Abstract
Il presente contributo ha per tema il nesso concettuale labirinto-inferno. Muovendo brevemente dalla sua origine arcaico-mitologica e assumendone la successiva declinazione cristiana, l’articolo approfondisce poi più propriamente la traduzione secolarizzata e in termini di fantasmagoria dello stesso. Ciò a partire dall’avvento della seconda modernità, quindi dalla transizione al capitalismo avanzato e attraverso autori di riferimento quali i surrealisti Louis Aragon e André Breton, Roger Caillois, Walter Benjamin. Infine il testo propone un’attualizzazione dell’idea labirintico-infernale nel contesto categoriale delle analisi del postmoderno fino allo scenario contemporaneo, interrogando alcuni dei problemi principali posti dalla rivoluzione digitale, la relazione immagine-realtà, le oscillazioni tra il catastrofismo tecnofobico e le utopie accelerazioniste, il dissolvimento delle fantasmagorie del presente.
This contribution deals with the conceptual nexus of the labyrinth and hell. Starting briefly from its archaic-mythological origin and assuming its subsequent Christian declination, the article then delves more specifically into its secularised translation and in terms of phantasmagoria. This starts with the advent of modernity, then the transition to advanced capitalism and through reference authors such as the surrealists Louis Aragon and André Breton, Roger Caillois and Walter Benjamin. Finally, the text proposes an actualisation of the labyrinthine-infernal idea in the categorical context of the analyses of postmodernism up to the contemporary scenario, questioning some of the main problems posed by the digital revolution, the image-reality relation, the oscillations between technophobic catastrophism and accelerationist utopias, the dissolution of the phantasmagorias of the present.
Parole chiave
Keywords
1. In breve, dal meandro degli inferi
Sappiamo essere il labirinto l’immagine archetipica di ogni mito. Altrettanto, grazie agli studi ancora oggi fondamentali di Károly Kerényi, sappiamo corrispondere a questa figurazione una forma arcaica di rappresentazione del mondo infero1. Il tema mitologico ha trovato anzitutto realizzazione nei riti coreutici: il meandro spiraliforme è infatti risultato essere traccia del disegno eseguito dalle danze rituali che mettevano in scena il viaggio dei morti. Tra le fonti al riguardo in area greca, ricordiamo il libro XVIII dell’Iliade, il riferimento sullo scudo di Achille al choros di Arianna nel luogo apprestato da Dedalo (822 ss.). Riti che sancivano la mortalità dell’essere umano sarebbero dunque stati questi balli primordiali, che decretavano, cioè, l’essere umano come «eterno essere vivente-e-mortale»2. La spirale dei corpi, che si avvolgeva da un lato per poi svolgersi dall’altro, stava per l’eterno ciclo di nascita-morte-rinascita. Il filo di Arianna (la fune nel choros) prescriveva questo doppio movimento, verso il Minotauro, l’imprigionamento meandrico, la morte, verso l’esterno, la liberazione, la palingenesi3. Morte, quindi, non come fine o distruzione, piuttosto l’opera di un arco che, con Eraclito, di nome fa bios, cioè vita (Diels-Kranz, 48). Di qui l’importanza dell’«elemento femminile» in tutte le versioni del mitologema: ritorna l’immagine di una fanciulla, divina o semidivina, spesso vergine – Arianna o Persefone in ambito greco, Hainuwele a Ceram –, altrettanto spesso al centro della spirale danzata. “Elemento” che dà la vita – ma, aggiungiamo, che può anche toglierla all’inerme generato, e perciò “elemento” immensamente perturbante. Corpo in metamorfosi, dalla fanciullezza alla maturità sessuale – il rito era talvolta legato al matrimonio, frequente a mezzo di ratto –, che, come tale, rappresenta un evento di morte e rinascita insieme. “Elemento”, quindi, che scandisce anche il tempo della fertilità e sterilità del mondo, delle stagioni. Pertanto alla forma della spirale troviamo connesse le immagini di porte, antri, grotte, acque, grembi4. Labyrinthos in origine avrebbe avuto il significato di «cava di pietra, miniera con molti pozzi, grotte e cavità»5.
Spostandoci in ambito latino, Enea, alla ricerca dell’Averno, prima di dare avvio alla sua catabasi, si ritrova dinanzi l’immane grotta cumana, sul cui ingresso è raffigurato il labirinto cretese. Dedalo infatti, riuscito a fuggire dalla sua stessa opera in cui Minosse lo aveva rinchiuso, proprio a Cuma giungendo aveva costruito il tempio della Sibilla (Eneide, VI, 14 ss.), le cui parole profetiche scandiscono: «facilis descensus Averno, / noctes atque dies patet atri ianua Ditis; / sed revocare gradum superasque evadere ad auras / hoc opus, hic labor est» (Eneide, VI, 126-129). La discesa agli inferi è semplice, la porta di Dite è aperta giorno e notte, ma ritornare sui propri passi, rivedere la luce, qui sta l’impresa6.
La difficoltà del ritorno, d’altronde, caratterizza anche le allegorizzazioni medievali del labirinto. «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate», l’ultimo verso sulla porta dell’Inferno dantesco è verosimilmente un’eco di quelli virgiliani (Inf., III, 9). Più precisamente, dall’Alto al Basso Medioevo si assiste al passaggio dall’idea di un percorso edificante che vuole al centro del labirinto la Sancta Eclesia – è il caso del primo labirinto noto in ambito cristiano, il mosaico pavimentale rinvenuto nella basilica di Santa Reparata nella cittadella romana di Chlef (Algeria) – alla ripresa in termini cristologici del mito di Teseo. Il centro è allora di nuovo Minotauro, nelle vesti di Lucifero. Il centro è l’inferno. I meandri dedalei sono a rappresentare la strada della perdizione, dell’errore: «il labirinto è il mundus, ovvero il mondo nell’accezione cristiano-medievale, concepito come una specie di regno infero». Il nuovo Teseo è Cristo, che, solo, può condurre fuori dal regno della morte dell’anima, della corruzione, verso la vita purificata, redenta7. L’Inferno della Commedia, come imbuto rovesciato conficcato nel centro della Terra, ripropone, con i suoi cerchi e gironi, l’immagine della spirale. Virgilio è scelto come guida da Maria Vergine anche perché conosce la via, avendola percorsa già una volta. Egli giunge in soccorso di Dante smarrito nella «selva oscura» (Inf., I, 2), «selva erronea di questa vita» (Conv., IV, XXIV, 12), «[t]ant’è amara che poco è più morte» (Inf., I, 7)8.
