione suprema del filosofo è la lotta contro la doxa, se nessuno è per natura incline al falso?

Gli ostacoli, gli inciampi del pensiero vengono tutti dall’esterno: è noto che il sensibile sia il regno dell’illusione, ma anche la materialità del corpo corrompe la “pura” buona volontà del soggetto, nonché la sua capacità innata di distinguere il vero dal falso (vi sono condizioni fisiologiche e psicologiche – l’ebbrezza, la stanchezza, l’alterazione dovuta a sostanze – che offuscano la lucidità che l’atto del pensare richiede).

Né la natura retta del pensiero, né la buona volontà del pensatore sono allora sufficienti: bisogna dotarsi di un metodo che permetta di valutare criticamente i dati della sensazione, ma che produca altresì quelle condizioni ideali affinché l’esercizio della ragione possa attuarsi autonomamente: non è un caso che il Discours de la méthode sia figlio del ritiro olandese di Cartesio, di quegli otto anni di solitudine e ritiro propedeutici alla ricerca della verità29.

 

3. L’acefalo nel pensiero – la genitalità

Deleuze inaugura lo scardinamento della raffigurazione del pensiero tratteggiata dall’Immagine proprio a partire dalla messa in discussione di questo primo postulato. A tal fine, viene rievocato lo scambio epistolare tra Antonin Artaud – uno degli attori più rinomati del theatrum philosophicum deleuziano – e il critico letterario Jacques Rivière30: nelle sue lettere, il poeta-drammaturgo confida al critico letterario gli effetti corrosivi che la schizofrenia ha sulla messa in forma del suo pensiero, e dunque sulla sua produzione artistica. Artaud parla di uno «sprofondamento centrale dell’anima, una specie di erosione, essenziale e fugace al tempo stesso, del pensiero»31. Artaud è testimone di un’erosione essenziale del pensiero, di una corruzione che arriva a coincidere con l’essenza stessa del pensiero, negando quella natura retta che l’Immagine postulava. Ciò nonostante, Rivière fraintende il dramma vissuto dal suo interlocutore, poiché resta fedele all’idea di una funzione pensante autonoma, i cui impedimenti sono frutto dell’influenza di fattori esterni o di una carenza di metodo. Per Artaud, non si tratta però di riordinare i pensieri, né di acquisire un metodo che faciliti la produzione letteraria: i consigli di Rivière non sono che un antidoto a «felici difficoltà», legate a circostanze contingenti, a cui è possibile porre rimedio. Deleuze constata allora che più il critico letterario «crede di avvicinarsi ad Artaud, e di comprenderlo, più se ne allontana e parla d’altro»32.

La schizofrenia di Artaud non è letta da Deleuze come una condizione patologica individuale che riguarda esclusivamente il “caso Artaud”, intaccandone la facoltà di pensare di quest’ultimo che – in linea di principio – dovrebbe funzionare correttamente. Artaud, per Deleuze, si trova a vivere sulla propria pelle l’esperienza-limite di una condizione generale, di un a priori del pensiero in quanto tale: le difficoltà sperimentate dal poeta-drammaturgo «riguardano e investono l’essenza di ciò che significa pensare»33.

Così le difficoltà che egli dice di provare non vanno intese come fatti, ma come difficoltà di diritto […]. Dice Artaud che il problema (per lui) non è di orientare il suo pensiero, né di completare l’espressione di ciò che pensa, né di acquisire applicazione e metodo o di portare a perfezione le sue poesie, ma di arrivare semplicemente a pensare qualcosa34.

«Arrivare a pensare qualcosa» è certamente la sfida esistenziale dell’individuo-Artaud, ma Deleuze la traspone su un piano speculativo, trascendentale. Bisogna guardarsi da quell’interpretazione che vede nella schizofrenia artaudiana – romanticizzata – un modello alternativo per il pensiero. L’obiettivo di Deleuze, soprattutto nella prima fase della sua produzione, non è infatti

di opporre all’immagine dogmatica del pensiero un’altra immagine, tratta ad esempio dalla schizofrenia, quanto piuttosto di ricordare che la schizofrenia non è soltanto un fatto umano, ma una possibilità del pensiero, che non si rivela a questo riguardo se non nell’abolizione dell’immagine35.

La schizofrenia abolisce l’Immagine nella misura in cui fornisce una confutazione – non l’unica, ma particolarmente efficace – dell’idea che il pensiero sia un atto innato, naturale, spontaneo. Artaud è per Deleuze l’infelice cavia, il Cristo sventurato il cui sacrificio permette di contrapporre all’inneità del pensiero la sua genitalità: così il filosofo mostra che «c’è un acefalo nel pensiero»36, che l’impotenza è condizione essenziale, lo sfondo costitutivo del pensare e, pertanto, che «il pensare non è innato, ma deve essere generato nel pensiero»37. Pensare è un’attività alla “seconda potenza”, «non l’esercizio ordinario di una facoltà, ma un evento straordinario del e per il pensiero stesso»38.

