| Articolo sottoposto a Peer Review

Marcuse e la critica della tolleranza

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 15/10/2023
  • Data accettazione: 14/11/2023
  • Data pubblicazione: 16/11/2023

Abstract

Facendo riferimento alla riflessione di Marcuse, il presente saggio intende sottolineare le ambiguità che caratterizzano il concetto di tolleranza, sia nelle definizioni del pensiero liberale che nel contesto del neocapitalismo. In questo contesto, secondo Marcuse, la critica della tolleranza deve infatti porsi come una messa in discussione di ogni idea di tolleranza intesa come pluralismo acritico, nonché di ogni pretesa puramente identitaria (o anche individualistica), che non sappia collocare la propria lotta in una visione di cambiamento generale.

 

Referring to Marcuse's reflection, this essay intends to underline the ambiguities that characterize the concept of tolerance, both in the definitions of liberal thought and in the context of the consumer society of neo-capitalism. In this context, the critique of tolerance must therefore pose itself, for Marcuse, as a questioning of every idea of tolerance understood as a-critical pluralism, as well as of every purely identity (or even individualistic) claim, that does not place its own struggles in a general vision of change.


Parole chiave
Keywords

Il significato che ha assunto nel tempo il concetto di tolleranza delinea una storia complessa e per niente scontata. Solo pochi termini possono vantare un medesimo cambio di segno in modo così repentino. Tuttavia, ciò che alcune recenti questioni ci dimostrano, dalla critica alla morfologia linguistica a quella su alcuni monumenti, è che la variazione dei principi di una cultura implica un mutamento etico-morale a sua volta necessariamente sociale e politico. E poiché il cambiamento sociale si definisce quasi sempre all’interno di un dissidio tra istanze e valori differenti, questo riguarda anche il cambiamento a cui è andato incontro il concetto di tolleranza – nonostante che la tolleranza sia stata posta originariamente come esterna al dissidio, o come ciò che avrebbe permesso, secondo un pensiero che va da Bayle a Locke a Voltaire, di superarlo.

Se non è possibile evitare che le questioni identitarie diventino scontro politico (e di conseguenza conflitto) Voltaire riconosceva nella tolleranza la possibilità per la ragione di porsi contemporaneamente al di là, e al di sopra, del conflitto – togliendo alla forza il diritto di decidere la superiorità di una posizione rispetto all'altra. Contro il fanatismo, scrive Voltaire, «non esiste altro rimedio che lo spirito filosofico che […] addolcisce i costumi degli uomini»1. Perché (come vuole il Trattato sulla tolleranza) «[l]a ragione è mite […] ispira l’indulgenza, soffoca la discordia, consolida la virtù»2. Per Locke, «[l]a tolleranza di quelli che hanno opinioni religiose diverse è così consona al Vangelo e alla religione, che sembra mostruoso che gli uomini siano ciechi in una luce così chiara»3.

Non esiste, dal punto di vista della ragione, un diritto all’intolleranza, è il presupposto di Voltaire. Se non altro perché un tale diritto equivarrebbe – dal suo punto di vista – a legittimare il contrario della ragione stessa. La tolleranza riconosce che gli usi e i costumi di una cultura o di un credo religioso non possono essere posti in modo assoluto senza farsi contemporaneamente fanatismo, e tradendo in questo modo il principio di ragione4. Dovremmo evitare di fare di questa ragione quello che chiamiamo semplicemente “il razionale”: la prima mantiene uno sfondo metafisico di cui il secondo vuol essere piuttosto la funzione pratica. Tenere presente questa differenza permette di comprendere i confini entro cui la tolleranza può assumere per Voltaire anche il significato di un principio morale: come possibilità di astrazione che la ragione (cioè lo spirito filosofico) garantirebbe, rispetto al «fanatismo» e ai condizionamenti culturali; e come principio di verità, al di là (e prima) di ogni declinazione pratico-funzionale della ragione stessa.

