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Veridicità e sfera pubblica: su un presupposto etico del discorso pubblico democratico

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 06/11/2024
  • Data accettazione: 17/01/2025
  • Data pubblicazione: 30/01/2025

Abstract

L’articolo indaga il ruolo della veridicità nell’etica del discorso pubblico democratico. In primo luogo, valorizzando alcuni aspetti della ricostruzione «genealogica» proposta da Bernard Williams in Truth and Truthfulness (2002), si sviluppa un’analisi del concetto di veridicità, che risulta articolato nelle disposizioni della Sincerità e della Precisione, e se ne approfondiscono le valenze etiche. Si argomenta inoltre a sostegno dell’inclusione di un requisito di veridicità nell’etica della comunicazione pubblica politica, riprendendo criticamente alcune proposte elaborate in ambito deliberativo attraverso il richiamo a punti centrali del pensiero habermasiano. Vengono infine discusse alcune obiezioni volte a evidenziare l’indesiderabilità morale e politica di un principio di veridicità privo di qualificazioni, mostrando come un’etica del discorso pubblico sensibile alla specificità dei contesti e delle relazioni sia attrezzata ad accogliere alcuni aspetti di tali obiezioni senza rinunciare a un impegno prima facie nei confronti della veridicità.

 

In this article, I examine the role of truthfulness in the ethics of public discourse. In the first section, drawing on aspects of Bernard Williams’ genealogical reconstruction in Truth and Truthfulness (2002), I develop a conceptual analysis of truthfulness, understood as comprising the dispositions of Sincerity and Accuracy, and explore its ethical status. In the second section, I argue for the inclusion of a requirement for truthfulness in the ethics of political communication, critically engaging with deliberative proposals and key aspects of Habermas’s thought. The final section addresses objections that challenge the moral and political desirability of an unqualified principle of truthfulness. I argue that a context- and relationships-sensitive ethics of public discourse can accommodate certain concerns raised by these objections while maintaining a prima facie commitment to truthfulness.


Parole chiave
Keywords

Lo scenario di una sfera pubblica dominata da tendenze verso la post-verità (Hohlfeld 2020; Neri 2020, p. 80), forme più o meno inedite di disinformazione (Marchetti 2024), polarizzazione (Sorrentino 2024), frammentazione del pubblico in camere d’eco (Habermas 2023, p. 46) e «bolle» autoreferenziali (Palano 2020), oltreché dalla proliferazione di deepfakes resa possibile dal sempre più agevole e diffuso ricorso alla manipolazione di immagini e di informazioni attraverso tecniche di IA (Rossi 2024, pp. 105-8), ci è ormai sufficientemente familiare da rendere superflua una sommaria ricapitolazione delle difficoltà cui va incontro l’interesse per la verità nel discorso pubblico contemporaneo; altrettanto scontato è che l’insieme di questi processi solleciti al ripensamento della questione filosoficamente classica del rapporto fra verità e politica (Bistagnino-Fumagalli 2019).

Nel presente contributo non interverrò direttamente sulle sfide che le società democratiche contemporanee affrontano nel proteggere lo spazio della comunicazione pubblica politica dalle tendenze alla distorsione della verità e dalle inedite possibilità di manipolazione delle informazioni rese possibili dalle trasformazioni tecnologiche, né affronterò in forma diretta il problema classico – e difficilmente padroneggiabile nello spazio di un articolo – del rapporto fra verità e politica; l’ambizione, più modesta, è quella di discutere una questione preliminare rispetto alle più urgenti sfide contemporanee e al contempo più specifica rispetto al macro-tema della relazione fra verità e politica, ossia quella del ruolo che la veridicità può rivestire in un’etica del discorso pubblico democratico. Nelle pagine che seguono proporrò un’analisi del concetto di veridicità, richiamando alcuni aspetti della proposta classica di Bernard Williams (2005), discuterò del rapporto fra veridicità e sfera pubblica in riferimento ad alcune proposte volte ad elaborare un’etica del discorso pubblico, ed esaminerò criticamente un insieme di obiezioni che sono state avanzate riguardo al ruolo che una norma di veridicità può assolvere nel garantire che tanto il dibattito pubblico in generale quanto le deliberazioni su questioni pubbliche rispondano adeguatamente alle aspettative morali proprie dei cittadini di una società civile democratica.