 

4. Il trascendentale e il fondo – nel regno prodigioso delle intensità

Se pensare è un evento straordinario, bisogna render conto di come si produca questo fatto eccezionale. Traspare allora la vocazione genetica che caratterizza l’approccio della filosofia di Deleuze di questi anni, radicato nell’esigenza di indagare le cause produttrici dei fenomeni: tutto, nell’universo deleuziano, è soggetto a una genesi. È all’interno di questa impostazione teorica che Deleuze rivista la nozione di “trascendentale”, sancendo contemporaneamente il sodalizio e il tradimento nei confronti della filosofia kantiana.

Come è noto, Kant, attraverso il trascendentale, intende designare l’insieme delle strutture della mente umana, ossia quelle condizioni a priori che rendono possibile l’esperienza e la conoscenza: l’impresa kantiana approda a una definizione della natura formale del pensiero, a prescindere dai contenuti materiali di quest’ultimo. Malgrado la grandiosa scoperta del «regno prodigioso del trascendentale»39, che traccia un nuovo piano di esplorazione per la questione del pensiero, Kant non resiste al canto sirenico dell’Immagine, e «ricalca le cosiddette strutture trascendentali sugli atti empirici della coscienza psicologica»40.

Nella sua rilettura, Deleuze si serve del trascendentale per indicare le condizioni di realtà (e non più di possibilità) dell’esperienza e del pensiero – non ciò che rende possibile esperire e conoscere secondo le modalità ordinarie della sensibilità e dell’intelletto, ma ciò che fa sorgere, che produce nella realtà l’esperienza e il pensiero in generale, prima ancora che essi acquisiscano una forma determinata.

Si tratta di una svolta fondamentale, gravida di implicazioni: il trascendentale deleuziano non appartiene più al polo soggettivo, bensì si colloca dalla parte della realtà, dal lato dell’oggetto41. Il trascendentale è quello strato del reale in cui si annidano le condizioni genetiche del mondo, strato che Deleuze designa con il concetto di “virtuale” e che descrive come un campo di intensità. È opportuno ricordare che per Deleuze «ogni intensità è differenziale, differenza in sé», poiché «è E-E’, dove E rimanda a e-e’, ed e a ɛ-ɛ’ e così via»42: le intensità che popolano il campo trascendentale sono dunque essenzialmente definite da una disparità intrinseca, esse sono il frutto di una differenza tra due quantità, le quali a loro volta non sono altro che intensità, che rimandano ancora a due differenze tra quantità, e così via in una serie infinita. È proprio in questa ramificazione di intensità, in questo intreccio di differenze che rinviano ad altre differenze che Deleuze ritrova «la ragione sufficiente del fenomeno, la condizione di ciò che appare»43, poiché è proprio il gioco delle differenze a produrre la qualità nel sensibile. La sensazione è allora il frutto di questi scarti tra intensità, dei rapporti differenziali che intercorrono tra di esse.

Il regno di queste «potenze del salto, dell’intervallo, dell’intensivo o dell’istante»44 costituisce il “fondo” della sensazione, esso non si manifesta alla nostra esperienza ordinaria, ma costituisce piuttosto il background del campo percettivo in cui le cose appaiono: il fondo è l’inconscio impersonale della nostra esperienza individuata.

Per rendere maggiormente afferrabile questa idea, Deleuze riprende l’immagine leibniziana del rumore del mare, all’interno del quale non siamo in grado di distinguere i micro-suoni di ciascuna onda. Ciò che si dà chiaramente alla nostra percezione è infatti uno sciabordio generale, ma le vibrazioni delle singole increspature restano confuse, indiscernibili45. Ugualmente, la nostra percezione è l’effetto d’insieme prodotto dal fondo pullulante delle «piccole percezioni»46: si tratta di percezioni infinitesimali, prive di soggetto, coincidenti con le differenze d’intensità – impercettibili, sono ciò che fa sì che qualcosa possa essere percepito.

Vi sono però alcune esperienze singolari in cui «il fondo sale con l’individuo alla superficie»47: si tratta di circostanze particolari, in cui una «regione dell’Essere […] si rivela»48. Il fondo affiora in superficie «senza tuttavia prendere forma o figura»49, poiché la nostra percezione non riesce a dargli una forma, ad afferrarlo incastonandolo in quelle strutture che lo renderebbero riconoscibile e rappresentabile: ciò è costituzionalmente impossibile, poiché il fondo costituisce «il non-riconosciuto di ogni riconoscimento»50.