Questa concezione del concetto di ragione ci permette di afferrare meglio anche gli sviluppi che la tolleranza ha assunto, dopo Voltaire, fino a oggi. Per Voltaire, che guardava (come Locke) alle guerre di religione in Europa, il principio etico-morale della tolleranza trovava il proprio fondamento, più che nel potere regolativo del «magistrato» – cioè del potere civile, come per Locke – nel distacco di uno spirito filosofico che rigettava da sé ogni posizione che non ponesse, verso la propria «verità», il limite che la tolleranza le prescriveva di assumere. Non sarebbe d’altra parte possibile comprendere l’interesse di Nietzsche per Voltaire se non vedendo nella ragione (e dunque nella tolleranza) di Voltaire questo consapevole e misurato distacco5.

Perché la tolleranza fosse messa a sua volta in discussione sarebbe stata necessaria una critica ulteriore, diretta – a questo punto – non tanto alla ragione in sé, quanto al principio regolativo che pretendeva di esserne l’applicazione sul piano pratico. L’imporsi di una regola di ragionevolezza univoca, di cui la tolleranza diventava così il principio d’ordine, ben più che il riferimento ideale. È in questa trasformazione che la tolleranza avrebbe finito per incontrare il suo margine di ambiguità, e a far apparire la funzione «pacificatrice» che, in modo diverso, Locke e Voltaire le avevano attribuito, come sostanzialmente astratta.

Se la tolleranza ha quindi potuto diventare l’oggetto di una critica specifica, è perché il suo principio (che per Voltaire coincideva con lo spirito filosofico) ha finito per confondersi con il suo esercizio meramente pratico. Non tanto nel senso che la ragione si sarebbe definita a quel punto come l’unico modo in cui è ragionevolmente ammesso di poter essere e pensare; ma perché la tolleranza sarebbe stata imposta, a partire da quel momento, come l’accomodante principio in cui tutte le contraddizioni vengono meno, in virtù di un presupposto che organizza, accomunandole, tutte le differenze possibili.

È in questo senso che Marcuse ritorna sul concetto di tolleranza in un agile (e ormai famoso) libro del 1965 per molto tempo dimenticato – fatta salva qualche citazione, spesso approssimativa sul piano politico. In quell’occasione, in continuità con l’analisi sull’unidimensionalità pubblicata un anno prima6, Marcuse si confronta con il tema della tolleranza, così come questa veniva applicata nelle culture occidentali uscite dalla seconda guerra mondiale, dove la società di massa post-ideologica si realizzava per mezzo dell’industria culturale, con il fine di attenuare o di rimuovere i conflitti sociali. Il ’68 avrebbe certamente rimesso al centro le ragioni del conflitto, ma non avrebbe fatto venire meno quella funzione di controllo di cui la tolleranza era ormai stata investita all’interno della nuova condizione sociale.

L’analisi di Marcuse ha ovviamente dietro di sé l’ampia riflessione sul tema della tolleranza che era seguita a quella di Locke e di Voltaire – e che da von Humboldt era passata da Tocqueville, da Stuart Mill e da Bentham – e dove il problema della libertà individuale, che la tolleranza dovrebbe tradizionalmente garantire7, era messa sempre più in rapporto con le condizioni di vita della stessa società – in ragione della quali soltanto, come sarà per Marcuse, il problema della tolleranza poteva uscire da una formulazione puramente astratta.

Tuttavia, se le analisi di Stuart Mill sono state interpretate perfino come un’anticipazione della società postmoderna (come una condizione di pluralismo, fondata sul conflitto fra istanze e interessi differenti)8, è vero che la descrizione di questo modello non può prescindere per Stuart Mill (così come per von Humboldt) dal presupposto che il principale obiettivo della legge sia l’interesse individuale, a tutela del quale la tolleranza opera come un principio di garanzia, sia sul piano della pragmatica politica che su quello morale. Presupposto che per Stuart Mill si estende dagli individui alle comunità, contro ogni possibile pregiudizio9.

