| Articolo sottoposto a Peer Review

Principio di irrealtà. Estetica e modernismo in Ortega y Gasset

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 10/11/2021
  • Data accettazione: 26/01/2022
  • Data pubblicazione: 28/02/2022

Abstract

Abstract


L'estetica di Ortega y Gasset si inserisce con originalità nel dibattito modernista della prima metà del Novecento. Il paper segue lo sviluppo del pensiero di Ortega Y Gasset avendo come focus il saggio del 1925 La deshumanización del arte, in cui il filosofo spagnolo cerca di fornire una sintesi concettuale dell'arte dell'avanguardie attraverso una precisa grammatica teorica: la metafora poetica, l’oggetto estetico, l’arte come principio di irrealtà.


The aesthetics of Ortega y Gasset is part, with originality, of the modernist debate of the first half of the twentieth century. The paper follows the development of Ortega Y Gasset's thought having as focus the essay of 1925 "La deshumanización del arte", in which the Spanish philosopher tries to provide a conceptual synthesis of avant-garde art through a precise theoretical grammar: poetic metaphor, aesthetic object, art as principle of unreality.


Parole chiave
Keywords

A quasi un secolo dalla sua pubblicazione, 1925, il posto da assegnare al saggio La deshumanización del arte di José Ortega y Gasset appare ancora contraddittorio. Se infatti è possibile leggere questo saggio, il cui titolo efficace al pari di uno slogan perfetto ne ha quasi rimosso i contenuti di merito, come un classico metabolizzato non senza problemi dalla cultura spagnola, non lo è ancora in una visione retrospettiva del “novecentismo”1 nel suo complesso. La particolare declinazione del modernismo di Ortega, inscindibile da quel ripensamento insistito che segna la sua idea di una modernizzazione della cultura iberica, ha probabilmente indotto gli interpreti meno accorti a relegare questo testo in una zona opaca, in una periferia bibliografica inadatta a fornire oggi indicazioni ancora percorribili criticamente.

Una riprova di questa omissione è offerta dai due testi che, in tempi e modi diversi, hanno cercato di fornire un’interpretazione teorica definitiva dell’epopea modernista e, nello specifico, delle avanguardie: Theorie der Avantgarde (1974) di Peter Bürger e The Abuse of Beauty (2003) di Arthur Danto. Se nel primo caso l’assenza di Ortega è comprensibile per la sua estraneità al marxismo (nelle sue accezioni più late, da Adorno a Lukács, e soprattutto Benjamin), che è l’asse portante della lettura di Bürger, nel secondo lo è per l’idiosincrasia nutrita da Ortega per l’estetica anglosassone, di cui il testo di Danto rappresenta una sintesi quanto mai problematica, essendo convincente nei suoi esiti retorici più che in quelli teorici. In questa cornice parziale La deshumanización del arte assume quasi un ruolo ancillare rispetto ai due testi che assurgeranno a riferimento assoluto di un modernismo almeno a due facce: il modernismo critico2 di Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit di Benjamin e quello militante di Avant-Garde and Kitsch di Greenberg. Eppure a uno sguardo più accorto il testo orteghiano manifesta le stesse urgenze, la stessa necessità di definire a caldo ciò che è ancora in atto, una tensione, a stento trattenuta, di risolvere l’estemporaneità della cronaca nella datità storica. Se paragonata a quelle di Benjamin e Greenberg la tesi modernista di Ortega infatti rivela un fondo comune, tanto che si potrebbe riprendere alla lettera la stessa citazione indiretta di Aristotele che Ortega inserisce ne La deshumanización del arte: «le cose differenti si differenziano in ciò che si assomigliano»3.

Oggetto estetico e metafora

La formula privativa, disumanizzazione, del testo del 1925 non è un unicum nella riflessione estetica di Ortega. La stessa strategia retorica è utilizzata nel saggio del 1914 Ensayo de Estética a manera de prólogo, il manifesto del novecentismo estetico di Ortega, nel quale appare una affermazione tanto lapidaria quanto decisiva per comprendere il problema centrale de La deshumanización del arte: «L’arte è essenzialmente IRREALIZZAZIONE»4. Questo esito, dal quale Ortega non si discosterà mai, rimanendogli fedele anche nei saggi tardi dedicati a Velázquez e Goya5, si ritrova già embrionalmente nel primo contributo importante che Ortega dedica all’estetica, Adán en el Paraíso del 1910. La deshumanización del arte è pertanto da intendersi come tappa finale di una trilogia modernista che porta a compimento concezioni non dissimili dall’estetica fenomenologica tedesca e dalla nascente critica d’arte modernista inglese.