La risalita del fondo provoca dunque una sensazione refrattaria alle forme a priori della sensibilità: scardinato l’ordine spazio-temporale, la collaborazione tra facoltà – che ordinariamente garantisce la rappresentazione delle circostanze vissute – risulta così interrotta. La percezione sottopone alle altre facoltà un dato che risulta loro irriconoscibile, indigeribile e incomprensibile poiché privo della sua forma abituale: l’esercizio ordinario delle facoltà viene così ineluttabilmente compromesso. L’eruzione del fondo scatena tra di esse un bisticcio senza fine, provocando l’impotenza del pensiero – quella stessa impotenza, quella stessa acefalia di cui abbiamo visto Artaud essere un emblema.

Questo stato di istupidimento paralitico della facoltà pensante assume però per Deleuze una valenza positiva51 poiché proprio la scoperta della bêtise connaturata al pensiero produce la tanto ricercata «abolizione dell’immagine».

L’abolizione dell’immagine ha due conseguenze e due significati: su un primo livello, comporta la negazione dell’innatismo compiaciuto del pensiero, nonché l’interruzione della maliziosa intesa tra quest’ultimo e la verità; su un secondo livello, più profondo e radicale, sancisce l’abbandono della pretesa che il pensiero possa dotarsi di una qualsiasi immagine – ossia di una rappresentazione che decreti definitivamente che cosa significa pensare. Quando siamo convinti di aver raggiunto un approdo, un punto fermo, avvengono esperienze – quelle esperienze in cui il fondo sale in superficie – che smantellano ogni nostra immota persuasione: il messaggio meta-filosofico essenziale della filosofia di Deleuze afferma che per pensare davvero è necessario rinunciare alla certezza di aver trovato un metodo universalmente valido e un fondamento immutabile: non si inizia a pensare una volta per tutte; bisogna, piuttosto, sperimentare di volta in volta nuove vie, indossare nuove maschere, esplorare nuovi percorsi.

 

5. Empirismi – per una metafisica?

Deleuze definisce questo modo distintivo di far filosofia un empirismo, poiché istituisce un’epistemologia fondata su un’estetica, una «scienza del sensibile» intesa, però, non come lo studio di «ciò che può essere rappresentato nel sensibile»52, né come l’individuazione e l’isolamento dell’elemento sensibile all’interno della rappresentazione, arrivando a determinare «quel che resta una volta che la rappresentazione sia abolita (per esempio un flusso contraddittorio, una rapsodia di sensazioni)»53. Il compito dell’estetica deleuziana consiste, piuttosto, nell’afferrare «direttamente nel sensibile ciò che può essere solo sentito, l’essere stesso del sensibile», che non è altro se non «la differenza, la differenza di potenziale, la differenza d’intensità come ragione del diverso qualitativo»: soltanto così «l’empirismo diviene trascendentale, e l’estetica una disciplina apodittica»54. La funzione del trascendentale deleuziano – come si è detto in precedenza – non è quella di render conto dell’esercizio empirico di una facoltà, bensì del «suo esercizio […] superiore o trascendente», attraverso cui la facoltà coglie nel mondo «ciò che la riguarda esclusivamente e la fa nascere al mondo»55, insomma la sua causa genetica.

È diffusa l’idea, certamente non priva di fondamento, che Deleuze abbia preferito l’approccio empirista a quello kantiano; bisogna tuttavia ricordare il debito che lega lo stesso criticismo all’empirismo: non è un caso che l’avventura della Critica sia inaugurata dal risveglio dal sonno dogmatico, di cui Kant tributa a Hume il merito, e dal conseguente allontanamento dal panlogismo di Wolff. Già nel ’63, il filosofo di Könisberg confutava la prova anselmiana dell’esistenza di Dio56, negando che l’esistenza possa considerarsi un attributo o una qualità implicata in un’idea alla stregua di tutti gli altri attributi, e così formulava una concezione dell’esistenza diametralmente opposta a quella della tradizione razionalista. Ne conseguiva che l’esistenza di x non risultasse deducibile dalla sua rappresentazione o dalla sua idea (nemmeno laddove si tratti dell’idea di un essere dotato di tutte le perfezioni al massimo grado, poiché l’esistenza non è per l’appunto una perfezione): l’esistenza è per Kant posizione assoluta – e questa posizione assoluta non dipende da un soggetto, ma è proprio ciò che viene dato al soggetto, costituisce l’essenza del dato: solo dopo aver fatto esperienza di x, posso affermare che x esiste. La prova dell’esistenza risiede nel dato.

Nel semplice concetto di una cosa non può trovarsi alcun carattere della sua esistenza. Giacché, sebbene esso sia così completo, che nulla gli manchi per pensare una cosa con tutte le sue determinazioni interne, pure l’esistenza non ha a che fare con tutto ciò, ma solo con la questione se una tale cosa ci è data, in modo che la percezione di essa possa sempre andare innanzi al concetto. Infatti, che il concetto preceda la percezione, significa la sua mera possibilità; ma la percezione, che fornisce al concetto la materia, è l’unico carattere della realtà57.