Sennonché, riportato questo tema alla condizione delle società occidentali successive alla seconda guerra mondiale, il principio di tolleranza (sintetizzato dal liberalismo nell’idea che ogni individuo avrebbe diritto a perseguire il proprio interesse senza nessun vincolo se non quello di non nuocere agli altri), doveva far sorgere in Marcuse un’inquietudine differente. La preoccupazione che una tale idea di tolleranza potesse infine prescrivere di dover tollerare anche l’intolleranza (o, peggio, l’intollerabile), con il rischio di mettere in discussione anche il principio stesso della democrazia.

 

 

2. La critica di Marcuse ha per titolo Repressive tolerance e chiude il breve libro composto da tre testi a firma, rispettivamente, di Robert Paul Wolff, Barrington Moore jr e, appunto, Herbert Marcuse. Il titolo originale del libro, A Critique of Pure Tolerance, è in realtà più articolato rispetto alla semplificazione che esso assume nella versione italiana del 1968, che riporta semplicemente Critica della tolleranza10. Il termine pure, espunto dalla traduzione italiana, denota invece con più precisione, nell’edizione originale, il significato di «tolleranza» di cui il libro vuol essere la critica. La pura tolleranza è quella che sarebbe infatti imposta come un valore sociale assoluto e, in quanto tale, astratto rispetto alle condizioni concrete – verso le quali il richiamo alla tolleranza rischia di diventare, invece che un limite all’imposizione di una verità, il divieto a sollevare una critica alle condizioni contingenti e alla loro origine sociale. Il sottotitolo dell’edizione italiana (La forma attuale della tolleranza: un mascheramento della repressione) ne fornisce una sintesi che nell’edizione originale è assente. Ma, al contempo, ne riduce l’argomentazione alla forma di un semplice slogan.

L’obiettivo di questo libro era tuttavia più ampio e radicale, e il termine repressione (inserito nel sottotitolo italiano) rischia di farlo perdere di vista. Ciò che il libro cerca infatti di mettere in discussione è il sistema entro cui prende forma la dialettica tra tolleranza e intolleranza, in quella che è ormai diventata la società di massa e dei consumi, dove ogni differenza perde la propria alterità in una convivenza priva di conflitto, o si normalizza per adeguarsi a quella che nel frattempo è diventata la parola d’ordine del neo-capitalismo: il «pluralismo»; l’inclusione di ogni identità e differenza all’interno dell’unico sistema produttivo e sociale consentito, dove alla differenza si chiede, in sostanza, di diventare o di farsi a sua volta in-differenza.

Il sistema occidentale è dunque richiamato in questo libro non tanto in funzione dei nuovi diritti che lo sviluppo del neo-capitalismo ha permesso effettivamente di conseguire, quanto per la particolare omologazione che sottende in ogni caso a quelle conquiste. Scritto in un’epoca in cui il conflitto era ancora tra visioni antitetiche della società, la critica al centro di questo saggio mette radicalmente in discussione l’idea di tolleranza come principio regolatore, in grado di vincolare il confronto all’interno di una comune cornice di valori, alla maniera di Locke. Non tanto perché all’interno della condizione attuale (politica e sociale) un tale valore comune diventa puramente astratto; ma perché – così inteso – il principio di tolleranza deve agire, nel nuovo contesto di quello che si sarebbe chiamato il «boom economico», per imporre un conformismo, tanto necessario sul piano politico quanto assoluto.

La critica alla tolleranza deve allora riguardare in questo senso, precisa Marcuse, non tanto la possibilità che si dia una differenza d’opinioni; ma la possibilità che – in nome del pluralismo delle idee –, espressioni culturali, politiche e sociali che potrebbero svilupparsi in chiave progressista grazie al consenso sociale, siano invece interdette e riportate entro un ordine di valori definito. Del resto «da chi», si chiede Marcuse, «e secondo quali standard, può esser fatta la distinzione tra vero e falso, progressivo e regressivo»11 in questo tipo di modello sociale, se i discorsi sono costretti a porsi su un piano di equidistanza secondo il principio di tolleranza?