Fermiamo ora qui il breve incipit, perché saranno questi i modelli che prevalentemente forniranno spunti, moduli o motivi al risorgere dell’idea mitologica del labirinto e dell’immagine (secolarizzata) dell’inferno nell’immaginario della modernità.
2. Il mitologema moderno
L’idea labirintica è sempre stata legata anche alla planimetria o al tracciato di un edificio, nei casi maggiormente celebri, metonimicamente alla città stessa, Babilonia, Cnosso. Tale nesso ritorna forte con la nascita della metropoli moderna, dunque, in quel periodo di transizione in cui i modi produttivi, i rapporti sociali e le vite (almeno occidentali) vengono sconvolti dalla cosiddetta seconda rivoluzione industriale, come anche da quelle politiche che costellano il secolo XIX. Come regno ribollente di mode, arte, cultura, rivolte, Parigi emerge come la capitale dell’epoca. Parigi, mythe moderne, scriverà Roger Caillois, mito e sprigionatrice di miti. «Parigi come un oceano», «come una foresta del Nuovo Mondo»9, «come un Eldorado», pur riassumendosi in «venti salotti», Parigi dove «tutto è spettacolo», Parigi che è «al tempo stesso tutta la gloria e tutta l’infamia della Francia»10, soprattutto, Parigi come un «labirinto»11 – è la penna dal seno del secolo di Honoré de Balzac. Balzac, che proprio dei boulevards come dedali della nuova metropoli, i medesimi che il barone Haussmann una trentina di anni dopo porterà a piena realizzazione con il suo piano di ristrutturazione urbanistica, ha offerto una trattazione facendone l’emblema del proprio «poema» parigino. Sul boulevard, ha così scritto, i passanti come «attori inconsapevoli» «declamano il coro dell’antica tragedia»12: il boulevard come il palcoscenico dell’ascesa (e della rovina) di «eroi-tappezzieri», del ceto artigiano o mercantile che pure va ingrossando le fila della borghesia e trasformando la città13. Altrettanto, i boulevards come confine e cintura dell’area sacra del grande tempio metropolitano della nuova religio capitalistica. Alla metà del secolo decimonono, circoscrivono infatti anche le ultime lande alla fine di Parigi, dove «si comincia a sentire di lontano l’atmosfera delle fabbriche» e «[n]on c’è più niente di originale»14.
Abbiamo nominato poco sopra il saggio di Caillois del 1937, un’indagine anzitutto sui cambiamenti degli operatori mitologici. Il XIX secolo rappresenta una cesura nella considerazione dei miti moderni: la «promozione dello scenario urbano alla qualità epica» a cui si assiste in questo periodo conduce infatti Caillois a reinterrogare il rapporto tra letteratura e mito, l’assunto classico, cioè, secondo cui la letteratura sarebbe sempre l’esito (di mero godimento estetico) del declino del mito, del venir meno del suo vincolo coercitivo sul piano morale dell’esistenza collettiva15. È l’intendimento medesimo della nozione di letteratura a mettere in discussione l’assunto: giudicandola non più dal punto di vista del gusto o dello stile, ma da quello quantitativo della tiratura, giunge allora in primo piano, al posto della letteratura dei «letterati», quella popolare – albori della cultura di massa –, la quale presenta «una portata pratica sulla immaginazione, sulla sensibilità e sull’azione» collettive. È il caso della letteratura che nell’Ottocento ha messo in scena Parigi, che palesa «le caratteristiche della rappresentazione mitica»: «supreme grandezze e […] decadenze inespiabili, […] violenze e […] misteri ininterrotti» vengono offerti direttamente dalla modernità. Il mito riconquista allora la propria reale «forza di costrizione», lasciando il territorio romantico dell’evasione16. Si pensi a Lucien Chardon, al suo «ultimo grido d[i] ragazzo nobile e puro»,17 o all’«ultima lacrima di giovane» dal cuore altrettanto puro, romantico appunto (e provinciale), di Eugène de Rastignac18, un attimo prima che la metamorfosi si compia, che cinismo e dissolutezza metropolitani stravolgano la loro vita, che la grande battaglia, da cui la saga, per la conquista eroica della «Città innumerevole»19 inizi. Ha scritto Walter Benjamin in proposito:
La «Comédie humaine» riassume una serie di opere che […] sono […] qualcosa di simile a una trascrizione epica della tradizione dei primi decenni della Restaurazione. Dallo spirito della tradizione orale proviene la interminabilità di questo ciclo […]. Ora Balzac aveva assicurato la costituzione mitica del suo mondo attraverso i determinati contorni topografici di esso. Il terreno della sua mitologia è Parigi. Parigi con i suoi due o tre grandi banchieri (Nucigen, ecc.), con il suo medico sempre ricorrente, col suo intraprendente commerciante (César Birotteau), le sue quattro o cinque cortigiane, il suo usuraio (Gobseck), i gruppetti di militari e banchieri. Ma ciò che più conta è il fatto che le figure di questa cerchia facciano la loro comparsa sempre nelle stesse strade, negli stessi angoli, negli stessi bugigattoli. Che altro può significare ciò se non che la topografia è la proiezione di ogni spazio mitico della tradizione […]?20
Altrettanto, il romanzo di avventura di ascendenza romantica, sottolinea Caillois, fondato sul gusto dell’esotico, del pittoresco, del gotico, nel XIX secolo si trasforma nel romanzo poliziesco, che pure assume la formale struttura dell’epos. Tra il dedalo di strade, cantine, bettole, catacombe, sotterranei, «i misteri di Parigi si perpetuano identici a se stessi». Dietro quella reale, emerge «una Parigi fantasma, notturna, inafferrabile, tanto più potente quanto più è segreta»21. Parigi «Babilonia moderna», dove – Caillois cita G.K. Chesterton – anche «il banale omnibus assume le apparenze antidiluviane di una nave incantata»22. La matrice socio-economica di simili apparenze e più in generale dell’attivazione della rinnovata macchina mitologica23 interessa parzialmente Caillois – il rapporto, per esempio, tra l’ossessione per tracce e investigazione e le forme di straniamento derivate dalla disgiunzione tra spazio pubblico e privato, o tra valore d’uso e di scambio; piuttosto, in linea con il circolo della sociologia sacra, egli saluta positivamente la rinnovata piegatura in senso mitologico della funzione dell’arte (finendo per riaccogliere peraltro in parte l’atteggiamento romantico): l’«aumento del ruolo dell’immaginazione nella vita» dovrebbe infatti, «per natura», «provocare all’atto». Tradurre in forma leggendaria la vita esteriore, «piegare l’estetica verso la drammaturgia»24, in gioco è qui un’idea di mito e di azione politico-trasformativa prossima a quella di Georges Sorel25 – di matrice vitalista, bergsoniana – che sarà poi però anche utile strumento del fascismo. Un gioco azzardato quello dei sociologi del sacro con l’ambiguo, con l’equivoco, col non conformismo26, che ha le sue origini – lì ebbe tutto inizio, prima degli scontri e delle separazioni – nel surrealismo. Ed è stato d’altronde il surrealismo a riprendere e proseguire in altro modo le peregrinazioni ottocentesche attraverso il labirinto metropolitano.