Questo passaggio della Kritik der reinen Vernunft, che ribadisce la tesi appena esposta, si conclude con un’affermazione il cui marchio empirista è indubbio: «la percezione […] è l’unico carattere della realtà». L’unico contatto, la sola comunicazione tra soggetto e realtà si instaura nella sensazione. Ciò indusse Kant a istituire una differenza radicale tra sensibilità e intelletto, laddove il razionalismo distingueva le due facoltà in base al grado di chiarezza con cui ciascuna è in grado di afferrare le cose (il sensibile veniva infatti considerato l’ambito dell’oscurità e della confusione, mentre l’intelligibile comportava un nuovo ordine, un maggiore discernimento). Per Kant, la peculiarità della sensibilità risiede nel suo carattere ricettivo: le intuizioni non sono un prodotto dell’attività sintetica della mente, bensì uno “stimolo” proveniente dalla realtà esterna che il soggetto, attraverso le sue operazioni, non sarebbe in grado di produrre: è la traccia, il “sintomo” di un’esteriorità58.

L’insondabilità di questa esteriorità costituisce, tuttavia, il vero e proprio nodo aporetico dell’empirismo: è questo stesso punto cieco, da un lato, a generare in Kant l’esigenza di una Critica e, dall’altro, a indurre Deleuze a prender le distanze non solo dal filosofo di Königsberg, ma dall’empirismo stesso. Per comprendere meglio questa piega della filosofia deleuziana, è opportuno far ricorso ad alcune riflessioni straordinariamente chiarificatrici di Jean Wahl59, uno dei pionieri francesi dell’empirismo trascendentale. In Vers le concret – studio dedicato a William James (padre dell’empirismo radicale), Alfred North Whitehead e Gabriel Marcel – egli individua come problema fondamentale dell’empirismo tradizionale il fatto che esso consideri «l’essere come dato»60, ossia che il dato della sensazione sia innalzato a realtà ultima; più precisamente, secondo l’empirismo anglosassone, l’unico elemento che a noi si offrirebbe del reale sono le nostre impressioni, il resto (il mondo al di là della percezione) rimane insondabile, inaccessibile. Questo è il punto teorico su cui empirismo e kantismo convergono, prima di allontanarsi definitivamente.

Deleuze, dal canto suo, non ignora affatto questo elemento di prossimità tra le due filosofie. Nel saggio su Hume, afferma che «la filosofia dell’esperienza […] è la critica di una filosofia della Natura»61. Poiché non vi è alcun motivo razionale e fondato per credere che le nostre impressioni rispecchino fedelmente il mondo esterno, benché «senza dubbio vi sia una Natura, abbiano luogo operazioni reali, i corpi abbiano dei poteri»62, è necessario limitare la speculazione «all’apparire degli oggetti ai nostri sensi, senza addentrarci in discussioni sulla loro reale natura e le loro operazioni»63. L’empirismo, com’è noto, si costituisce allora come rifiuto della metafisica, dal momento che nega la fondatezza di una scienza dell’essere in grado di produrre un sapere sulla realtà in quanto tale e ratifica un nuovo approccio che riduca le pretese e il campo di competenza della riflessione filosofica.

Il mondo al di là della sensazione cessa allora di essere propriamente mondo per divenire un in sé che oscilla tra la negazione e l’epochè: il problema dell’essere viene così evitato, rifiutato, posposto ad infinitum. La tesi empirista sull’assoluta impenetrabilità del Reale trapassa nell’idea kantiana di cosa in sé: l’essere oltre la sensazione esula dalle possibilità dei nostri sforzi conoscitivi, è qualcosa che può essere soltanto pensato, ma mai raggiunto, afferrato.

Kant trova tuttavia inaccettabile la devastazione del sapere umano che l’empirismo comporta nel momento in cui taccia di illusorietà i giudizi su cui gli esseri umani fondano le proprie certezze (sappiamo che i giudizi, per le filosofie dell’esperienza, non sono altro se non il frutto delle associazioni messe in atto dalla mente all’interno del flusso di sensazioni). L’impresa critica del filosofo di Königsberg è infatti mossa dall’intento di ristorare il valore epistemico delle strutture logiche sottese alle nostre rappresentazioni: l’invenzione del trascendentale permette a Kant di affermare che ciascun essere razionale dispone delle stesse strutture che presiedono alla messa in forma dell’esperienza, e alla produzione di conoscenze. Pertanto, benché l’in sé rimanga comunque inaccessibile, il fatto che ciascun soggetto percepisca e conosca secondo le medesime modalità garantisce l’universalità del sapere.