 

1. Il concetto di veridicità: sincerità, precisione, contestualità

Nell’analisi ormai classica proposta da Bernard Williams in Truth and Truthfulness (2002), com’è noto, la veridicità si compone di due distinti gruppi di disposizioni: essa include infatti tanto la Sincerità, ossia la disposizione a non mentire e a non ingannare gli altri (la disposizione a dire quel che si crede), quanto la Precisione (Accuracy), che consiste nella disposizione «all’acquisizione di credenze corrette e al trasferimento di esse in maniera attendibile nel bacino di credenze condivise» (Williams 2005, p. 46). Affinché una persona possa essere considerata veridica non è pertanto sufficiente che essa dica quel che crede e che si astenga dalla menzogna e da altre forme di inganno, ma è altresì necessario che abbia cura di acquisire credenze corrette e che abbia ragione di asserire quel che asserisce (ivi, p. 91). La tesi di fondo è pertanto che la mancanza di veridicità di un individuo possa derivare sia da un intento consapevole di ingannare l’interlocutore sia dall’insufficiente attenzione e scrupolosità nell’acquisizione delle credenze. Considerate insieme, Sincerità e Precisione rappresentano per Williams virtù della verità, e non semplicemente capacità o abilità, poiché implicano una scelta e uno sforzo intenzionale che deve far fronte a numerosi ostacoli: in particolare la Precisione richiede un «investimento investigativo» nell’acquisizione di informazioni attendibili, la quale comporta sempre un costo per l’individuo, e deve sempre al contempo fronteggiare gli «ostacoli interni» all’acquisizione di credenze corrette costituiti dall’autoinganno, dal wishful thinking e dalla pigrizia; a sua volta, la Sincerità deve scontrarsi con il complesso delle «motivazioni all’occultamento o alla dissimulazione» (ivi, p. 118).

Poiché la veridicità interagisce con altri interessi, scopi e valori e può entrare in conflitto con essi in una pluralità di situazioni (com’è ovvio, gli esseri umani non mirano esclusivamente a comunicarsi informazioni nella forma più efficiente possibile), il suo esercizio richiede «circospezione», intesa come «buona “visione” delle circostanze», capacità di comprendere – non necessariamente a seguito di riflessione deliberata – la forma e la misura eticamente appropriate di condivisione delle informazioni in una situazione specifica (Roberts-West 2020, pp. 105-6). La condivisione di informazioni non è appropriata in ogni situazione, ed è pertanto necessario che la veridicità risulti qualificata dalla comprensione delle forme nelle quali essa può promuovere o danneggiare altri valori o finalità eticamente legittimi: ecco perché essa può essere definita come una «preoccupazione circospetta per la verità nella comunicazione» (ivi, p. 106), ossia come una disposizione che richiede sensibilità ai contesti e alle relazioni particolari (Fritz 2020, p. 150).

È frequente, nella letteratura, una distinzione variamente formulata – e che si rivelerà rilevante più avanti – fra due forme di veridicità: la veridicità «negativa», che consisterebbe in una forte disposizione di principio ad astenersi dalla menzogna e dall’inganno, e la veridicità «positiva», la quale implicherebbe, in aggiunta al rifiuto della bugia e dell’inganno, una disposizione alla franchezza, alla schiettezza, e alla condivisione attiva di informazioni (Carson 2010, p. 257; Scanlon 1998, p. 320). Tale distinzione corrisponde grossomodo a quella kantiana fra la «sincerità» (Aufrichtigkeit), che impone di «dire con veracità [Wahrhaftigkeit] tutto ciò che si dice», e la «schiettezza» (Offenherzigkeit), ossia il «dire tutta la verità che si conosce» (Kant 1989, p. 206).

Nella ricostruzione genealogica proposta da Williams, il valore della veridicità è connesso al fondamentale bisogno di mettere in comune informazioni che gli individui di un ipotetico stato di natura non sarebbero, singolarmente, nella miglior posizione per acquisire. Nella misura in cui la veridicità risulta essenziale al raggiungimento di obiettivi rilevanti per tutti gli individui e per tutti gli interessi e i fini umani, perché rende sicura e stabilizza una pratica cooperativa che è nell’interesse di ognuno (Williams 2005, p. 58), Williams ritiene che essa sia dotata di un valore più che strumentale, e in particolare ritiene che ciò sia sufficiente a mostrare che essa è dotata di un valore intrinseco (ivi, p. 89)1.