Adán en el Paraíso, prendendo spunto dall’opera del pittore Ignacio Zuloaga, mette per la prima volta a fuoco in Ortega uno dei dogmi del modernismo: la specificità del medium. Attraverso questo sforzo, apparentemente tecnico se non tecnicistico, Ortega dà vita a una delle sue prime celeberrime affermazioni: «Ci sono, quindi, pittori che dipingono cose e pittori che, servendosi di cose dipinte, creano quadri»6. Il quadro è quindi una realtà altra («un mondo di secondo piano»), la cui natura si rivela essere «essenzialmente virtuale», un’unità, composta di cose, e che al contempo è più di una cosa, di una semplice somma: è un «elemento indiscutibilmente irreale, per il quale non si può cercare in natura nulla che gli sia congruo»7. Questa unità a cui Ortega allude è un’«unità trascendente», il criterio capace di organizzare plasticamente il dipinto che così espone una realtà propria, autonoma rispetto alla realtà concreta. Realizzare un’opera d’arte significa allora comprendere che la realtà dell’opera non è quella della cosa copiata, ma che l’arte è null’altro che il processo che disarticola la natura per articolarla ex novo in una forma estetica. Se il contenuto eterno dell’arte rimane sempre lo stesso, esprimere l’esigenza radicale dell’uomo come problema centrale della vita – tema che troverà la sua immediata formulazione nel primo decisivo esito di Ortega, le Meditaciones del Quijote –, le forme di queste espressioni sono specifiche. Ogni arte ha una sua articolazione tecnica precisa: la pittura si compie nella luce, il romanzo nel dialogo.

L’idea che l’arte è nel suo complesso un processo di individualizzazione è ripresa con maggior forza quattro anni dopo in Ensayo de Estética a manera de prólogo. Ortega approfondisce la concezione dell’arte come attività di irrealizzazione, ossia di realizzazione dell’opera su un piano altro rispetto alla realtà concreta. L’opera che si organizza attraverso leggi proprie, e ogni arte ha le sue, espone pertanto una doppia irrealtà mimetica: un’alterità rispetto al reale e una destrutturazione del reale per configurarne uno nuovo. Il valore dell’opera risiede, in questa ottica pienamente modernista, non nell’esporre un contenuto, ma nel mostrare un processo che apre una nuova realtà. Don Chisciotte, afferma Ortega in uno dei passi centrali del saggio, non è un sentimento di Cervantes o del lettore, non è una persona reale o meramente di finzione, non appartiene né al mondo fisico né a quello psicologico: è una realtà estetica, un’irrealtà. Né oggetto reale o materiale né oggetto emotivo o fantastico – la differenza tra queste due categorie è data per Ortega rispettivamente dallo loro esistenza e inesistenza –, l’opera d’arte si definisce come «oggetto estetico», un oggetto che esibisce un processo di irrealizzazione, anzi è questo stesso processo:

l’essenza dell’arte è creazione di una nuova oggettività nata dalla previa rottura e dall’annientamento di oggetti reali. Di conseguenza, l’arte è doppiamente irreale; in primo luogo, perché non è reale, essendo qualcosa di diverso dal reale; in secondo luogo, perché questa cosa diversa e nuova, che è l’oggetto estetico, porta in sé come uno dei suoi elementi la frantumazione della realtà. Come un secondo piano è possibile solo dietro un primo piano, il territorio della bellezza inizia solo ai confini del mondo reale8.