3. La periegesi surrealista
Se nelle rappresentazioni topografiche di Balzac senz’altro i sogni hanno un ruolo centrale, ma già nella loro espressione sociale, l’esperienza surrealista del regno metropolitano, in particolare di Louis Aragon e André Breton, si serve direttamente del materiale psichico inconscio, ricongiungendo così intimamente il dominio onirico con quello infero-labirintico. È il 1926 quando Aragon pubblica Le Paysan de Paris, periegesi che mira a riconsegnare lo spazio urbano in corrispondenza assonante o dissonante con quello (in)coscienziale. La presa di posizione contro gli «umani lumi», la ragione onnipianificatrice «astratto fantasma delle veglie», nonché contro la falsa «dualità» dell’essere umano – sensibile/razionale – è netta27. Si tratta di risalire all’unitario principio generativo delle due facoltà: l’immaginazione. Per Aragon significa recuperare percezione e gusto del meraviglioso, fondare «una scienza vivente autocreatrice e suicida» che dia voce al «moderno sentimento dell’esistenza», alla «mitologia» che in esso «si forma e si snoda»28. Seguendo così la «febbre di fantasmagoria» che tutto circonda29, che disegna strade, angoli, prospettive di Parigi, il paesano – che, con il fantastico romantico, riconquista quindi anche una dimensione provinciale della metropoli – si rimette alla cura dell’immaginazione, che nella pantomima dialogica tra l’essere umano (che evidentemente è un uomo) e le sue facoltà impersona il medico accorso al letto della conoscenza malata. Il farmaco offerto è il surrealismo, «stupefacente venuto dai limiti della coscienza», la terapia consiste nell’«impiego sregolato e passionale» dell’immagine30. Le «contrade dell’istantaneo»31 dischiudono allora anche nuove contrade dello spazio metropolitano; d’altra parte, il sistema delle strade parigine, in questa rinnovata pratica flaneuristica, si fa «rete di arterie dell’immaginazione»32. La città medesima diventa il luogo privilegiato dell’esperienza della surrealtà, secondo il primo Manifesto (1924) di André Breton: «soluzione» dei due stati, «in apparenza così contraddittori», di sogno e realtà, «in una specie di realtà assoluta»33. Ma la ricerca della surrealtà tra gli automatismi della psiche in “libera” combinazione con immagini, sollecitazioni, segni, conduce il paesano nei pressi di una ingenua dicotomia tra natura e storia. Ecco infatti la «rivelazione» che gli giunge nel parco dei Buttes-Chamont34: la natura sarebbe il suo inconscio e il «sentimento» della stessa «solo un altro nome del senso mitico»; «il mito è la sola voce della coscienza»35, «il mito è anzitutto una realtà»36. E l’apoteosi di questa rivelazione è nella visione della «grande donna», scaturigine di ogni forma, «fantasma adorabile», di cui il mondo si scopre essere il (minor) ritratto37. Il parco, allora, appare ad Aragon anche come «l’inconscio della città»38. Un’eterotopia nella metropoli, dove l’elemento naturale è artificiosamente riproposto nudo, isolato da techne e storia, e associato, secondo una tradizione tanto classica quanto patriarcale, al femminile.
L’esperienza dell’ebbrezza, quella ingenerata, prima che dalle sostanze psicotrope, anzitutto dall’immaginazione pura, guida pure l’incedere di Breton con Nadja per le strade di Parigi. Periegesi, che altrettanto offre una rappresentazione densa di corrispondenze meravigliose tra topografia urbana e inconscia. E il perseguire la cancellazione della soglia tra veglia e sonno, il lasciarsi trascinare dagli automatismi psichici39, conduce fino alla porta di ingresso della follia: follia da stimolare, in nome dell’incremento della potenza immaginativa40. Ecco il labirinto. In questo senso, Nadja – torna l’elemento femminile – è emblema, personificazione del surrealismo. La donna, le vicissitudini che hanno originato la sua sofferenza psichica non interessano al soggetto (sia poetico che teoretico) Breton, ma solo i di lei peculiari meccanismi associativi. Nadja è oggetto letterario, idea e ideale: come l’amata mistica nell’amor cortese41, disincarnata perché esito di un’operazione astrattiva, era medium tramite cui Amore agiva dando vita all’epopea delle avventure cavalleresche, altrettanto Nadja viene resa veicolo di accesso all’esperienza surrealista. Su questa analogia insiste anche Benjamin, il cui progetto sulle configurazioni originali del capitalismo avanzato, si sa, è stato all’inizio fortemente influenzato dal surrealismo: «[n]ell’amore esoterico la dama è la cosa meno essenziale. Così è anche in Breton. Egli è più vicino alle cose a cui è vicina Nadja che alla stessa Nadja»42. Come la grande donna di Aragon il cui schema è privo di sostanza.