Ciò indica una stretta connessione fra veridicità e fiducia: come si vedrà più avanti, alla fiducia nella veridicità altrui viene infatti attribuita una funzione fondativa nelle relazioni con gli altri, talché un venir meno di questa fiducia comporterebbe la messa a repentaglio delle attività cooperative nelle quali gli individui sono impegnati2 (Bok 1979, p. 33). Williams caratterizza la veridicità come una forma di affidabilità (trustworthiness) riferita ai discorsi: generalmente, chi asserisce qualcosa a un altro lo induce al contempo a credere di poter riporre fiducia nella verità della sua asserzione e di poter agire sulla base di tale presupposto (Williams 2005, p. 78). Ecco perché la sincerità e la veridicità richiedono l’impegno a sostenere relazioni connotate dalla fiducia adottando un comportamento comunicativo appropriato alle aspettative dei partecipanti a tali relazioni:

se possiamo ragionevolmente assumere (non deve essere una questione di calcolo o di riflessione cosciente) che le nostre relazioni con il parlante in questione sono del tipo in cui ci si presta fiducia, sicché in realtà ci troviamo impegnati in una conversazione, allora abbiamo ragione di fornire sostegni a tale relazione di fiducia e di parlare in una maniera che risulti ad essa appropriata. Questo è corretto e rappresenta un impegno che è espressione di ciò che sta al centro della disposizione etica della Sincerità (ivi, p. 107).

L’insincerità costituisce pertanto una violazione della fiducia che rende possibile e sostiene la comunicazione e più in generale le pratiche cooperative (Lenard 2008, pp. 633, 635). La principale ragione in virtù della quale la veridicità appare eticamente desiderabile è che i potenziali destinatari hanno motivo di voler essere in grado di far affidamento su quel che gli altri dicono loro, mentre la pretesa, da parte di chi fornisce informazioni, di godere della libertà di fuorviare gli altri risulta difficilmente giustificabile su un piano generale e al di là di circostanze specifiche (Scanlon 1998, p. 318). La stretta connessione fra fiducia e presunzione di verità costituisce pertanto lo «sfondo etico» di ogni comunicazione (Fabris 2018, p. 168)

La veridicità tutela inoltre l’autonomia e la libertà dei potenziali «destinatari» delle informazioni: mentendo o ingannando gli altri, il potenziale «fornitore» di informazioni ne pregiudica la capacità di dare forma alla propria vita attraverso le proprie scelte e secondo i propri fini, compiendo decisioni informate (Fallis 2017, p. 124); ne limita inoltre la libertà sostituendo la propria volontà al «quadro del mondo» che essi avrebbero potuto formarsi se avessero avuto a disposizione le informazioni pertinenti (Williams 2005, p. 113).

L’insieme di queste considerazioni incentrate sulla fiducia, sull’autonomia e sulla libertà è sufficiente a stabilire l’esistenza di una forte presunzione morale contraria alla bugia e all’inganno, e a classificare la veridicità – almeno nella sua versione «negativa»3 – come una disposizione eticamente desiderabile prima facie (Carson 2010, pp. 264-65), la quale può comunque essere superata, in circostanze specifiche, da considerazioni contrarie che facciano leva su interessi quali la tutela della riservatezza, sul rifiuto di fornire informazioni che avvantaggino avversari o nemici che portino avanti piani d’azione che si disapprovano, sulla protezione della sensibilità e della vulnerabilità degli altri (Nyberg 1993).