Nel suo testo, Wolff descrive chiaramente il modo in cui questo conformismo è stato imposto all’interno della stessa sinistra, in momenti diversi della storia americana. Il principio che ha portato verso questa «riduzione» non coincide infatti con una qualche visione radicale dell’assetto sociale, ma con ciò che Wolff definisce con il termine di pluralismo. O, meglio, con quella particolare declinazione (e funzione) del concetto di tolleranza che consiste nel perseguire un equilibrio (e dunque un compromesso) tra istanze differenti (e perfino opposte), tanto all’interno della società che di uno stesso partito. Per Wolff sarebbe evidente anche il momento in cui ciò è avvenuto. Quando la crisi del sistema (economico e sociale) ha portato la sinistra a cercarne la difesa attraverso una sintesi unitaria, invece che a proporne una visione alternativa distinguendo al proprio interno le posizioni in cui non poteva più riconoscersi:

La teoria e la pratica del pluralismo pervennero a dominare la politica americana la prima volta durante la depressione, quando il partito democratico raccolse una maggioranza elettorale mettendo insieme gruppi minoritari. Non meraviglia che lo stesso periodo vedesse la morte di un movimento socialista attivo12.

Dal punto di vista di Wolff, questa ricerca di pluralismo interno ha determinato anche la crisi della sinistra stessa. Il coinvolgimento delle minoranze nella definizione di una proposta plurale (e dunque media) ebbe infatti come conseguenza l’impossibilità che si formasse una proposta politica finalizzata a un’idea di «bene generale della società» che non fosse semplicemente identificabile con «la somma degli interessi privati»13. Trent’anni dopo l’analisi di Wolff, la sinistra italiana avrebbe battuto la stessa strada vendendola come una novità, e andando incontro a un destino per molti versi simile.

Ma a differenza dell’analisi di Wolff, i termini in base ai quali Marcuse affronta il tema della tolleranza sono in realtà differenti. Se è vero che nella società dei consumi la tolleranza tende a togliere legittimità ai discorsi che non rientrano nei limiti di ciò che, nell’equilibro politico e sociale, è accettato come tollerabile, nondimeno – spiega Marcuse – è proprio tra i discorsi che compongono e attraversano il sistema sociale che occorre fare chiarezza, distinguendo al loro interno quel livello di intolleranza che la democrazia non dovrebbe tollerare, se non vuol correre il rischio di perdere la sua stessa natura.

Intanto, «il contrasto» che dovremmo avere chiaro quando parliamo di tolleranza, mette in guardia Marcuse, «non è tra la democrazia in astratto e la dittatura in astratto»14. La differenza che occorre avere presente è quella che riguarda il modo di intendere la libertà. Perché dove la tolleranza si pone nei termini di un principio puramente regolativo, la libertà potrebbe trovarsi paradossalmente nella condizione della non-libertà: nel divieto di esprimere, per esempio, il proprio disaccordo rispetto a determinate condizioni di ingiustizia e di esclusione, se il disaccordo dovesse mettere in discussione anche l’assetto sociale in cui quell’ingiustizia ha origine e viene legittimata. E a quel punto saremmo allora costretti ad accettare anche «tutte le attività del normale sfruttamento, dalla povertà, dall’insicurezza, alle vittime della guerra [...] in cui la società è impegnata»15, e a reprimere in noi e fuori di noi ogni dissenso. Quando pensiamo alle tante forme di ingiustizia, di povertà e di esclusione presenti all’interno del pluralismo della società dei consumi (è il pensiero di Marcuse), che cosa stiamo in realtà tollerando quando affermiamo di credere nel valore assoluto della tolleranza? Di fronte a questa domanda l’idea di una «pura» tolleranza dovrebbe essere messa a sua volta in discussione.