Ma le cose a cui è vicina Nadja sono il cuore dell’esperienza della modernità per come si è offerta ai surrealisti. Anzitutto – è il loro grande merito secondo Benjamin –, i surrealisti hanno posto il proprio sguardo «sulla distesa di rovine che lo sviluppo capitalistico delle forze produttive si è lasciato alle spalle»43. Ecco il senso del loro interesse per il meandro stratigrafico, nella metropoli e nell’immaginario collettivo, delle cose presto invecchiate, oggetti, abiti, «prime costruzioni in ferro», «prime fabbriche», «prime fotografie», i passages44. Tracce della distruzione dei sogni e delle utopie di un secolo, il XIX prima e a poco a poco il XX, sono queste creazioni cadute presto in disuso; dapprincipio promessa di emancipazione, poi, una volta trasferite nel mercato che tutto crea e tutto, un attimo dopo, annienta, testimonianza di asservimento. L’aver individuato nel declino repentino e continuo del passato prossimo il segreto dell’inferno del capitalismo maturo è il dono inestimabile della ricerca surrealista. Il senso della cui periegesi è allora quello di ricostruire nessi inusitati, là dove la furia divoratrice dei modi di produzione e di scambio li distrugge. Se però la rivendicazione di una «acuita ricettività», addirittura prossima a quella della psicosi oltre che del sogno, del resto stimolata dalla nuova strumentazione tecnica45, è il primo passo per rinvenire le «energie rivoluzionarie»46, ossia il desiderio di liberazione rimasto allo stato di latenza, in oggetti e visioni abortite – una sorta di tenerezza goethiana per l’empiria reificata; d’altro canto, a dire di Benjamin (che condividiamo), i surrealisti restano alla fine avvinti al mito, alla fascinazione onirica, all’estetismo rivoltoso romantico. Mancano il risveglio storico-critico foriero della comprensione e della via d’uscita dal labirinto della modernità. Gli stessi scarti della storia, i prodotti dell’immaginario, dell’inconscio hanno finito per essere misticizzati ed eternizzati dal surrealismo. L’immagine surrealista di Parigi è così da ultimo incarnata dalla Madame Sacco che Breton incontra in Nadja47: una veggente, che, sottolinea sempre Benjamin, nulla ha a che fare con le «magnifiche giornate di saccheggio» per Sacco e Vanzetti, ma con l’«umido stambugio dello spiritismo»48.
4. Il segreto laboratorio del labirinto metropolitano
Veniamo ora proprio a Benjamin. La città, si legge tra gli appunti per i Passages, è «la realizzazione dell’antico sogno umano del labirinto»49. Il verso virgiliano «facilis descensus Averno» è da lui posto in epigrafe al plico C del progetto rimasto incompiuto50. È il plico i cui materiali si addentrano tra i recessi della Parigi arcaica, tra le sue catacombe, tra i resti della città che fu, che in parte è ancora. Alcuni autorevoli interpreti di Benjamin hanno già sottolineato la prossimità tra la Parigi del XIX secolo dei Passages e l’inferno dantesco51. Dante, d’altro canto, è stato un riferimento fondamentale per la critica ottocentesca di Baudelaire, di cui Benjamin tiene ampio conto. E infatti il nome di Dante ricorre soprattutto nel plico su Baudelaire; inoltre, tra le schematizzazioni dell’altro progetto pure rimasto incompiuto, il libro che proprio a Baudelaire doveva essere dedicato, risulta una Dante-Note, inerente alla «Physiognomik der Hölle», alla fisiognomica dell’inferno52. In tal senso, se l’immagine del labirinto nei Passages sembrerebbe rinviare al contesto arcaico, la sua manifestazione nella forma dell’inferno risente in realtà maggiormente delle rappresentazioni medievali (e poi barocche) dello stesso, dunque, dell’immaginario giudaico-cristiano. Appunta Benjamin tra le prime note per i Passages: «[p]arallelismo tra questo lavoro e il libro sul dramma barocco: entrambi hanno in comune il tema della “teologia dell’inferno”»53. In questione non è una temporalità circolare, le cui cesure rituali sono interruzioni volte a rigenerare e ristabilire il ciclo, l’ordine, il cosmo; piuttosto quella della vita storico-creaturale, della vita colpevole post-edenica, lacerata dallo svuotamento di senso, dal relativismo introdotto in particolare dallo scontro Riforma-Controriforma. Eterno ritorno, dunque, non del ciclo, ma del due; duplicazione spettrale, non del simbolo, ma dell’allegoria, dell’equivocità dei significati, data la loro scissione dai significanti54. Il XVII secolo, del resto, è stato anche il secolo della prima transizione ai modi di produzione capitalistici. Così la linea si ricongiunge e arriva fino al XIX, con l’incremento dei ritmi convulsi della grande industria.
Baudelaire si è detto. Figura-emblema dell’epoca per Benjamin. Si pensi allora all’immagine della città «brulicante» di fantasmi in Les sept vieillards; ricorda il poeta di quel giorno in cui «[d]i colpo» giunse un «vecchio, che per gialli stracci / faceva a gara col cielo piovoso», e poi, d’improvviso, «[u]n altro lo seguiva» e «niente lo distingueva dal primo, scaturito, / gemello centenario, da un solo inferno; andavano, / spettri barocchi, in coppia verso una meta ignota», finché «[d]i minuto in minuto / la moltiplicazione di quel vecchio sinistro / fino a sette […] accadde di contare». E da sette si poteva arrivare a otto, e così via all’infinito, sosia su sosia, dalle eterne sembianze55.
L’inferno nel XIX secolo si disloca sulla terra. Non più terra, cielo e inferno, ma terra e inferno, Parigi e inferno56. Nel plico sui movimenti sociali, Benjamin trascrive i seguenti versi di Henri-Auguste Barbier: «Vi è, vi è in terra un tino infernale, / si chiama Parigi; è un grande forno, / un pozzo di pietra dai confini immensi / Che un'acqua gialla e terrosa racchiude con tripli giri; / È un vulcano fumoso e sempre ansimante / Che a lunghi flutti rimesta la materia umana»57. La planimetria di Parigi è il palinsesto su cui si innesta un labirinto a più livelli e strati, spaziali – inferi e superi – e temporali. Monade di meandri – exemplum microcosmico ne è il passage –, dove centro e vie d’uscita appaiono smarriti. Necessaria è un’intelligenza stratigrafica particolare per orientarsi: archeologia, profondità storica, meglio, materialismo storico. Ma anche un’intelligenza teologico-linguistica, seppur laica. L’antica concezione del labirinto, infatti, Parigi la eleva «al livello del linguaggio», mediante la rete dei nomi delle strade58 e delle stazioni che scandiscono l’altro (rispetto all’antico catacombale) «sistema di gallerie [che] si estende nei sotterranei […]: il métro»; «Ade dei nomi» dove, tra i «fischi stridenti», essi si trasformano in «informi dèi delle cloache»59. Nomi che sembrano avere riacquistato il loro originario potere simbolico, ma in verità sono segni estrinseci, luciferini e antinomici, allegorie irrigidite. Soprattutto, il «cosmo linguistico»60 della città innalza al rango nominale il cartellino del prezzo della merce, allegoria per eccellenza della modernità61. «Un inferno infuria nell’anima della merce», è l’inferno dell’arbitrarietà del rapporto tra significante e significato. Scrive Benjamin:
[i] «cavilli metafisici» di cui, secondo Marx, si compiace la merce sono innanzitutto i cavilli della formazione dei prezzi. Come la merce pervenga al suo prezzo è cosa che non si può mai calcolare esattamente né nel corso della sua produzione né in seguito, quando si trova sul mercato. Esattamente la stessa cosa accade all’oggetto nella sua esistenza allegorica: non è in nessun modo stabilito a quale significato lo condurrà l’assorta profondità dell’allegorico. […] E, in effetti, significato vuol dire per la merce: prezzo; come merce essa non ne ha altri62.