La differenza tra l’approccio deleuziano e quello empirista non ha le stesse motivazioni della presa di distanza kantiana: Deleuze non è infatti allarmato dal problema dell’uniformità della conoscenza – e tanto meno sente l’urgenza di dimostrare che tutti i soggetti pensano nello stesso modo e approdano a verità uguali (è anzi proprio per questa sua esigenza che Kant, a detta del filosofo francese, ricade nel vizioso conservatorismo dell’Immagine del pensiero) –. L’aspetto dell’empirismo anglosassone che Deleuze mette in questione attraverso la proposta di un empirismo trascendentale è la cecità delle intuizioni sensibili, notoriamente ratificata dallo stesso Kant64: affermare che le intuizioni siano cieche significa, di fatto, sostenere che senza la mediazione dei concetti dell’intelletto, la sensazione non sarebbe in grado di comunicare, di trasmettere, di “far vedere” alcunché – poiché costitutivamente priva di un affaccio sul reale. La cecità dell’intuizione è ciò che contraddistingue l’empirismo humiano-kantiano, riconosciuto da Wahl come «empirismo di primo grado» che deve essere superato in favore di un empirismo più ambizioso, «più alto», che non lasci «all’idealismo gli onori che provengono al pensiero elevato, dalla riflessione difficile»65. Così, l’appello di Wahl a un «empirismo di secondo grado» troverebbe allora compimento in una filosofia sì fondata sull’esperienza, ma in grado di intravedere nel sensibile un luogo di contatto, un’affinità elettiva con il reale – un essere che traluce nella sensazione proprio perché non ha nulla da spartire con le categorie dell’intelletto e le strutture della ragione. L’empirismo trascendentale deleuziano sembra allora inscriversi perfettamente (e in maniera certamente consapevole) in un programma filosofico che mira a «risalire alla radice del fatto verso questo meta-empirico di cui parlavamo»66, per rivendicare «una significazione metafisica dell’empirismo»67.

 

6. Sentire l’insensibile – il gioco della discordia

L’assunto fondamentale dell’empirismo trascendentale è dunque che tutto tragga origine da questa couche meta-empirica che non appartiene in senso stretto alla sensazione ma che costituisce la matrice genetica del sensibile. È ora possibile comprendere con maggiore chiarezza che la risalita del fondo, nel contesto del pensiero deleuziano, non è altro che l’irr-/er-uzione di questo meta-empirico nella percezione ordinaria, che viene infestata dai dèmoni della differenza.

Questa esperienza del fondo è al contempo insensibile – all’esercizio ordinario della sensibilità risulta dissonante, inafferrabile – e aistheteon, qualcosa che deve e può soltanto essere sentito: si tratta di ciò che riguarda esclusivamente la sensibilità e la fa “nascere al mondo”.

In questo suo esercizio particolare– che Deleuze chiama «trascendente» –, la sensibilità non riceve più un “dato” in senso canonico, ma coglie «l’essere del sensibile, […] ciò per cui il dato è dato»68. Come illustra Bryant, vi è una sorta di senso interno per ciascuna facoltà, il quale rende conto di come essa sorga ed evolva69.

Come anticipato in precedenza, è in questo contesto che il pensiero instupidisce e si riscopre impotente, poiché l’aistheteon non può «essere a sua volta rimirato mediante altre facoltà»70. L’armonia di queste ultime – che permetteva loro di convergere su uno stesso oggetto, poiché il dato della sensazione può anche essere ricordato, immaginato e pensato – è interrotta, infranta, disarticolata dall’ascesa del fondo alla superficie, dal manifestarsi dell’aistheteon – ossia, dalla comparsa dell’intensità, della differenza pura all’interno della sensazione.

Deleuze richiama a questo proposito la Kritik der Urteilskraft: se nelle prime due Critiche, Kant aveva attribuito rispettivamente all’intelletto e alla ragione il compito di organizzare le altre facoltà (il primo con fini teoretico-conoscitivi, la seconda per scopi etico-pratici), nell’Analitica del sublime è l’immaginazione a prendere le redini del coordinamento; tuttavia, sotto il regime dell’immaginazione «le diverse facoltà entrano in un accordo che non è più determinato da nessuna di loro, tanto più profondo in quanto non ha più regola»71. L’esercizio sregolato delle facoltà è ciò a cui si assiste quando la sensibilità viene meno al patto stipulato con le altre facoltà, quando cessa di comunicare loro qualcosa di comprensibile: l’accordo si trasforma in discordia, la violazione innesca una «catena di forza»72 in cui «ciascuna [facoltà] non comunica all’altra se non la violenza che la pone in presenza della propria differenza e della propria divergenza con tutte le altre»73. A esser comunicata – ratio irragionevole dell’accordo discordante – è allora la drammatica scoperta di un’incomunicabilità, a cui fa da contrappunto il ritrovamento, per ogni facoltà, della propria intima ragion d’essere. Ciascuna facoltà «spinge l’altra al suo massimo o al suo limite; ma l’altra reagisce spingendo la prima a un’ispirazione che da sola non avrebbe avuto»74:

la sensibilità, costretta […] a sentire il sentiendum, costringe a sua volta la memoria a ricordarsi del memorandum, di ciò che può essere solo ricordato. E infine, come terzo carattere, la memoria trascendentale costringe a sua volta il pensiero ad afferrare ciò che può essere soltanto pensato, il cogitandum, il noeteon, l’Essenza […]75.