Leggere l’oggetto estetico come processo di irrealizzazione induce Ortega a formulare due concetti tra loro relati che definiscono sia in senso passivo (fruitivo) sia in senso attivo (produttivo) l’oggetto estetico: il godimento estetico e la metafora. È proprio introducendo la discussione di queste due dimensioni dell’estetico e, si potrebbe aggiungere, del mimetico che Ortega si affianca da una parte ad alcune posizioni dell’estetica fenomenologica e, dall’altra, a quelle della critica modernista inglese di inizio Novecento. Il godimento estetico è per Ortega quella specifica esperienza dell’io in cui si rende «patente l’intimità delle cose, la loro realtà operativa»9. È quindi ovviamente una dimensione totalmente altra dal piacere sensoriale, che si fonda sul consumo dell’oggetto materiale, e dall’emozione sentimentale, che registra l’immaterialità (e non l’irrealtà) della fantasticheria. Una posizione certamente non dissimile da quella di Moritz Geiger tematizzata un anno prima, nel 1913, nei Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses. Anche qui al centro è il concetto di godimento nella sua accezione più esplicita, ma anche nella sua distanza da una generica nozione di piacere (Lust). Geiger accentua il rifiuto dell’identificazione tra godimento e piacere, in modo senz’altro più deciso rispetto a Ortega, e traccia la distinzione tra godimento (in generale) e godimento estetico: il godimento estetico non è il «godimento del bello», che rappresenta una sfera più specifica del godimento estetico, infatti si può godere esteticamente di oggetti non belli o di stati d’animo (la tristezza, la nostalgia). Condizione generale del godimento estetico è per Geiger la distanza che si frappone tra l’io e l’oggetto, condizione che da Kant fino a Lipps – autore che Ortega nell’Ensayo critica aspramente attribuendogli una interpretazione corriva ed elementare dell’esperienza estetica – è stata indicata col termine «contemplazione»: questa condizione la si ritrova «quando si ascolta una melodia, quando si sfiora con le dita, leggermente, una superficie levigata, oppure quando si assaggia un vino pregiato; non, però, quando si tracanna assetati un bicchiere d’acqua»10. Da ciò deriva per Geiger che «tutti i godimenti estetici sono godimenti di contemplazione», laddove si attiva una presa di distanza del soggetto rispetto all’oggetto, tanto che si può assumere come definizione di massima del godimento estetico «l’affermazione per cui il godimento estetico è un godimento nella contemplazione non interessata della pienezza dell’oggetto»11.

Non distante da questa impostazione Ortega indica la visibile specificità del godimento estetico nella «metafora», ossia la «forma elementare» in cui un oggetto diventa «trasparente a se stesso»12. Atto produttivo del soggetto e atto costitutivo dell’oggetto estetico, la metafora, o meglio il processo di metaforizzazione, è ciò che designa la dimensione irreale dell’arte. L’identificazione tra oggetto estetico e oggetto metaforico non è altro che il necessario passaggio che Ortega tematizza per determinare il nesso tra estetico e artistico. La metafora è «l’elemento elementare» dell’oggetto estetico, anzi «è l’oggetto estetico elementare», una dualità che fa sì che «il termine “metafora” significa sia un procedimento sia un risultato, una forma dell’attività mentale e l’oggetto raggiunto per mezzo di questa attività»13. Se si tiene presente questa insistenza di Ortega sul carattere metaforico dell’arte, tema su cui ritornerà in modo più stringente ne La deshumanización del arte, si può comprendere come il metaforico svolga contemporaneamente due ruoli fra loro contrapposti: è sinonimo di mimetico, ma ne è anche la negazione. Nel suo complesso la metafora è l’arte («il metaforico non è l’assimilazione del reale»14), ma è anche ciò che descrive nella sua ontologia più specifica l’arte «nuova», ossia l’arte modernista. La metafora è quindi un nuovo livello del mimetico, un livello in cui la mimesis abbandona il suo tradizionale vincolo al reale, scoprendo non solo la sua dimensione di irrealtà, ma anche quella di costante ricerca metalinguistica, quel processo che Ortega denominerà «disumanizzazione».