È lo scenario di una caduta profana: il peccato si riconfigura nel gesto astrattivo a partire da cui il capitale trasforma tutto senza eccezione in merce. Questo, il centro invisibile del labirinto. Disseminati piuttosto tra le gallerie sotterranee e superficiali vi sono più tori e minotauri: non uno «a cui ogni anno va gettata in pasto una vergine tebana, ma dozzine […] nelle cui fauci si gettano ogni mattina migliaia di sartine smunte e commessi stracchi»63; fuori dal tempio della città, migliaia di operai nelle gole delle fabbriche. Sono queste per Benjamin figure della dannazione: figure frutto della «soggettività, rea confessa, [che] trionfa su ogni illusoria oggettività del diritto, e [che] trova posto anch’essa, in quanto opera della “somma sapienza e ’l primo amore” – in quanto Inferno – all’interno dell’onnipotenza divina»64. Dannati che disperano, perché non possono più abbandonarlo l’inferno65. Tale soggettività ha a che fare con la volontà di sapere luciferina: volontà del soggetto proposizionale, volontà di astrazione. La stessa che trasforma i prodotti della mano umana in grandezze di valore calcolabili sulla base della quantità di lavoro socialmente necessario, il lavoro vivo in lavoro astrattamente umano, morto66, l’oro e l’argento nell’«equivalente generale» del denaro. Con Simmel, dominio del kantiano Verstand e dunque dominio dell’«economia monetaria»67. Così, gli stessi soggetti in carne e ossa che fanno i rapporti sociali di produzione diventano persone, ossia maschere, soggetti astratti di diritto, «tutori» e «rappresentanti» delle proprie merci – che, si sa, «non possono andarsene al mercato da sole» –, in particolare, di quella peculiare chiamata forza-lavoro68. Persona è categoria teologico-cristiana decisiva nella definizione del dogma della Trinità. E Marx riconosce infatti al cristianesimo, «col suo culto dell’uomo astratto», di essere «la forma di religione più corrispondente» a «una società di produttori di merci»69. Persona, personalità, sono nozioni che ritornano in Benjamin per descrivere la stereotipia dei dannati. In un appunto per il saggio su Karl Kraus, egli riflette proprio sulla «nascita della personalità dallo spirito del peccato», definendo l’inferno di Dante «il primo raduno di personalità»70. E se il capitalismo anche per Benjamin sorge nel grembo – come un’escrescenza parassitaria – del cristianesimo e, come tale, sempre di religione si tratta, la sua peculiarità è però di essere una religione priva di dogma: solo culto, celebrato «sans [t]rêve et sans merci», per cui non esistono più i giorni feriali, ma un unico giorno festivo «nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale»71.
Nel plico su Marx, Benjamin propone un’associazione particolarmente pregnante tra l’iscrizione posta all’ingresso del marxiano laboratorio della produzione, quella sulla porta dell’inferno dantesco e la sua Strada a senso unico72. Nella sezione del I libro del Capitale dedicata alla Trasformazione del denaro in capitale, Marx afferma che per svelare «l’arcano della fattura del plusvalore» è necessario scendere nel «segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia è scritto: No admittance except on business»73. Rammentiamo invece per intero l’iscrizione dantesca: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va nell’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore; / facemi la divina podestate, / la somma sapïenza e ’l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate» (Inf., III, 1-11). La strada a senso unico è quella indicata da Marx: entrando nell’inferno del segreto laboratorio della produzione «si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale»74. Questo è il presupposto gnoseologico per poter rompere la fantasmagoria dell’eternità dell’inferno, della naturalità delle leggi capitalistiche. Addentrarsi nella selva sì, sapersi smarrire in essa, ma sfilare poi l’«ascia affilata della ragione»75 per riconquistare lo spazio della soglia tra sonno e veglia. Se il labirinto in cui si smarrisce il Paysan de Paris è un «labirinto senza Minotauro», dove «il piede perduto non lo si ritrova mai»76, a Benjamin interessa invece smascherare il carattere storicamente determinato del labirinto moderno, delle sue fantasmagorie, dei suoi segni privi di referenza. Il Minotauro è l’arcano del sistema di produzione, che è sempre anche un sistema di riproduzione della vita, delle sue forme. Tra i manoscritti di Infanzia berlinese, si trova appuntata una terzina della Commedia (nella traduzione tedesca ridotta di Stefan George), da Paradiso, XIII, 121-123: “Vie più che ’ndarno da riva si parte, / perché non torna tal qual e’ si move, / chi pesca per lo vero e non ha l’arte”77. È il monito di Tommaso d’Aquino a non salpare alla ricerca del vero senza arte – senza metodologia e cautela adeguate nelle distinzioni e nei giudizi. Solo così il labirinto può tornare a essere oltre che figura dello smarrimento, anche dello spirito critico di ricerca.