 

 

3. La preoccupazione di Marcuse riguarda tuttavia anche un altro aspetto: il fatto che, nel recente passato (con il fascismo, la guerra e le leggi razziali), il principio di tolleranza non aveva impedito che accadesse l’intollerabile e cioè il fallimento di tutti i valori morali dell’umanesimo – come lo stesso Adorno aveva denunciato. Di fronte a ciò che il politico aveva espresso nel fascismo, l’idea di tolleranza non era stata perciò in grado di rappresentare un argine efficace.

Ciò che la storia recente quindi dimostrava era che, per difendersi dal totalitarismo e dalla tragedia che questo ha comportato, non avremmo avuto bisogno – secondo Marcuse – di una maggiore tolleranza, ma dell’opposto, dal momento che «la diffusione» della «parola» del fascismo «avrebbe potuto essere arrestata prima che fosse troppo tardi»16. Pertanto, la storia recente dimostrava che l’idea di tolleranza non può evitare, in determinate circostanze, l’affermarsi del suo contrario assoluto. E – soprattutto – che «se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi cominciarono la loro campagna, l’umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra mondiale»17.

Questa constatazione permette a Marcuse di rivolgere la medesima critica anche alla forma contemporanea di società e al suo modello produttivo. Perché, seppure in modo diverso da come era avvenuto nella società totalitaria, «lo sviluppo attuale della società democratica», denuncia Marcuse, invece che favorirla «ha distrutto le basi per la tolleranza universale»18. Marcuse non è affatto dimentico del potenziale politico che la tolleranza rappresenta. È però consapevole che il suo utilizzo da parte della società neo-liberale ne ha modificato i presupposti in termini del tutto funzionali, fino al punto che «[l]e condizioni nelle quali la tolleranza può nuovamente diventare una forza liberatrice e umanizzante devono ancora essere create»19 o reinventate ex novo.

Nel contesto del neo-capitalismo (o in quella che Marcuse chiama qui la società post-fascista, la società post-bellica) la tolleranza invocata per la composizione dei conflitti sociali rischia di limitarsi infatti a una co-esistenza indifferente, ma per nulla paritaria, di valori – reinterpretati in un senso meramente individualistico (e senza nessuna proiezione di progresso sul piano democratico). Di conseguenza, è la conclusione di Marcuse, questa tolleranza non fa che garantire l’esercizio di una generale intolleranza. Non fa che consolidare il potere dei più forti, mostrando la sua incapacità a prevenire tutto ciò che dovrebbe invece evitare, dal momento che contrasta ogni legittima aspirazione a un modello sociale differente.

Quando la tolleranza serve principalmente a proteggere e a conservare una società repressiva, quando serve a neutralizzare l’opposizione ed a render gli uomini immuni contro forme di vita diverse e migliori, allora la tolleranza è stata corrotta20.

Questo aspetto della critica di Marcuse pone un problema decisivo. Perché senza le dovute attenzioni, la società democratica rischia di fare del principio di tolleranza un valore esso stesso ambiguo. Ed è in questo senso che Marcuse contesta alla tolleranza di non consentire più una netta distinzione tra i valori in gioco. Così intesa la tolleranza rischia infatti di favorire un tipo di democrazia che potrebbe cercare di limitare o di reprimere ciò che dovrebbe invece affermare e promuovere. Mentre è evidente, afferma Marcuse, in quale direzione dovrebbe essere sviluppata la democrazia:

è possibile definire la direzione verso cui le istituzioni prevalenti, le politiche, le opinioni dovrebbero esser cambiate al fine di migliorare le probabilità di una pace che non sia identica alla guerra fredda e alla piccola guerra calda, e di una soddisfazione dei bisogni che non si nutra della povertà, dell’oppressione e dello sfruttamento. Di conseguenza è anche possibile identificare quelle politiche, opinioni, movimenti che promuoverebbero questo cambio e quelle che farebbero il contrario. La soppressione del regresso è un preliminare per il rafforzamento del progresso21.