Il sentiendum, il memorandum, il cogitandum svolgono la funzione «di turbare l’anima, di renderla “perplessa”, cioè di costringerla a porre un problema»76. La scoperta della propria essenza, per ogni facoltà, non coincide con la rivelazione di una verità; avviene piuttosto sotto la forma di una domanda, di un’interrogazione: che cosa significa sentire? che cosa significa ricordare? che cosa significa pensare?

Il trauma che la domanda inaggirabile comporta irrompe negli automatismi incancreniti dell’esercizio ordinario (e ordinato) delle facoltà, contestando che essi rappresentino le uniche vie, le uniche modalità attuabili per la sensibilità, per la memoria, per il pensiero. È a questo punto possibile intravedere la vocazione essenziale del progetto deleuziano, ben riassunto dalle parole di Pierre Montebello: «il paradosso dell’empirismo trascendentale non ha altro significato: rendere conto della genesi intensiva del pensiero in linea con il lavoro di differenza che fa fermentare il mondo, vera genesi inventiva del mondo»77.

Appare infine evidente come il resoconto trascendentale (in senso deleuziano) delle facoltà rovesci l’Immagine del pensiero e ciò che essa comporta, poiché istituisce un «nuovo rapporto tra pensiero ed esperienza secondo il quale il primo, per innescarsi deve essere spinto da quest’ultima»: l’esercizio del pensiero non può più vantare alcuna spontaneità, alcuna autonomia. Il pensiero «non pensa se non costretto e forzato, davanti a ciò che “dà da pensare”»78.


7. La violenza di un incontro – iniziare a pensare... di nuovo

Si è più volte ripetuto, nel corso di questo saggio, che sono specifiche esperienze a fare «del pensiero qualcosa di attivo e affermativo». In questa ultima parte, ci si vorrebbe allora soffermare sulle circostanze in cui il fondo sale in superficie, manifestandosi come contorno irriducibile della sensazione e mettendo la sensibilità in presenza della sua radice incomunicabile – dando così adito a quel susseguirsi di violenze e costrizioni che interrompono l’esercizio ordinario delle facoltà, aboliscono l’Immagine del pensiero e forzano il pensiero a pensare, a ricominciare.

Gli avvenimenti che indicano la «via che conduce a ciò che va pensato»79 non sono dell’ordine del quotidiano e non possono essere soggetti né a una programmazione scrupolosa, né a una ricerca metodica: una volta rinunciato al volontarismo e alla metodologia insiti nell’Immagine, Deleuze non intende in alcun modo proporre un protocollo di come produrre le circostanze che fanno sorgere il pensiero. Le esperienze entro cui queste circostanze si creano sono – e devono essere, affinché si possa iniziare a pensare per davvero – costitutivamente non programmabili: esse sono infatti il frutto di incontri80 casuali. È attraverso il concetto di incontro che Deleuze intende scardinare una volta per tutte la possibilità di istituire un percorso predeterminato per indurre la genesi del pensiero.

Il fondo è allora «l’oggetto di un incontro fondamentale»81 e non di una ricerca intrapresa volontariamente – non vi è infatti alcuna ragione per voler trovare qualcosa di cui non si possiede alcuna rappresentazione e che è impossibile da riconoscere. Ma che cos’è allora un incontro, come si dà materialmente?

In Différence et répétition, le indicazioni concernenti gli incontri sono piuttosto vaghe, un incontro può avere molteplici referenti materiali e connotazioni emotive: «ciò che si incontra può essere Socrate, il tempio o il demone, e può essere colto sotto tonalità affettive diverse, quali l’ammirazione, l’amore, l’odio, il dolore»82.

Ritroviamo però la prima occorrenza del concetto di incontro in Proust et les signes, quando Deleuze afferma che il protagonista della Recherche, all’inizio del romanzo, non sta cercando alcunché e che sono avvenimenti del tutto casuali (ricordi, interazioni, visioni) a far scaturire in lui il bisogno di indagare su ciò che gli accade. Il primo carattere fondamentale dell’incontro è dunque la contingenza: un incontro non può essere organizzato, previsto o scelto. È tuttavia necessario saper apprezzare il carattere accidentale degli incontri e ciò richiede un certo humor83: Deleuze individua l’antitesi del gusto divertito dell’imprevisto nell’ironia socratica, la quale provoca, suscita, organizza incontri (d’altronde è noto come la maieutica, metodo socratico per eccellenza, non contempli affatto l’insorgere di risposte inattese, ma, preveda, piuttosto, il parto di quelle verità che gli interlocutori hanno già dentro di sé, in gestazione)84.