La mimesis orteghiana, in questa prospettiva, rientra problematicamente in quel contesto della critica d’arte modernista – ed è la seconda parentela di Ortega al dibattito estetologico del primo Novecento oltre alla fenomenologia – che aveva visto operare negli stessi anni Roger Fry e che aveva posto al proprio centro il rifiuto deciso della mimesis come paradigma esclusivo della produzione artistica. Per Fry, infatti, l’arte non è mai da interpretare come atto mimetico, una convinzione che segnerà tutta la sua riflessione e che trova il proprio compimento teorico nel saggio manifesto del 1909, An Essay in Aesthetics. Qui Fry puntualizza che la necessaria premessa dell’arte sia la distinzione tra vita reale e vita immaginativa, di cui l’arte è la manifestazione. Questo processo si realizza attraverso l’espressione di emozioni pure, fini a sé stesse, nelle quali emergono alcuni connotati formali dell’opera (linee, colori). L’impostazione formalista di Fry è ribadita nel riconoscere all’opera una potenzialità di cui la vita reale è priva, un’osservazione prossima al concetto di irrealizzazione di Ortega. Se infatti nella vita reale le emozioni ci colpiscono in modo troppo ravvicinato per essere percepite con chiarezza, nella vita immaginativa, ossia nella fruizione contemplativa dell’opera d’arte, non solo è possibile provare l’emozione, ma anche osservarla. Fry può quindi non solo riaffermare l’idea per cui «l’arte apprezza l’emozione in se stessa e per se stessa»15, ma rafforzare questa concezione in un’ottica formalista tanto da identificare l’arte con «quella chiara contemplazione disinteressata che è caratteristica dell’attitudine estetica»16. I principi formali dell’opera e quelli percettivi del fruitore concorrono a rendere l’esperienza estetica altra rispetto alla vita reale. Si tratta a ben vedere dello stesso processo di metaforizzazione di Ortega: la non assimilazione del reale in Fry è declinata in un’ottica più formalista per la quale la contemplazione dell’opera si esplicita in sensazioni di «ordine» e «varietà» che si mutano – Ortega avrebbe affermato che «si metaforizzano» – in principi emotivo-espressivi che non devono riconoscersi necessariamente in criteri di bellezza percettiva, che determina solo la vita reale.

Disumanizzare e irrealizzare

Quando Ortega pubblica La deshumanización del arte, il testo si rivela immediatamente come una sorta di pamphlet in cui almeno tre livelli di indagine si intrecciano fra loro: il giudizio sulle avanguardie, una considerazione complessiva sull’identità dell’arte nella modernità e la constatazione sociologica delle stratificazioni del gusto nella società di massa. L’analisi di Ortega tralascia volutamente ogni riferimento concreto, sono pagine in cui l’assenza di nomi di artisti, di riferimenti a opere specifiche assume i tratti di un’apoditticità che non ammette discussioni e confronti. Tranne sporadiche menzioni (Debussy, Mallarmé, Pirandello), talmente esemplificative da essere quasi banali ed ermeneuticamente irrilevanti, se non addirittura scolastiche, La deshumanización del arte manifesta senza alcuna esitazione l’idiosincrasia orteghiana per il biografismo, un tratto che diventerà al tempo stesso paradossale, ma del tutto comprensibile nei ritratti che saranno dedicati a Velázquez e Goya negli anni Quaranta e Cinquanta. E se nell’altro saggio estetico del 1925, Ideas sobre la novela, Cervantes fa una comparsata trascurabile, in La deshumanización del arte il grande convitato di pietra appare essere Picasso. Il saggio è così, da una parte, la conclusione della trilogia modernista (Adán en el Paraíso e Ensayo de Estética a manera de prólogo) e, dall’altra, un insolito prologo al confronto con la tradizione artistica spagnola: l’innominato Picasso rinvia al confronto critico, esplicito, con Velázquez e Goya, ai quali Ortega applicherà ancora gli esiti teorici del ’2517.

L’anima modernista de La deshumanización del arte è evidente fin dalle sue premesse. L’arte «nuova» è un’arte non solo impopolare, ma addirittura antipopolare: la nuova arte si situa al polo opposto del Romanticismo, l’ideologia che, incontrastata, aveva determinato l’estetica dell’Ottocento. Questa mossa, che colloca Ortega nella piena ortodossia modernista e novecentista, consente di legare la dimensione estetica a quel nuovo attore sociale che tanto lo avrebbe impegnato negli anni a venire, la massa. L’arte nuova produce un «curioso effetto sociologico» articolando il pubblico in due sistemi culturali, la massa e l’élite: «l’opera d’arte, dunque, agisce come un potere sociale che crea due gruppi antagonistici; che divide e seleziona, nel mucchio informe della moltitudine, due caste differenti di uomini»18. Questo assioma, che tra l’altro segna anche l’incipit di Avant-Garde and Kitsch di Greenberg, se può essere considerato un assunto quasi tautologico dell’estetica modernista, in Ortega è declinato in una prospettiva di psicologia sociale fastidiosamente politically incorrect. La massa, erede dell’immaginario romantico nella sua semplificazione kitsch, confligge con l’arte nuova non tanto perché ne rigetta i valori estetici, un mero rifiuto collettivo di gusto, quanto perché questa arte ne esibisce, come lo specchio deformato del feticismo della merce di marxiana memoria, l’essenza sociale gregaria. L’arte novecentista si muta allora nell’autocoscienza della massa stessa in un singolare ed inedito processo di riconoscimento ed alienazione. La massa, suggerisce Ortega, individua la propria identità solo attraverso una dimensione di irritante estraniazione. Sarà proprio la rimozione di questa irritazione ciò che nel 1930 Ortega denominerà «ribellione delle masse», la pretesa, riuscita, della volgarità di affermarsi in quanto tale: «la musica di Stravinskij o il dramma di Pirandello hanno l’efficacia sociologica di obbligare la massa a riconoscersi per quella che è, come ‘solo popolo’, mero ingrediente, tra gli altri, della struttura sociale, inerte materia del processo storico, fattore secondario del cosmo spirituale»19.