Questa preoccupazione era in realtà chiara anche allo stesso pensiero liberale. Se occorre proteggere la società dalla tirannide, per Stuart Mill il principio di libertà non è infatti di per sé sufficiente, se questo non comprende allo stesso tempo la tutela, da un lato, dall’esercizio del potere civile (a cui Locke aveva demandato la soluzione dell’intolleranza) e, dall’altro, dalla possibilità che una serie di norme sociali possano imporsi a loro volta come un valore assoluto. Dunque, a differenza di quanto ipotizzato da Locke, per Stuart Mill

la protezione dalla tirannia del magistrato non è sufficiente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre norme di condotta, come mezzi diversi dalle pene legali, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire, se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello22.

Tuttavia, se l’obiettivo della democrazia dev’essere quello di una pacificazione che, oltre a rispettare il diritto delle minoranze e a prevenire la violenza, non soffochi la possibilità che  si formi un’aspirazione generale alla trasformazione della società in senso più democratico, è allora necessario che la tolleranza, secondo Marcuse, per come essa è oggi affermata e concepita sia, invece che garantita, sospesa («[L]a vera pacificazione richiede il ritiro della tolleranza prima dei fatti, allo stadio della comunicazione verbale, di quella tramite la stampa e il cinema»23).

Marcuse è consapevole che «una tale interruzione del diritto di libertà di parola e di riunione» può trovare giustificazione soltanto di fronte a una reale e concreta minaccia per i principi democratici. Nondimeno, in assenza di una convivenza sociale che sappia applicarne adeguatamente il principio (e difenderne i presupposti), se si vuole preservarne il valore occorre ritirare la tolleranza «verso i movimenti regressivi prima che possano divenire attivi»24. E occorre, allo stesso tempo, praticare l’intolleranza verso tutti i pensieri che fanno del loro conservatorismo, o della loro posizione di forza, il presupposto di una società che, per quanto si definisca «democratica», si dimostra in realtà «repressiva» verso ogni forma di esistenza che si discosti dai valori dominanti, o che metta in discussione la loro legittimità assoluta25.

Se la comunicazione è condizionata da interessi e sentimenti regressivi, l’intolleranza di questa censura – è il suo pensiero – invece che un limite alla libertà, può diventarne paradossalmente la condizione. Dunque, una «censura preventiva» è per Marcuse tanto più necessaria in quanto «diretta apertamente contro la censura più o meno nascosta che permea i mezzi liberi»26.

 

 

4. Per Marcuse esiste un rapporto diretto tra la libera comunicazione della contemporanea società di massa e la falsa coscienza che questa contribuisce a generare. Ed esiste soprattutto un rapporto diretto tra l’idea di libertà che questa falsa coscienza pretende di attribuirsi e l’azione regressiva che ne deriva, a livello politico, sul piano democratico. Il 1965 poteva già prefigurare la distopia dei social media, di cui oggi sperimentiamo l’impatto sull’immaginario individuale e collettivo, nell’azione dell’industria culturale di allora. Una volta che una cultura regressiva prevalga «nel comportamento nazionale e popolare» – riflette Marcuse – la sua falsa coscienza «si trasferisce quasi immediatamente nella pratica: la distanza di sicurezza tra ideologia e realtà, pensiero regressivo e azione repressiva, tra la parola della distruzione e i fatti della distruzione» appare a quel punto «pericolosamente accorciata»27. E non è possibile modificare questa forma di condizionamento se non interrompendo la comunicazione di quella falsa coscienza. Ed è appunto in questo senso che deve agire, per Marcuse, l’intolleranza «preventiva» contro i modelli di comportamento regressivi28.