 

2. Veridicità, politica deliberativa ed etica del discorso pubblico

È stato soprattutto il filone intitolabile alla «democrazia deliberativa» ad aver sottolineato la necessità di vincolare gli scambi comunicativi fra i cittadini che hanno luogo tanto nelle sedi stricto sensu deliberative, quanto nella sfera pubblica, a un requisito di veridicità variamente formulato, capace di garantire la legittimità e la correttezza degli esiti di tali processi discorsivi (Steiner 2012, pp. 153-66). È noto come tale filone si sia volentieri richiamato – non senza semplificazioni e fraintendimenti, derivanti, in particolare, dalla immediata trasposizione nella teoria politica di concetti elaborati in altre sedi e con altre finalità, come quello, peraltro presto abbandonato dallo stesso Habermas, di «situazione discorsiva ideale» (Floridia 2020, pp. 347-48) – ad alcuni aspetti del pensiero habermasiano, e il caso della veridicità non fa eccezione. La veridicità costituisce in Habermas una delle pretese di validità criticabili che le persone non possono non sollevare ogniqualvolta agiscano comunicativamente, ossia ogniqualvolta usino il linguaggio per addivenire a un accordo capace di coordinare l’interazione (Riva 2013, pp. 96-97). Questo si realizza infatti contemporaneamente su tre piani:

Fa parte dell’intenzione comunicativa del parlante a) compiere un’azione linguistica corretta in relazione al contesto normativo dato […]; b) formulare un’enunciazione vera (ovvero presupposti di esistenza appropriati) affinché l’uditore assuma e condivida il sapere del parlante; e c) esprimere opinioni, intenzioni, sentimenti, desideri ecc. in modo veridico affinché l’uditore presti fede a quel che viene detto (Habermas 1986, pp. 419-20)4.

La «comunanza intersoggettiva» dell’intesa viene pertanto conseguita, oltre che sul piano della correttezza normativa e della verità, su quello della «fiducia reciproca nella sincerità soggettiva» (ivi, p. 420). Benché ciascuna pretesa di validità venga esplicitamente e singolarmente tematizzata in tipi diversi di enunciati (constativi, regolativi, espressivi), e benché in particolare la pretesa di veridicità venga tematizzata esplicitamente nei soli enunciati espressivi, essa risulta in realtà sempre operante, ancorché in forma implicita, dal momento che nell’ambito dell’agire comunicativo «le azioni linguistiche possono essere sempre respinte sotto ognuno dei tre aspetti» (ivi, p. 419).

Tale pretesa di veridicità innerva, nel modello habermasiano, anche gli scambi comunicativi che danno corpo alla sfera pubblica politica. Quest’ultima, com’è noto, costituisce per Habermas uno spazio comunicativo intermedio e dotato di funzioni di collegamento fra il sistema politico-amministrativo (l’ambito formale nel quale si svolgono le deliberazioni e si prendono decisioni), i cittadini e la società civile; essa è deputata a svolgere compiti di mediazione, di filtraggio e di controllo (Corchia-Bracciale 2020, pp. 393-96), oltre a costituire lo spazio argomentativo, attraversato dal confronto delle ragioni, nel quale vengono presentate giustificazioni delle azioni e delle leggi dello Stato a fronte di richieste e contestazioni da parte dei cittadini (Piras 2021, p. 31; cfr. Habermas 2013, pp. 369-433). Il dibattito pubblico opera sullo sfondo di «inevitabili presupposti idealizzanti» che, in quanto radicati nella prassi comunicativa quotidiana, risultano descrivibili come «crudi fatti sociali»: fra questi figura la veridicità, dal momento che le prese di posizione affermative e negative devono potersi sviluppare «in modo oculato, senza inganni e costrizioni» (Habermas 2011, p. 71).

Riprendendo alcuni aspetti della proposta habermasiana – ma non necessariamente accogliendone tutte le implicazioni trascendentali5 – sono state elaborate proposte teoriche volte a precisare ulteriormente il ruolo della veridicità nell’ambito di un’etica della deliberazione pubblica6. Quest’ultima espressione fa riferimento all’insieme delle «aspettative informali di appropriatezza» che i cittadini impiegano per criticare o lodare i comportamenti e i discorsi pubblici; il presupposto di tale approccio è che, accanto alle forme di regolazione formale (leggi sulla libertà d’espressione, sul finanziamento delle campagne elettorali, ecc.), le sfere pubbliche siano soggette a una «regolazione normativa informale» che opera attraverso aspettative e norme implicite di natura etica e sociale, in virtù delle quali i discorsi e i comportamenti pubblici possono essere sottoposti alla critica (Chambers 2015, p. 127). Benché tali aspettative risultino altamente variabili in funzione dei diversi contesti, è comunque possibile individuare un insieme di standard etici minimi capaci di garantire la correttezza e l’accettabilità morale dei processi discorsivi e deliberativi: fra questi si richiamano generalmente i prerequisiti di «civiltà» (non ricorrere a parole o azioni che violino, danneggino o sospendano il legame civile), di «intelligibilità» (i contributi devono essere compatibili con la pubblicità e devono essere interpretabili come giustificazioni o ragioni), di «criticabilità» in linea di principio e di «ragionevolezza» (limitare i contributi incompatibili con il perseguimento dell’obiettivo di dar vita a una cooperazione equa fra cittadini liberi ed eguali) (ivi, pp. 128-142).