L’antagonismo sociale, che per Ortega è sia precondizione sia esito dell’arte nuova, si riflette pienamente in ciò che viene fruito nell’arte: la massa che ricerca nell’arte esattamente ciò che ricerca nella vita («figure e passioni umane») e una élite che riconosce nell’arte nuova quella dimensione di irrealtà propria della vera arte – «l’oggetto artistico è artistico solo in quanto non è reale»20. La prima opzione è l’adozione del «punto di vista umano», ossia concepire l’arte come duplicato della realtà, come un mero «estratto di vita», ed è esattamente l’eredità di un romanticismo filtrato attraverso il naturalismo del secondo Ottocento. L’arte che si compie non nel suo specifico mimetico, ma nella sua narrazione extra-artistica: l’arte appunto come calco della realtà naturale ed emotiva in cui immedesimarsi. L’«arte artistica», singolare formula rafforzativa con cui Ortega sottolinea il carattere metartistico del novecentismo, al contrario rappresenta il secondo indirizzo, quello modernista appunto, nel quale si realizza un processo di disumanizzazione in cui l’arte ha come proprio riferimento sé stessa: disumanizzare l’arte significa esattamente eliminare la visione abituale che l’uomo ha della realtà. L’arte si ricompone in esperienze proprie, complesse, la cui fruizione non è immediata come tanta arte del Novecento attesta: «sono emozioni secondarie che questi ultra-oggetti provocano nell’artista esistente in noi. Sono sentimenti specificamente estetici»21.

Ortega propone una dettagliata cartografia dell’arte nuova che configura questa fuga dall’uomo: la negazione del passato come ideologia, la prassi del gesto artistico intesa come gioco e come null’altro che creazione d’arte, l’iconoclastia e l’assolutizzazione della metafora come forme mimetiche e l’ironia come contenuto finale. L’ostacolo che la massa frappone fra sé e l’accesso a una corretta fruizione dell’arte nuova è per Ortega l’indugiare insistito nell’umanizzare l’oggetto estetico, ossia la ricerca acritica della sfera melodrammatica che l’arte dovrebbe offrire. Incurante dell’opera in sé, la massa riporta l’arte nella vita togliendole quei valori di irrealtà che la definiscono propriamente arte. Radicalizzando il principio del disinteresse kantiano, una mossa che sostanzialmente rappresenta il dogma imprescindibile di tutto il modernismo, Ortega ritrae i disvalori estetici che la massa fa propri: il godimento estetico come immedesimazione e l’autoreferenzialità emotiva del soggetto. Nell’arte la massa ricerca, quindi, unicamente ciò che di reale può riconoscervi, ma questo è propriamente la negazione dell’arte: infatti «il pianto e il riso sono esteticamente delle frodi. L’espressione della bellezza non supera mai la malinconia o il sorriso. [...] Invece di godere dell’oggetto artistico, il soggetto gode di se stesso: l’opera è stata soltanto la causa e l’alcol del suo piacere»22.