5. Post- o l’inferno derealizzato
La grande attualità di Benjamin sta nell’aver visto in anticipo e aver analizzato con impareggiabile acume le tendenze più avanzate del capitalismo maturo sin dai suoi albori, già nelle sue configurazioni originali appunto. In particolare, nell’aver individuato quel peculiare meccanismo di funzionamento del capitale consistente nella cancellazione degli spazi della soglia e, al contempo, nella creazione e nell’abbattimento continui di sempre nuovi confini, al fine di annettere sempre nuovi territori nei circuiti della valorizzazione – accumulazione primitiva permanente, diranno Gilles Deleuze e Félix Guattari78. Il che significa, fin dal XIX secolo, colonizzazione pure del desiderio, della percezione, della psiche; ossia, il farsi macchina antropogenetica del capitalismo, produttore anche e non secondariamente di soggettività. Il passage, miniatura del labirinto metropolitano, era un Traumhaus: una casa onirica, ambiente immersivo e totalizzante ante litteram, dove le porte di ingresso e di uscita si confondevano, né soglia né rito di passaggio, nessuna palingenesi, ma solo infinito e infernale transito (che rimuove, insieme alla rinascita, anche la morte); tra i suoi corridoi, cunicoli, navate, le merci in vetrina stavano a segnalare, nel male e nel bene (da sceverare), sogni e investimenti libidici collettivi – «paesaggio originario del consumo», «strada sensuale del commercio»79. Ristrutturazione, quindi, non solo dell’economia monetaria e finanziaria, ma anche di quella pulsionale (per questo lo stesso concetto di rivoluzione chiedeva già di essere ripensato sotto il profilo estetico-sensibile oltre che politico). L’Arianna del meandro dell’età moderna è infatti a dire di Benjamin non più una vergine, ma una prostituta: la prostituzione che si fa di massa nel XIX secolo diventando una delle principali industrie capitalistiche, parla di una decisiva cattura del corpo e della sessualità nel generale processo di mercificazione del mondo80; e, d’altra parte, il lavoro stesso ha cominciato con la seconda modernità a trasformarsi in prostituzione81 – si diventa allora merce e venditori di sé allo stesso tempo, ci si immedesima con la “pura vendibilità”, nel libero mercato si vende tutto, valori materiali e spirituali, affabilità, sorrisi, capacità di godimento, relazionali, di cura, di governo dell’imprevisto, capitale umano o soft skills si direbbe oggi. In tal senso, risulta pregnante la tesi secondo cui il goethiano fenomeno originario del capitalismo avanzato sia da considerarsi il feticismo delle merci, quella dinamica molteplice di scissioni e proiezioni, non solo tra valore di scambio e valore d’uso, ma anche interna all’Io e alla coscienza e all’inconscio collettivi.
È l’origine della logica postmoderna della simulazione e del simulacro: della norma della merce assoluta, che svincola, apparentemente in via definitiva, tanto il valore di scambio da quello d’uso (come la finanza dall’economia reale) quanto l’immagine da qualsiasi riferimento alla realtà82. Idolatria, dominio del fantasma e dello spettacolo, iperrealismo o derealizzazione. L’evaporazione del paradigma rappresentazionale e l’autonomizzazione dell’immagine come simulacro di sé nel contesto della rivoluzione informatica o digitale hanno introdotto una rinnovata cancellazione della soglia tra sonno e veglia – Guy Debord definisce lo spettacolo «il cattivo sogno della moderna società incatenata»83 –, quindi un nuovo sconvolgimento in seno al senso storico. Dalla naturalizzazione delle leggi storicamente determinate della produzione e del mercato capitalistici si è passati alla consumazione della storia, al predominio della sincronia sulla diacronia. È il mondo «dopo l’orgia» di Jean Baudrillard, post-realizzazione/liberazione esauritasi «in tutti i campi» (politico, sessuale, delle pulsioni inconsce, delle forze produttive e distruttive, dell’arte)84, ciò che Fredric Jameson ha definito nei termini di un «millenarismo alla rovescia», dove catastrofe e utopia come possibilità estreme del futuro risulterebbero dissipate e sostituite dal «senso della fine», delle ideologie, delle classi sociali, della produzione industriale, di nuovo dell’arte, della storia appunto85. Esaurimento del possibile stesso, che come tale dà vita a un rapporto col passato di mero citazionismo estetico. Smarrita la profondità temporale, la storia si presenta come un immenso guazzabuglio stilistico da cui pescare elementi per revival e neo-(controcanto al post-)-mode e tendenze – un processo di estetizzazione e contemporanea depoliticizzazione del passato e della società che, a partire dalla globalizzazione, viene inteso anche sotto la categoria di estetica diffusa86. Si potrebbe dunque parlare di post-inferno?
Evidentemente retoriche e immaginario della società post-industriale, post-lavorista, della comunicazione, dell’economia creativo-cognitiva, pacificata dai conflitti sociali, hanno perso di cogenza (e lo si può affermare pur tenendo in considerazione gli ulteriori avanzamenti di realtà virtuale, aumentata e intelligenza artificiale). Riteniamo inoltre convincente l’idea di Jameson secondo cui il postmoderno sia da intendere in quanto «dominante culturale» legata all’egemonia economica e politica degli Stati Uniti d’America87 (dal secondo dopoguerra sino a una ventina di anni fa, possiamo simbolicamente considerare l’11 settembre 2001 l’inizio della crisi di tale egemonia), da pensare dunque interna e in continuità allo sviluppo capitalistico della modernità, come un dispiegamento ulteriore del capitalismo avanzato o tardo capitalismo. E del resto, anche dal punto di vista estetologico, i germi del postmoderno sono da rinvenire già nel kitsch e nel Romanticismo88. In tal modo il postmoderno viene storicizzato. Con esso, anche le sue fantasmagorie.
In base a questa storicizzazione, ci sembra pertinente pensare l’inferno non sotto il segno del post- (o del neo-), come un gioco estetico tra gli altri nel più generale e vacuo gioco del relativismo culturalista. Nell’attuale mondo multipolare, di crisi egemoniche e guerre che stanno reintroducendo la Storia nel pubblico ordine del discorso, mettendo così in discussione l’apparenza della fine delle grandi narrazioni, in un mondo in cui le nuove tecnologie offrono un’immagine ultra-reticolare dei diversi livelli di realtà, risultando, nella loro complessità, sempre più irrappresentabili e pertanto sempre meno criticamente padroneggiabili, un mondo in cui pandemie, cambiamenti climatici e disastri ambientali hanno riammesso il paradigma catastrofista come più che possibile, l’inferno, il labirinto e la stessa polarità catastrofe-utopia tornano a essere le fantasmagorie sociali per eccellenza. Il millenarismo alla rovescia si è ri-capovolto.