La veridicità può essere interpretata come un ulteriore prerequisito etico-politico – già parzialmente implicito nelle condizioni di intelligibilità e di criticabilità – necessario a tutelare la sfera pubblica e le sedi deliberative dagli effetti distorsivi prodotti dall’uso manipolativo e ingannevole del linguaggio7, il quale mina alle fondamenta la reciproca accountability implicata nel processo del dare e del ricevere ragioni (Chambers 2021, p. 155).

Se si considera, ad esempio, il fenomeno delle fake news (informazioni false o inventate introdotte intenzionalmente al fine di influenzare opinioni, giudizi e comportamenti politici), le quali sono considerabili come un sottoinsieme delle pratiche manipolative, è lecito sostenere che esse distorcano il processo comunicativo che dalla «periferia» della sfera pubblica dovrebbe condurre al «centro» del sistema politico, poiché minano la «robustezza epistemica» dell’opinione pubblica che dovrebbe emergere dal confronto argomentativo e producono sfiducia dei cittadini nei confronti della legittimità e della razionalità dei processi di formazione dell’opinione e della volontà democratica (ivi, p. 155).

La mancanza di veridicità – intesa tanto come insincerità quanto come mancato impegno nell’acquisizione e nella trasmissione di credenze corrette – sembra pertanto inevitabilmente inquinare il processo attraverso il quale i cittadini offrono reciprocamente ragioni a sostegno delle proprie posizioni. L’adozione di un comportamento manipolativo alimenta, in generale, la sfiducia (Galletti 2020, p. 525), in quanto viola le aspettative comunicative che i cittadini nutrono verso i propri rappresentanti e più in generale verso coloro che prendono la parola e agiscono nella sfera pubblica o nelle sedi deliberative: risulta in tal modo compromesso quel potenziale di gestione, di elaborazione e in alcuni casi di trasformazione della conflittualità politica che dovrebbe in qualche misura inerire alla deliberazione (Lenard 2008, p. 633).

 

3. Limiti della veridicità? Pretesa di verità, retorica, opacità dei moventi, «diplomazia deliberativa»

Il riconoscimento del valore etico della veridicità non è andato esente da contestazioni volte a mettere in rilievo le «virtù della menzogna», ossia le numerose circostanze nelle quali la decisione di ricorrere alla bugia o all’inganno appare eticamente lecita o persino doverosa, oltreché a evidenziare le conseguenze moralmente e politicamente indesiderabili che discenderebbero dall’adozione di un’etica della sincerità priva di qualificazioni (Jay 2014). Qui mi concentrerò su alcune obiezioni specificamente indirizzate all’adozione di un requisito di veridicità come vincolo sui contributi accettabili nell’ambito dei discorsi che hanno luogo tanto nella sfera pubblica quanto in sedi deliberative maggiormente strutturate (Warren 2006; Markovits 2006).

L’eccessiva enfasi sul valore etico della sincerità e della veridicità in ambito politico sarebbe all’origine di distorsioni e di conseguenze patologiche che metterebbero a repentaglio la stessa qualità deliberativa dei processi di formazione dell’opinione e della volontà politiche. In particolare, la pretesa di veridicità finirebbe per risultare operativamente indistinguibile dalla pretesa di verità, o almeno per implicarla necessariamente; ma l’ingresso della pretesa di verità nella sfera pubblica equivarrebbe all’accettazione di una forma di realismo metafisico incompatibile con la natura plurale e multi-prospettica della discussione pubblica, e pertanto coinciderebbe con l’adozione di un’«epistemologia antidemocratica» che precluderebbe la possibilità della critica reciproca delle opinioni (Markovitz 2006, p. 255).