Il passaggio da una interpretazione di un’arte esclusivamente foriera di stati emotivi a quella di un’arte concepita essenzialmente come principio e processo metalinguistico comporta nell’argomentazione di Ortega una revisione dell’idea stessa di soggetto estetico. L’irrealtà non coinvolge solo l’oggetto estetico, l’opera, ma anche colui che la crea, l’artista. Rifiutando la drammatizzazione romantica dell’estetica del genio, Ortega opta, e non poteva essere altrimenti, per una separazione netta fra biografia e atto creativo. Una convinzione che assumerà tratti quasi paradigmatici nella lettura orteghiana di Velázquez e che segnerà il conseguente rifiuto decennale della critica più ortodossa che certo non poteva accettare l’assunto di fondo di questa interpretazione23. Decostruire l’io dell’artista non è altro che il consolidamento di quella «disumanizzazione» che l’arte nuova esplicita nel suo processo di irrealizzazione, come Ortega sentenzia, infatti, «il poeta incomincia dove l’uomo finisce»24: il poeta è l’io irreale dell’uomo come l’arte è l’irrealtà rispetto ai contenuti di realtà della vita. Irrealtà allora qui sta a significare propriamente costruzione del possibile, questo è propriamente il lavoro poetico e artistico: «Il destino dell’uomo è quello di vivere il suo itinerario umano, mentre la missione del poeta è quella di inventare ciò che non esiste. Solo in questo si giustifica l’attività poetica. Il poeta aumenta il mondo, aggiungendo al reale, che già esiste per se stesso, un continente irreale. Autore deriva da ‘auctor’, colui che aumenta»25.

L’arte nuova, osserva Ortega, in questa sua demolizione dei contenuti umani della realtà, si impegna in un’attività che parla unicamente a sé stessa, espone quindi il proprio «carattere intrascendente» annullando la serietà dell’arte tradizionale (ottocentesca). Al centro di questa «inversione estetica» è collocato, come Ortega aveva già fatto nell’Ensayo de Estética a manera de prólogo, il dispositivo mimetico della metafora, la quale a sua volta, trova nella poesia la sua dimensione apicale: «la poesia oggi è l’algebra superiore delle metafore». La poesia che, sebbene il riferimento a Mallarmé induca a interpretare il poetico in senso scolasticamente restrittivo, è null’altro che il metalinguaggio del metaforico, vera e propria demiurgia dell’irreale. L’autonomia dell’arte, presupposto dell’intero sistema classico dell’estetica moderna, si muta in metodo se non addirittura in principio fondativo del moderno stesso. E i pur accorti tentativi orteghiani di attenuare il primato della metafora in favore di altri metodi di irrealizzazione (il surrealismo, l’infrarealismo), appaiono soltanto come semplici passaggi obbligati. La radicalità della metafora permane come paradigma fondante di un processo che esibisce la vita irreale delle idee: «farle vivere nella loro stessa irrealtà è, per così dire, realizzare l’irreale in quanto irreale. In questo modo noi non andiamo dalla nostra mente verso il mondo, ma all’inverso, diamo plasticità, oggettiviamo, “mondanizziamo” gli schemi, l’interiore e il soggettivo»26.

Come Pirandello compone un «dramma di idee», come Proust scrive romanzi in cui «il carattere non drammatico del romanzo raggiunge il suo limite ultimo»27, così tutta l’arte nuova è impegnata in una ormai inevitabile non assimilazione del reale che assume la forma antipopolare dell’ermetismo. Questa scissione sociale che l’arte nuova ha provocato, promuovendo una fruizione estetica che nega il sentimento a favore dell’intelletto, la «disumanizzazione», si riversa nell’analisi sociologica che Ortega compie in quello che rimane il suo scritto più celebre, La rebelión de las masas, nel quale si registra la volgarità come nuova forma di interpretazione della realtà, e di conseguenza anche dei valori e dei contenuti culturali. Ciò che viene respinto come non comprensibile, interpretato come lascito insoddisfatto di quel bisogno mimetico ed emotivo che aveva definito la fruizione dell’arte premodernista, è un inedito aspetto di gioco, di farsa («essere artista equivale a non prendere sul serio l’uomo che è ciascuno di noi quando non è artista»28) e il destino ironico che assegna all’arte un ruolo marginale («nello svuotarsi di ogni emotività umana, l’arte rimane priva di trascendenza, come sola arte, senz’altre pretese»29).