Se il carattere fortuito degli incontri è «la firma della loro autenticità», «il premere delle costrizioni»85 è l’altro volto della casualità86: una volta avvenuto, l’incontro produce conseguenze inevitabili, una violenza che scardina le convinzioni pregresse, i modi di pensare precostituiti. Il pensiero che procede in modo autonomo e volontario – secondo il paradigma fornito dall’Immagine – per Deleuze «arriva soltanto a verità astratte» e i concetti da esso prodotti «non designano altro che possibilità»87, sono privi di una presa salda sul reale e di quell’urgenza che la realtà esige: al contrario, «ciò che è primo nel pensiero è l’effrazione, la violenza, il nemico, e nulla presuppone la filosofia, tutto muove da una misosofia»88. L’incontro esorta allora il pensiero a pensare nella misura in cui lo costringe a porsi un problema, a confrontarsi con qualcosa che esso non aveva né atteso né ricercato e che anzi gli si presenta dinanzi in modo inaspettato, disarticolando le sue abitudini e i suoi automatismi.

Non è affatto necessario, non è per nulla naturale che il pensiero inizi: «non si può contare sul pensiero per installarvi la necessità relativa di ciò che esso pensa, ma viceversa sulla contingenza di un incontro con ciò che costringe a pensare […]. […] C’è nel mondo qualcosa che costringe a pensare»89. La tesi deleuziana sulla genitalità del pensiero, congiunta al tema dell’incontro, sfocia nell’affermazione che il pensiero risulta dal rapporto – obbligato, inaggirabile – con un’esteriorità, non intesa come il fuori relativo a un soggetto (una sorta di mondo oggettivo), bensì come un dominio di forze che investono e plasmano il pensiero. La genesi del pensiero è in ultima istanza un’eterogenesi90: lontano dalle glorie dell’autonomia di Eudosso, il pensiero, per Deleuze, nasce dallo scontro violento con un’alterità che distrugge ogni forma predeterminata e scardina le disposizioni cognitive dell’io.

Quando il soggetto si rispecchia nel fondo, «non vede nulla, non ricorda nulla»91, alla stregua del ragno a cui Deleuze paragona il narratore della Recherche, che «in fondo alla sua tela si limita a raccogliere la prima vibrazione che si propaga come onda intensiva sul suo corpo»92.

L’empirismo trascendentale non è una filosofia metodica, il suo progetto consiste piuttosto nell’abolizione dell’idea di metodo. Ciò non vuol dire, tuttavia, che la sua attuazione non esiga però un atteggiamento, una certa postura esistenziale, un’apertura che permetta agli incontri di avvenire, senza programmarli, fissarli o prevederli. Si potrebbe forse sostenere, allora, che la costellazione di concetti che su cui si erige l’epistemologia deleuziana (nonché la sua riflessione meta-filosofica) presenti un côté, un’implicazione etica che andrebbe indagata ulteriormente.

Note
  • 1

    Cfr. Deleuze 1962, pp. 154-165.

  • 2

    Cfr. Deleuze 1964, pp. 87-94.

  • 3

    Cfr. Sauvagnargues 2008, p. 38.

  • 4

    Deleuze 1968, p. 172.

  • 5

    Cfr. Deleuze 1962, p. 159.

  • 6

    Bryant 2008 p. 18 [trad. mia].

  • 7

    Deleuze 1953, p. 103.

  • 8

    Deleuze 1968, p. 170.

  • 9

    Deleuze-Guattari 1991, p. 51.

  • 10

    Deleuze 1968, p. 170.

  • 11

    Counet 2016, §4.

  • 12

    Deleuze-Guattari 1991, p. 51.

  • 13

    Descartes 1641, pp. 44-46.

  • 14

    Ivi, pp. 46-48.

  • 15

    Cfr. Deleuze 1962, p. 159.

  • 16

    Deleuze 1968, p. 170.

  • 17

    Ivi, p. 169 [mod. mia].

  • 18

    Ivi, p. 176.

  • 19

    Questo argomento richiama implicitamente la celebre tesi bergsoniana, presentata nell’Essais sur les données immédiates de la conscience, secondo cui si è innalzato il pensiero spaziale a paradigma del pensiero tout court, laddove esso risponde, invero, a bisogni squisitamente pragmatici, mentre è del tutto inadatto all’indagine della realtà da un punto di vista speculativo.

  • 20

    Bryant 2008, p. 17 [mod. mia].

  • 21

    Deleuze 1968, p. 172.

  • 22

    Ivi, p. 173.

  • 23

    Polidori 2021, p. 51.

  • 24

    Deleuze 1968, p. 172.

  • 25

    Ivi, p. 171.

  • 26

    Ibidem.

  • 27

    Ibidem.

  • 28

    Aarons 2012, p. 4.

  • 29

    Cfr. Descartes 1637, p. 104.