Il principio di veridicità indurrebbe inoltre a misconoscere il ruolo proficuo che la retorica può svolgere nella comunicazione pubblica politica e a svalutare tutti i contributi che non abbiano la forma di argomenti razionali: tuttavia, si obietta, la retorica è in certa misura una qualità inerente a ogni uso del linguaggio, il quale non è mai «naturale» ma sempre esito di scelta e pertanto di «artificio» (ivi, p. 262). Il rifiuto della retorica avrebbe inoltre conseguenze escludenti sulle voci marginali, vittime di una forma di ingiustizia epistemica che induce a liquidare i loro contributi in quanto eccessivamente connotati emotivamente o «mitologici» (ivi, p. 263).

La sincerità altrui e in certa misura anche la propria – si argomenta inoltre sulla scorta di alcune celebri pagine arendtiane di On Revolution (cfr. Arendt 1983, pp. 102-5) – sono inconoscibili, perché per giudicarle sarebbe necessario disporre di un pieno accesso alla vita interiore e ai moventi propri e dell’altro, i quali rimangono e devono rimanere invece inevitabilmente opachi e intrasparenti8: la passione per lo smascheramento dell’ipocrisia degli altri cittadini e degli avversari politici conduce al Terrore e alla pretesa di un’impossibile autenticità che priva l’individuo della maschera necessaria per la sfera pubblica9 (Markovits 2006, pp. 267-268). La critica democratica dovrebbe investire le parole e le azioni, lasciando fuori dal proprio perimetro i moventi, le intenzioni e la vita interiore (ivi, p. 268; Warren 2007, p. 278).

Il principio di veridicità, infine, inibirebbe le potenzialità di risoluzione deliberativa delle controversie, dal momento che delegittimerebbe il ricorso alle «buone maniere», al tatto, e al controllo dell’espressione – tutte strategie, queste, che per quanto implichino una misura di insincerità sarebbero decisive nell’assicurare il buon esito di un certo numero di controversie attorno a «questioni sensibili» (Warren 2006).

Per quanto riguarda il primo punto, è certamente opportuno richiamare la necessità che la sfera pubblica democratica rimanga aperta al confronto e alla critica reciproca delle opinioni: la logica della sfera pubblica, com’è stato opportunamente osservato, è quella delle «cose penultime» (Accarino 2004, p. 103), e non può pertanto ospitare pretese ultimative che chiudano lo spazio discorsivo democratico. Nondimeno questa obiezione – che può far leva su una certa interpretazione di alcuni noti passi arendtiani di Truth and Politics relativi al carattere «coercitivo», «tirannico» e «dispotico» della verità nella sfera pubblica10 – sembra colpire soltanto quelle concezioni della verità che insistano sui suoi caratteri di unicità e di definitività (di non-rivedibilità), laddove invece, ad esempio, una concezione correggibile e fallibile di ogni pretesa di verità, che interpreti il dibattito pubblico come scambio di pretese criticabili di validità riscattate discorsivamente, risulterebbe immune dal sospetto di mettere capo a un arresto della pratica democratica della critica reciproca delle opinioni (Chambers 2021, p. 152).

Quanto al ruolo della retorica, esso appare misconosciuto soltanto da quegli approcci all’etica del discorso pubblico che forniscono un’interpretazione restrittiva ed eccessivamente «esigente» dei requisiti di civiltà e di intelligibilità, liquidando come inappropriati tutti i contributi che non presentino una forma schiettamente proposizionale o argomentativa. L’obiezione non investe tuttavia le proposte di etica della deliberazione pubblica che intendano il requisito di intelligibilità come la condizione secondo la quale i contributi devono poter essere interpretati e comunicati come contenenti ragioni rilevanti, identificando come illegittimi i soli casi di retorica manipolativa, nei quali l’esplicitazione della ragione per il corso d’azione proposto vanificherebbe lo scopo stesso del parlante, e non invece il ricorso alla retorica o la mobilitazione della dimensione emotiva in quanto tali (ivi, pp. 134-37).