La deshumanización del arte aveva colto il problema centrale che l’arte nuova aveva presentato: il Novecento non poteva essere letto attraverso le categorie dell’Ottocento. Un assunto ovvio che, in prospettive tra loro diverse, consentiva di comprendere le critiche che le avanguardie storiche potevano ricevere dai loro stessi maggiori interpreti. Si pensi soltanto alla perplessità di Gertrude Stein davanti al surrealismo, perplessità tuttavia partigiana perché espressa nel confronto con l’opera del riferimento assoluto di Stein, ossia Picasso, e alle puntuali osservazioni di Benjamin sull’inevitabile anacronismo tecnico delle avanguardie davanti allo scatto ontologico compiuto dalle arti tecnologiche. Eppure il modernismo di Ortega non era una questione di militanza, di adesione alla contemporaneità e nemmeno, a ben vedere, di preferenze di gusto. Nell’arte nuova Ortega poteva mettere alla prova quelle convinzioni estetiche già rodate nei saggi precedenti e lo poteva fare con maggior tangibilità, con maggior possibilità di riscontri effettivi. Il processo di irrealizzazione nel novecentismo da metodo artistico era diventato anche sistema ideologico, ma questo raddoppiamento era propriamente la specificità dell’arte nuova e non un suo patrimonio esclusivo, poiché l’irrealtà è sempre stata la condizione fondante dell’arte. Lo dimostra il nucleo teorico dell’intera interpretazione orteghiana di Velázquez e Goya, un’interpretazione, oggi possiamo dirlo, totalmente modernista. Spogliati della loro biografia, ossia ciò che Ortega chiamerebbe il «reale» e l’«umano», l’opera dei due pittori è affrontata con le stesse categorie de La deshumanización del arte. Su Velázquez: «la riduzione della pittura a pura visività. Las meninas sono in qualche modo la critica della retina pura»30, «il quadro, che era mezzo, tramite e transito verso un altro mondo “bello”, diventa termine e mondo in se stesso»31, e ancora, «la precisione delle cose è precisamente la loro irrealtà»32; su Goya (sebbene le concessioni orteghiane alla problematicità biografica del pittore siano più evidenti): «il protagonista è il quadro stesso»33.

Rimane, per concludere brevemente, il problema Picasso. Le fugaci apparizioni del pittore nell’opera di Ortega sono trascurabili, irrilevanti, di fatto inesistenti. Fedele alla sua idea di non personalizzare l’arte, Ortega rimuove dalle sue analisi il maggior interprete della «disumanizzazione» novecentesca e novecentista. Certo Picasso è tirato in ballo in un saggio del 1924, Sobre el punto de vista en las artes, in modo significativo e quasi a sintetizzare le tesi dell’anno dopo, sebbene il rapporto di Ortega con il cubismo si riveli piuttosto ambiguo: «Picasso, nei suoi quadri più scandalosi e tipici, annichilisce la forma chiusa dell’oggetto e, nei puri piani euclidei, ne annota dei frammenti, un sopracciglio, dei baffi, un naso – senza altra missione che servire da cifrario simbolico per le idee»34. Se nelle ricostruzioni parallele della modernità e dell’ispanità Velázquez e Goya rappresentano le tappe imprescindibili, il ruolo da assegnare a Picasso doveva essere per Ortega ancora qualcosa di prematuro. Eppure due frasi, che probabilmente hanno sempre vissuto l’una ignara dell’altra, non hanno fatto altro che esprimere la stessa inquietudine, pensata dal filosofo e compiuta dall’artista: «Si è passati dal dipingere le cose al dipingere le idee»35, «Io dipingo gli oggetti come li penso, non come li vedo»36.

Note
  • 1

    Utilizziamo i termini novecentismo e modernismo dandone un significato non strettamente legato al dibattito spagnolo del primo Novecento. Con modernismo si indica quindi non l’indirizzo riformatore della Generazione del ’98, incarnato da Unamuno, ma la sua accezione corrente di metalinguaggio dei processi artistici del Novecento. In questa prospettiva anche la formula «novecentismo» perde la sua specificità spagnola (la risposta della Generazione del ’14, con Ortega in testa, che si opponeva al modernismo della Generazione del’98) per acquisire un senso più generico di modernism. Per un primo inquadramento dell’apporto specifico di Ortega al modernismo spagnolo cfr. Bozal 2017 e Lottini 2016.

  • 2

    Riprendiamo questa formula introdotta da Fabrizio Desideri che consente un’opportuna contestualizzazione del modernismo benjaminiano e una sua mai sopita, anzi sempre più avvertita, attualità (Desideri 2019, p. XLI).

  • 3

    Ortega y Gasset 1925a, p. 29.

  • 4

    Ortega y Gasset 1914, p. 262.

  • 5

    Seguiamo una linea interpretativa che vede nella riflessione estetologica orteghiana una costante uniformità teorica, se non addirittura tematica, come già aveva notato decenni fa Leon Livingstone (Livingstone 1952).

  • 6

    Ortega y Gasset 1910, p. 474.

  • 7

    ibidem.

  • 8

    Ortega y Gasset 1914, p. 262.