In questa cornice, ciò che sembra essere ancora uno strumento diagnostico valido per comprendere l’attuale «inferno dei viventi»89 e per avanzare una rinnovata proposta di pensiero del risveglio storico-critico è l’idea di una generale struttura schizofrenica sottesa alle trasformazioni della percezione e della sua organizzazione, della soggettività. Non si è tornati indietro dal passaggio dal soggetto nevrotico a quello esploso, frammentato, psicotico. E qui Benjamin torna di nuovo profetico: quando legge le modificazioni del sensorio umano, dalla metropoli, passando per la fabbrica, alla sala cinematografica, con lo schema dello choc, del trauma continuo, con la deflagrazione del tessuto connettivo dell’esperienza. In particolare, ancora dirompenti nella loro precisione risultano queste parole sulla nuova innervazione percettiva esito dell’avvento del dominio dell’immagine tecnologicamente mediata: «i molteplici aspetti che la macchina da presa può strappare alla realtà sono in gran parte solo al di fuori di un normale spettro delle percezioni sensoriali. Molte delle deformazioni e delle stereotipie, delle metamorfosi e delle catastrofi che, nei film, possono riguardare il mondo della percezione visiva, lo riguardano di fatto nelle psicosi, nelle allucinazioni, nei sogni»90. In questione è il dominio schiacciante del dato percettivo irrelato, nonché la fissazione auratica, feticistica, di tali deformazioni. Non più tanto surrealtà, ma irrealtà: l’immagine che si impone come di più di realtà, che nega il suo statuto di immagine91 e, sovrana nella sua potenza (la potenza propria del trauma appunto92), derealizza, facendo collassare il linguaggio, mandando in tilt il funzionamento delle combinazioni sintagmatiche. Ciò che Jacques Lacan, nella sua analisi della psicosi, ha descritto come un collasso della catena significante93. L’erosione della diacronia riguarda anche la struttura psichica individuale: l’organizzazione del Sé (o di un Sé) a partire dall’organizzazione in una trama esperienziale grosso modo coerente del proprio passato (ritensioni) e del proprio futuro (protensioni). Il cedimento delle concatenazioni sintagmatiche, dunque di catene di significanti che costituiscono enunciati dotati di senso è un altro modo per nominare il cedimento di questa capacità organizzativa soggettiva. Il paradigma della schizofrenia è il paradigma dell’assenza di legame. La «macchina infernale»94 è quella che annichilisce la mediazione simbolica. Il rimosso non torna più in un linguaggio cifrato da interpretare, perché annichilito è il vecchio soggetto (nevrotico) del desiderio. In questo senso si parla di coazione al godimento-scarica, all’agire reattivo, irriflesso. Altrettanto, di dominio dell’immaginario, del fantasma, dell’allucinatorio. I molteplici ambienti tecnologici che abitiamo, fondati sulla labilità sempre maggiore della soglia tra immagine e realtà (o se vogliamo, di nuovo, tra sonno e veglia) – dalle piattaforme social agli ambienti immersivi virtuali – sanno massimamente essere teatro di questa dissociazione fantasmatica, narcisistica a sfondo psicotico. L’iperrealismo, tutt’altro che ripresa del figurativo, si rivela essere la rivisitazione estrema del Doppelgänger: Ideali dell’Io che nel medium dell’immagine assumono vita autonoma, soggetti tragicamente scissi, iper-identificati con i loro altri ego. Trattandosi di dissociazioni socialmente diffuse, gli stessi avatar o Ideali sono per lo più socialmente determinati, pertanto si assiste a forme che potremmo definire di delirio conformistico95.
Riteniamo allora che l’inferno contemporaneo non sia più tanto (o solo) da ricercare nelle metropoli o megalopoli postmoderne – per quanto i nuovi processi di espropriazione, segmentazione e decentramento le rendano sempre più aliene ai propri abitanti –, ma nella rete, nella realtà virtuale o aumentata, negli schermi dove Io è sempre Altro. L’immane network globale, è stato già sottolineato, tanto fitto e stratificato quanto esteso e privo di centro, ripropone il problema della sua rappresentazione estetica, meglio, della sua irrappresentabilità96. Per essere più precisi, ritorna il tema del sublime, dei limiti dell’immaginazione e del contrasto con la ragione che tenta in modo scomposto di offrire un concetto del tutto, del troppo che sfugge. Lo stesso può dirsi per l’estrema sofisticazione raggiunta dalle macchine, per il sapere tecno-scientifico in esse accumulato. Una simile irrappresentabilità rigenera la fantasmagoria labirintica, di qui le conseguenti altre apparenze fantasmagoriche: l’apocalittica tecnofobica, le teorie complottistiche, da un lato, le felici turbo-utopie, l’ingenuo accelerazionismo, dall’altro. In ogni caso si tratta di tentativi, votati al fallimento, di raffigurazione della totalità del sistema. Il fallimento ha a che fare con l’incomprensione dei rapporti sociali, economici e politici, una volta di più se estensione mondiale e sofisticazione riguardano intimamente l’attuale sistema di produzione e riproduzione delle nostre società. Lo spettacolo, d’altronde, scriveva già Debord, «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini»97. Intendere ciò coincide con la possibilità della disattivazione della macchina infernale. Ma l’intelligenza di ciò deve andare di pari passo con la spinta a un’appropriazione sempre maggiore in senso emancipativo e democratico delle nuove tecnologie – rivoluzione sensibile, appunto, ancora à la Benjamin, innervazioni singolari e collettive altre dei corpi per il tramite di un rapporto ludico e sperimentale con la tecnica98.
Aggiungiamo in conclusione che, se Freud con la sua Introduzione al narcisismo e Lacan con la prosecuzione del discorso attraverso la formulazione dello «stadio dello specchio» ci hanno insegnato che la soggettività umana è costitutivamente scissa, che l’Io sorge tardivo e alienato come aggregato di una molteplicità di identificazioni e che dunque l’immagine ha una funzione causale e morfogena (come dis-morfogena) rispetto alla strutturazione del soggetto, affiora allora l’idea che l’iperrealismo e la derealizzazione digitale capitalisticamente organizzate facciano leva su strutture psichiche, antropologiche profonde, di qui la loro enorme potenza99. Il risveglio può cominciare solo da una tale consapevolezza e da una pari conoscenza delle modificazioni storiche che hanno investito il nostro sensorio. Solo così forse processi critici e altamente politici di disidentificazione dalle allucinazioni sociali possono prendere avvio e attecchire, solo così forse si può fare esodo in forma nuova dalla dicotomia fantasmagorica di catastrofe e utopia e, soprattutto, dall’uso distruttivo e bellico di innovazioni e dispositivi tecnologici. Tornare a pensare, in altre parole, la possibilità reale della trasformazione altrettanto reale.