Ma la soluzione avanzata da Marcuse non si limita alla censura. Affinché «lo spazio mentale per il rifiuto e per la riflessione [possa] esser ricreato»29, scrive Marcuse, oltre a fermare la comunicazione della falsa coscienza, occorre approfondire le possibilità di un pensiero critico nei soli modi in cui questo può concretamente svilupparsi: ridefinendone «gli aspetti formali» attraverso l’insegnamento e l’apprendimento. Nella definizione corrente di tolleranza, insegnamento e apprendimento si vorrebbero a loro volta «neutrali, privi di valore» politico. Al contrario, è necessario per Marcuse che essi diventino la maniera qualificata per «imparare a conoscere i fatti», o per conoscere quella che Marcuse definisce qui «la verità per intero». La ricostruzione di un «terreno per la tolleranza liberatrice» può infatti prodursi solo attraverso un sistema educativo, che però – ammette Marcuse – deve «ancora essere creato»30.

Senza questa trasformazione (a sua volta preventiva) il valore della tolleranza non può che rimanere quello che esso ha finito per assumere: un’apparente falsa neutralità (garanzia di un sistema di valori relativi) utile al mantenimento produttivo dell’attuale società di massa. Al di là delle concezioni classiche dell’individualismo, quello che un nuovo sistema educativo dovrebbe quindi favorire all’interno dell’attuale società, scrive Marcuse, è prima di tutto la repressione delle istanze negative che sono proprie dell’identità, che derivano inevitabilmente dal rapporto tra l’identità e la sua alienazione nella società dei consumi. Nella consapevolezza che «[l]’individuo potenzialmente è dapprima qualcosa di negativo, una porzione delle potenzialità della sua società: di aggressione, senso di colpa, ignoranza, risentimento, crudeltà che viziano i suoi istinti vitali»31; e che fare dell’aspirazione individuale e identitaria la frontiera del politico, senza una nuova educazione preventiva, è, per Marcuse, più la causa della falsa tolleranza che non la possibilità dell'istituzione della vera tolleranza.

Pertanto, non può esserci alcuna trasformazione possibile (ovvero: autentico anticonformismo), secondo Marcuse, se non attraverso una ri-definizione dei valori che valga innanzitutto come una nuova trascendenza rispetto all’Io e alla centralità che questo ha assunto nella società del neo-capitalismo. Senza questa critica ulteriore, «la liberazione personale dalla frustrazione» non può che rimanere a sua volta frustrata, perché «[l]a risurrezione […] dell’Io», scrive Marcuse, è «una risurrezione senza speranze»32. La «razionalità onnipresente del mondo razionalizzato» non potrà che far soccombere l’Io nel conformismo della sua ricerca di realizzazione personale e privata – che per Marcuse, identificandosi con la necessità di adeguarsi a un modello sociale stabilito, finisce per porsi inevitabilmente come «un’autorealizzazione […] repressiva»33.

Il che riguarda, per Marcuse, anche la lotta politica. Per quanto la forma sociale tenda «a indebolire […] l’effettività della tolleranza verso i movimenti dissenzienti»34, l’eccessiva frammentazione, la mancanza di coordinamento, l’evidente incapacità di passare da un conflitto identitario a una definizione comune di obiettivi, rischia di confinare molte delle attuali rivendicazioni a un livello di pura rappresentanza, o di semplice provocazione – a sua volta facilmente tollerabile. La forza della società spettacolare – come avrebbe indicato Debord35 – coincide col saper mostrare la propria crisi, e la critica al proprio funzionamento, nella forma dello spettacolo stesso. E in questo senso, se i presupposti pedagogici a cui Marcuse si richiama non troveranno una concreta attuazione, anche «il terreno per la tolleranza liberatrice»36, conclude Marcuse, non potrà essere creato, e la tolleranza vedrà perdere inevitabilmente anche il proprio valore politico. O dovrà accettare di ridurlo al semplice conformismo: di vederlo scolorire nel mattino grigio con cui anche Foucault descrive la tolleranza nel suo articolo del 23 marzo del 1977 su «Le Monde», in ricordo di Pasolini. Da un lato impossibilità di affermare alcunché di contraddittorio rispetto alla tolleranza stabilita, dall’altro consapevolezza che ogni rivendicazione (in quanto tollerata) è già necessariamente parte di quella generale indifferenza che le «trasformations économiques»37 hanno imposto a ogni aspetto della vita sociale.