  • 9

    ivi, p. 256.

  • 10

    Geiger 1913, p. 107.

  • 11

    ivi, pp. 108 e 139.

  • 12

    Ortega y Gasset 1914, p. 257.

  • 13

    ibidem.

  • 14

    ivi, p. 258. Un’idea che, in senso lato, Ortega traspone anche alla tecnica, che null’altro è che il processo di emancipazione dell’uomo dai bisogni materiali. La tecnologizzazione del reale è un processo di irrealizzazione che conduce appunto a una nuova ontologia dell’umano: «la collocazione dell’uomo attuale di fronte alla propria vita è più irreale e incosciente di quella dell’uomo medievale» (Ortega y Gasset 1939, p. 40). Seppur pubblicate nel 1939, le lezioni che costituiscono il saggio sulla tecnica, Meditación de la técnica, sono del 1933.

  • 15

    Fry 1909, p. 59

  • 16

    ivi, p. 61.

  • 17

    Rimane ancora oggi un riferimento sempre attuale per il rapporto tra Ortega e la pittura il testo di E. Lafuente Ferrari, Ortega y las artes visuales (Lafuente Ferrari 1970).

  • 18

    Ortega y Gasset 1925a, p. 13.

  • 19

    ivi, p. 15.

  • 20

    ivi, p. 19.

  • 21

    ivi, p. 32.

  • 22

    ivi, pp. 38-39.

  • 23

    «Velázquez è il pittore caratterizzato dal fatto di... non dipingere, voglio dire che dipinge davvero poco. [...] Un gentiluomo che, ogni tanto, dà qualche pennellata. [...] Come se per Velázquez la cosa naturale fosse non dipingere» (Ortega y Gasset 1943, pp. 63 e 74).

  • 24

    Ortega y Gasset 1925a, p. 42.

  • 25

    ivi, pp. 42-43.

  • 26

    ivi, p. 50.

  • 27

    Ortega y Gasset 1925b, p. 57.

  • 28

    Ortega y Gasset, 1925°, p. 61.

  • 29

    ivi, p. 66.

  • 30

    Ortega y Gasset, 1943, p. 83.

  • 31

    Ortega y Gasset 1954, p. 99.

  • 32

    ivi, p. 119.

  • 33

    Ortega y Gasset 1950, p. 32.

  • 34

    Ortega y Gasset 1924, p. 455. Sull’importanza di questo saggio quasi sempre trascurato ha insistito, giustamente, Valeriano Bozal (Bozal 2017, pp. 15-16).

  • 35

    Ortega y Gasset 1925, p. 51.

  • 36

    Questa frase di Picasso è apparsa per la prima volta nel 1929 in un articolo di Ramón Gómez de la Serna, poi accluso nel suo testo Completa y veridica historia de Picasso y el cubismo (Gómez de la Serna 1945). In seguito è divenuta una sorta di slogan dell’estetica di Picasso grazie alla citazione contenuta nel fortunatissimo libro, da cui citiamo anche noi, di John Golding, Cubism. A History and Analysis 1907-1914, (Golding 1959, p. 70).

Bibliografia
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  • Geiger 1913 = Moritz Geiger, Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses, Tübingen, Niemeyer, 1974; trad. it. Contributi alla fenomenologia del godimento estetico, a cura di A. Pinotti, trad. di P. Conte, Bologna, Clueb, Bologna 2012.

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  • Ortega y Gasset 1943 = José Ortega y Gasset, Introducción a Velázquez, in Obras Completas (vol. VIII), Madrid, Revista de Occidente 1965; trad. it. Velázquez, a cura di G. Mazzocchi, Como-Pavia Ibis 2015.

  • Ortega y Gasset 1950 = José Ortega y Gasset, Preludio a un Goya, in Obras Completas (vol. VII), Madrid, Revista de Occidente, Madrid 1964; trad. it. Goya, a cura di R. Rossi Testa, Milano, Abscondita 2007.

  • Ortega y Gasset 1954 = José Ortega y Gasset, Introducción a Velázquez, in Obras Completas (vol. VIII), Madrid, Revista de Occidente 1965; trad. it. Velázquez, a cura di G. Mazzocchi, Como-Pavia, Ibis, 2015.

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Informazioni
Cita come: Andrea Mecacci, Principio di irrealtà. Estetica e modernismo in Ortega y Gasset in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 1 (2022), pp. 52-65. 10.35948/DILEF/2022.3287
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