Note
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Cfr. Kerényi 1941.
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Cfr. ivi, p. 37.
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Cfr. ivi, pp. 56-60.
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Cfr. ivi, pp. 59-60, 44-47.
-
Ivi, p. 55.
-
Ivi, pp. 52-53.
-
Cfr. ivi, pp. 51-52.
-
Nostro il corsivo.
-
Balzac 1835, pp. 14, 112.
-
Balzac 1837, pp. 134, 175, 183, 521.
-
Balzac 1835, p. 32.
-
Balzac 1845, pp. 89, 91-92.
-
Ivi, pp. 100-101.
-
Ivi, pp. 103-104, 107.
-
Caillois 1937, pp. 91, 90.
-
Ivi, pp. 90-91.
-
Balzac 1837, p. 135.
-
Balzac 1835, p. 282.
-
Caillois 1937, p. 92.
-
Benjamin 1927-1940, p. 929.
-
Caillois 1937, pp. 92-93.
-
Ivi, pp. 92, 94.
-
Riprendiamo l’espressione da Jesi 1973.
-
Caillois 1937, pp. 100-101.
-
Cfr. Sorel 1908.
-
Cfr. Hollier 1991.
-
Aragon 1926, pp. 13, 15.
-
Ivi, pp. 16-17.
-
Ivi, pp. 88, 86.
-
Ivi, pp. 65-66.
-
Ivi, p. 65.
-
Benjamin 1927-1940, p. 981.
-
Breton 1924, p. 20.
-
Aragon 1926, p. 108.
-
Ivi, pp. 117-118.
-
Ivi, p. 107.
-
Ivi, pp. 159-160.
-
Ivi, p. 128.
-
Breton 1924, pp. 33, 30.
-
Ivi, pp. 12-13.
-
Breton 1928, p. 79. Sull’immagine mitica della donna in Breton, come altro che non è mai soggetto – piuttosto Verità, Bellezza, Poesia, Rivelazione, soprattutto, Natura –, cfr. de Beauvoir 1949, pp. 236-242.
-
Benjamin 1929, p. 204.
-
Benjamin 1927-1940, p. 1012.
-
Benjamin 1929, pp. 203, 204-205.
-
Cfr. Benjamin 1935-1936, pp. 64, 100, 132.
-
Cfr. Benjamin 1929, pp. 203-205.
-
Cfr. Breton 1928, pp. 130, 64-65, 86.
-
Benjamin 1929, p. 203.
-
Benjamin 1927-1940, p. 481.
-
Ivi, p. 87.
-
Cfr. almeno Schweppenhäuser 1992.
-
Cfr. Benjamin 1989, p. 739.
-
Benjamin 1927-1940, p. 933.
-
Cfr. Benjamin 1928 e Benjamin 1916.
-
Baudelaire 1857-1861, pp. 179-183.
-
Cfr. Benjamin 1927-1940, p. 127.
-
Ivi, p. 811 (tr. it. nostra).
-
Benjamin 1927-1940, p. 915. Su questo, cfr. Desideri 2018, in part. pp. 21-25. Più in generale sul tema del labirinto nei Passages, cfr. anche Gentili 2012 e Montanelli 2022.
-
Benjamin 1927-1940, p. 89.
-
Ivi, p. 915.
-
Cfr. ivi, p. 197.
-
Ivi, pp. 408-409.
-
Ivi, p. 136; tr. it. cit., p. 89.
-
Benjamin 1928, p. 301 (Benjamin cita Inf., III, 6).
-
Cfr. Balzac 1837, p. 237.
-
Ivi, pp. 47-48. Cfr. Benjamin 1927-1940, p. 729.
-
Simmel 1903, pp. 37-42. Sulla risonanza tra queste pagine di Simmel e la metropoli come labirinto in Benjamin, cfr. Desideri 2021, pp. 101-109.
-
Marx 1867, pp. 103-104.
-
Ivi, p. 96.
-
Benjamin 1930, p. 304.
-
Benjamin 1921, pp. 51-52.
-
Benjamin 1927-1940, p. 735.
-
Marx 1867, p. 212.
-
Ibid.
-
Benjamin 1927-1940, pp. 510, 918.
-
Aragon 1926, p. 104.
-
Cfr. Benjamin 1933-1938, p. 64.
-
Deleuze-Guattari 1972.
-
Cfr. Benjamin 1927-1940, pp. 899-900.
-
Cfr. Pateman 1988.
-
Cfr. Benjamin 1927-1940, p. 381.
-
Cfr. almeno Baudrillard 1976.
-
Debord 1967, p. 49.
-
Baudrillard 1987, pp. 26-27.
-
Jameson 1984, p. 7.
-
Per una ricognizione della stessa, cfr. almeno Di Stefano 2017.
-
Jameson 1984, pp. 12-18.
-
Cfr. Mecacci 2017, pp. 41-55.
-
Calvino 1993, p. 164.
-
Benjamin 1935-1936, p. 64.
-
Su questo, cfr. Pinotti 2021.
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Cfr. Correale 2021.
-
Cfr. Lacan 1958.
-
Deleuze 1975-1995, p. 9.
-
Su conformismo e psicosi sociali cfr. Lacan 1958, in part. p. 572. Più in generale su questi temi, cfr. anche Recalcati 2010. Sul nesso tra virtuale e «paradosso dell’identità», cfr. pure Diodato 2005.
-
Cfr. Jameson 1984, pp. 70-73.
-
Debord 1967, p. 44.
-
Per uno sviluppo del tema del rapporto tra tecnica, sperimentazione creativa ed emancipazione/empowerment umano, cfr. anche Montani 2017.
-
Cfr. Freud 1914 e Lacan 1949. Sul tema del rispecchiamento nell’arte fino al mondo digitale, cfr. di nuovo Pinotti 2021 e anche Tavani 2016.
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Informazioni
Cita come: Marina Montanelli, Inferno, post-inferno. Corsi, ricorsi e attualità di un’idea mitologico-fantasmagorica. in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 3 (2023), pp. 53-74. 10.35948/DILEF/2024.4344
- Data ricezione: 31/10/2023
- Data accettazione: 29/11/2023
- Data pubblicazione: 14/12/2023
- DOI: 10.35948/DILEF/2024.4344
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