La veridicità può riferirsi tanto ai moventi degli attori che operano nella sfera pubblica e nelle sedi deliberative, quanto alle informazioni che essi presentano pubblicamente: i due aspetti non coincidono necessariamente, poiché, ad esempio, un leader politico può risultare veridico riguardo ai propri moventi o scopi ma ingannare comunque i cittadini presentando informazioni distorte (Steiner 2012, p. 157). Esiste quindi un aspetto «fattuale» della veridicità che non richiede l’accesso alle intenzioni altrui per poter essere valutato criticamente: si tratta, nei termini di Williams sopra richiamati, della disposizione della Precisione, per criticare la quale non è necessario postulare un impossibile accesso alla dimensione interiore degli altri, poiché essa può essere vagliata attraverso «un processo critico e approfondito di ricerca agonistica» che ha nella discussione pubblica la propria sede appropriata (Bächtiger 2010, p. 4). L’obiezione dell’opacità delle intenzioni non colpisce pertanto la veridicità tout court, ma il solo versante della sincerità soggettiva. Essa ha il merito di mettere in luce le conseguenze potenzialmente dannose, sul piano morale e politico, di una pretesa di sincerità priva di riserve che è sempre pronta a rovesciarsi in una «caccia all’ipocrita» i cui esiti sono la disaffezione per la politica e il cinismo, piuttosto che un atteggiamento democraticamente vigile e critico. Tuttavia non ritengo che tale obiezione obblighi a quella che parrebbe un’acritica accettazione delle intenzioni dichiarate dagli attori, né che essa comporti la necessità di fare a meno del riferimento alla sincerità in un’etica del discorso pubblico: sembra infatti possibile offrire una traduzione «esteriore» del versante soggettivo del requisito di veridicità, facendo leva, ad esempio, sulla coerenza fra le dichiarazioni e i comportamenti11, oppure facendo riferimento all’«atmosfera» di maggiore o minore reciproca fiducia nella veridicità e nella sincerità fra gli attori di una sfera pubblica o di un contesto deliberativo, una dimensione passibile di indagine empirica che costituisce una «realtà sociale» che non abbisogna di impossibili e ad ogni modo indesiderabili accessi alla vita interiore degli altri cittadini per poter essere colta (Steiner 2012, p. 161).

Infine, non sembra che il requisito di veridicità – perlomeno nella sua forma «negativa» di astensione dalla menzogna e da altre forme d’inganno (cfr. § 1) – imponga di delegittimare il tatto, il contegno e l’insieme di atteggiamenti ascrivibili alla «diplomazia deliberativa». Queste forme di comportamento, che mirano a preservare lo spazio relazionale necessario alla potenziale gestione e trasformazione discorsiva o deliberativa della conflittualità, non risultano infatti incompatibili con la veridicità: non tanto perché le «buone maniere» in questione siano «ingannevoli ma sincere» (Lenard 2008, p. 627), quanto piuttosto perché esse non rappresentano, a mio avviso, una forma d’inganno nella gran parte dei casi. Esse consistono generalmente in un consapevole autocontrollo dell’espressione, in una forma di reticenza e nell’impiego di forme comunicative rispettose dell’interlocutore che non sono ingannevoli, in quanto sono governate da convenzioni universalmente note nei contesti relazionali di riferimento: non è presente quell’intenzione di indurre l’interlocutore ad acquisire o a preservare una credenza falsa che è la cifra definitoria dell’inganno e della menzogna come forma specifica d’inganno, dal momento che nei contesti in questione l’oratore tipicamente presuppone che l’altra parte sia a conoscenza delle convenzioni comunicative rilevanti (cfr. Nagel 2002, p. 7; Mahon 2018, pp. 171-172). Un’etica del discorso pubblico sensibile alle specificità relazionali e contestuali è nelle condizioni di far spazio a una gamma significativa di forme di comportamento «indiretto», come il tatto e la diplomazia, senza dover rinunciare a un impegno prima facie nei confronti della veridicità.

Note
  • 1

    Più precisamente, per Williams il fatto che sia necessario per scopi e bisogni umani fondamentali che gli esseri umani trattino la veridicità come un valore intrinseco è sufficiente per dire che la veridicità è dotata di valore intrinseco (Williams 2005, p. 89). Per una discussione critica di questa tesi cfr. Besussi 2013, p. 226, secondo la quale Williams riesce a mostrare che la veridicità ha un valore estrinseco non riducibile a un valore strumentale, non però che essa abbia un valore intrinseco.