  • 30

    Artaud 1927.

  • 31

    Ivi, p. 77

  • 32

    Deleuze 1968, p. 191.

  • 33

    Ivi, p. 192.

  • 34

    Ivi, pp. 191-192.

  • 35

    Ivi, p. 193.

  • 36

    Ivi, p. 192.

  • 37

    Ibidem.

  • 38

    Deleuze 1962, p. 161.

  • 39

    Deleuze 1968, p. 176.

  • 40

    Ivi, p. 177.

  • 41

    Questa precisazione può risultare utile alla comprensione ma fuorviante nel contesto della metafisica deleuziana: in essa, il reale è sottratto alla dicotomia soggetto-oggetto, la quale si istanzia soltanto nel momento in cui un soggetto prende le distanze dalla realtà, le si pone dinanzi al fine di conoscerla. L’oggettività non è altro se non un prodotto del trascendentale, qui inteso kantianamente.

  • 42

    Ivi, p. 288.

  • 43

    Ibidem.

  • 44

    Ivi, p. 189.

  • 45

    Cfr. Leibniz 1765, §54-55.

  • 46

    Deleuze 1968, p. 276.

  • 47

    Ivi, p. 197.

  • 48

    Deleuze 1964, p. 44.

  • 49

    Deleuze 1968, p. 197.

  • 50

    Ivi, p. 198.

  • 51

    All’interno del paradigma filosofico deleuziano, il grado minimo non coincide mai con un nulla, con un’assenza radicale e irrimediabile, poiché costituisce sempre un potenziale in grado di agire e di produrre effetti. Nel caso specifico che stiamo trattando ora, l’impotenza del pensiero non esprime soltanto una soffocante incapacità di pensare, ma manifesta soprattutto – e questo è l’aspetto a cui Deleuze sembra tenere maggiormente – la necessità di far nascere il pensiero, poiché esso non è già dato, non si pensa da sempre, ma bisogna iniziare (e soprattutto re-iniziare) di volta in volta a pensare.

  • 52

    Deleuze 1968, p. 79.

  • 53

    Ibidem.

  • 54

    Ibidem.

  • 55

    Ivi, p. 186.

  • 56

    Cfr. Kant 1763.

  • 57

    Kant 1871, pp. 187-188.

  • 58

    Cfr. Barthélemy-Madaule 1966, p. 42.

  • 59

    Malgrado la relativa scarsità di riferimenti all’opera di Jean Wahl, Deleuze non manca di riconoscerne i meriti, nonché la forte risonanza con la sua filosofia: «Tutta l’opera di Jean Wahl è una profonda meditazione sulla differenza; sulle possibilità dell’empirismo di esprimerne la natura poetica, libera e selvaggia» (Deleuze 1968, p. 81, nota 19).

  • 60

    Wahl 1932, p. 40.

  • 61

    Deleuze 1953, p. 105.

  • 62

    Ibidem.

  • 63

    Hume 1739, p. 1249, nota a p. 147 [libro I].

  • 64

    Cfr. Kant 1871, p. 78.

  • 65

    Wahl 1944, p. 18 [trad. mia]. È interessante sottolineare che anche Henri Bergson, maestro di Wahl, aveva tacciato la rinuncia empirista all’impresa metafisica di «un eccesso di umiltà» (Bergson 1907: p. 7).

  • 66

    Wahl 1932, p. 40.

  • 67

    Wahl 1953, p. 411 [trad. mia].

  • 68

    Deleuze 1968, p. 182.

  • 69

    Bryant 2008, p. 98.

  • 70

    Deleuze 1968, p. 182.

  • 71

    Deleuze 1993, p. 51.

  • 72

    Deleuze 1968, p. 184.

  • 73

    Ivi, p. 190.

  • 74

    Deleuze 1984, p. 51.

  • 75

    Ivi, p. 184.

  • 76

    Ivi, p. 183.

  • 77

    Montebello 2008, p. 104.

  • 78

    Vignola 2014, p. 93.

  • 79

    Deleuze 1962, p. 164.

  • 80

    Il concetto deleuziano di incontro potrebbe esser letto come l’opposto dialettico dell’idea di metodo – laddove quest’ultimo è visto come lo strumento per evitare gli incontri inattesi, scomodi, o per trarsene fuori quando vi si incappa (ibidem).

  • 81

    Deleuze 1968, p. 182.

  • 82

    Ibidem.

  • 83

    Cfr. Deleuze 1964, p. 215.

  • 84

    Ivi, p. 95.

  • 85

    Ivi, p. 19.

  • 86

    Cfr. Aarons 1012, p. 6.

  • 87

    Deleuze 1964, p. 19.

  • 88

    Deleuze 1968, p. 182.

  • 89

    Ibidem.

  • 90

    Vignola 2014, p. 90.

  • 91

    Deleuze 1964, pp. 166-167.

  • 92

    Ibidem.

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