  • 2

    Com’è noto, il legame fra la fiducia e le dinamiche di rivelazione e di occultamento delle informazioni è stato oggetto di intensa attenzione sociologica almeno a partire dall’analisi classica di Simmel, che descrive la fiducia come «stadio intermedio tra conoscenza e ignoranza» (Simmel 1989, p. 299). La caratterizzazione della fiducia come «impresa rischiosa» e fragile, che può essere messa a repentaglio da una menzogna o da una semplice rappresentazione erronea (in quanto investite di valori simbolici relativi al «vero carattere» dell’altro), è un punto caratterizzante dell’altrettanto classica ricostruzione luhmanniana (Luhmann 2002, p. 42), la quale sarebbe peraltro passibile di ulteriore valorizzazione, in questa sede, per la sua polemica nei confronti dei «fanatici di un’etica della verità» (ivi, p. 56). Ringrazio uno dei revisori anonimi della rivista per avermi suggerito di segnalare questo punto.

  • 3

    Devo lasciare qui da parte una discussione dell’argomento di Scanlon (1998, pp. 320-21) a sostegno della tesi che esista anche un requisito morale che impone di fornire attivamente informazioni, e non semplicemente di astenersi dalla menzogna e dall’inganno.

  • 4

    Cfr. anche Habermas 1989, p. 145, dove quella di veridicità è caratterizzata come la pretesa «che l’intenzione manifestata dal parlante sia intesa nello stesso senso in cui viene esternata».

  • 5

    Su questa complessa questione, che non approfondirò in questa sede, mi limito a segnalare la critica rivolta a Habermas da Bernard Williams (2005, p. 208), secondo la quale egli procederebbe a un’indebita trasformazione di una condizione necessaria per la comunicazione e per la deliberazione razionale in un presupposto normativo trascendentale di tutti i discorsi che ogni agente avrebbe sempre una ragione per seguire.

  • 6

    Va segnalato che si tratta di un uso del termine «etica» incoerente con quello habermasiano, che lo riserva invece in senso stretto all’ambito della riflessione sulla «vita buona» (cfr. Riva 2013, p. 98, nota 4). È noto inoltre, a tal proposito, che Habermas rifiuta il modello repubblicano delle virtù civiche e dell’ethos democratico in quanto eccessivamente oneroso (cfr. Rostbøll 2008, pp. 162-164), benché egli abbia anche recentemente ribadito che fra le «condizioni limite» che devono essere soddisfatte affinché possa darsi una politica deliberativa rientra una «cultura politica liberale» dotata di un «nucleo morale» consistente nella disponibilità al reciproco riconoscimento dei cittadini, ossia in uno «stare l’uno per l’altro» che non coincide con una forma di incondizionato altruismo ma con una «limitata disponibilità reciproca ad aiutare» (Habermas 2023, pp. 28-29).

  • 7

    Sullo statuto morale della manipolazione cfr. Galletti 2024.

  • 8

    Naturalmente quello dell’opacità della Gesinnung per l’agente stesso è anche un grande motivo dell’etica kantiana: cfr. ad es. Kant 1997, pp. 43-45.

  • 9

    Sul rapporto fra mascheramento e Öffentlichkeit cfr. ovviamente Plessner 2001.

  • 10

    Cfr. Arendt 1995, p. 48: «Il guaio è che la verità di fatto, come ogni altra verità, esige perentoriamente di essere riconosciuta e preclude il dibattito, il quale costituisce l’essenza stessa della vita politica. I modi di pensiero e di comunicazione che hanno a che fare con la verità, se li si considera dalla prospettiva politica, sono necessariamente dispotici; essi non tengono conto dell’opinione altrui, mentre è proprio il fatto di prendere in considerazione quest’ultima il contrassegno di ogni pensiero strettamente politico». Sull’interpretazione dell’articolata posizione arendtiana al riguardo cfr. Sorrentino 2013.

  • 11

    Come peraltro suggerito dalla stessa Markovitz 2006, p. 268.

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