Note
  • 1

    Voltaire 1764, p. 1549.

  • 2

    Voltaire 1763, p. 482.

  • 3

    Locke 1689, p. 8.

  • 4

    Nell’affermare ciò Voltaire aveva soprattutto presenti le idee di Bayle che, a differenza di Locke, aveva distinto la tolleranza dalla religione facendone quel fondamento civile, del tutto laico, espressione del deismo.

  • 5

    «[F]u uno degli ultimi uomini che sapessero riunire in sé la più grande libertà di spirito e un modo di pensare assolutamente non rivoluzionario, senza essere incoerenti e pavidi» (Nietzsche 1878, p. 152).

  • 6

    Marcuse 1964.

  • 7

    «[Q]uesto principio richiede la libertà di gusti e occupazioni, di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire come vogliamo, con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino, anche se considerano il nostro comportamento stupido, nervoso, sbagliato» (Stuart Mill, 1859, p. 36).

  • 8

    È la lettura che è stata data per esempio da Giulio Giorello, per il quale in Stuart Mill «[i]l conflitto, il dissenso tra diversi punti di vista, sono dunque garanzie di base di una società aperta» (Giorello 1984, p. 13).

  • 9

    «Purché le vittime di una legge iniqua non invochino l’aiuto di altre comunità, non posso ammettere che persone del tutto estranee intervengano e esigano che si ponga fine a una situazione, di cui tutti i diretti interessati sembrano soddisfatti» (Stuart Mill, 1859, p. 126).

  • 10

    R. P. Wolff, B. Moore jr, H. Marcuse 1965.

  • 11

    Marcuse 1965, p. 96.

  • 12

    Wolff 1965, p. 51.

  • 13

    Ivi, p. 50.

  • 14

    Marcuse 1965, p. 92.

  • 15

    Ivi, p. 93.

  • 16

    Ivi, p. 100.

  • 17

    Ibid.

  • 18

    Ivi, pp. 100-101

  • 19

    Ivi, p. 101.

  • 20

    Ibid.

  • 21

    Ivi, p. 97.

  • 22

    Stuart Mill 1859, p. 27.

  • 23

    Marcuse 1965, p. 100.

  • 24

    Ibid.

  • 25

    Ivi, pp. 100-101.

  • 26

    Ivi, p. 101.

  • 27

    Ibid.

  • 28

    Più che allontanarsi dallo spirito di Voltaire (per il quale era invece evidente che il fanatismo delle guerre di religione in Europa si sarebbe estinto da sé grazie alla ragione), la conclusione di Marcuse sembra piuttosto prossima ad alcune letture del Trattato che non si limitano a vedere nel concetto di tolleranza di Voltaire un principio puramente regolativo, o di convivenza tra posizioni in realtà inconciliabili. È il caso, per esempio, della lettura di Togliatti, per il quale è difficile credere che Voltaire e gli illuministi potessero accontentarsi di rivendicare una pacifica convivenza tra le opposizioni dello spirito: la loro tolleranza era in realtà ideologicamente e politicamente definita: «Sapevano con chi avevano a che fare, sapevano quello che volevano: la loro polemica è quindi sempre concretamente diretta contro un nemico presente; il loro ragionare e lo stesso stile loro è continua schermaglia, dove il sottinteso, l’ironia, il sarcasmo hanno una ben precisa funzione, non tanto dimostrativa, quanto distruttiva» (Togliatti 1966, p. 9). Sul possibile rapporto positivo tra il concetto di tolleranza di Voltaire e quello di Marcuse si è soffermato da ultimo anche Pier Dalla Vigna (Voltaire Marcuse. Che cos’è la tolleranza?, Mimesis, Milano 2023), il cui volume è apparso quando questo saggio era già stato scritto.

  • 29

    H. Marcuse 1965, p. 101.

  • 30

    Ivi, p. 103. All’opposto, aggiunge Marcuse, «[t]rattare le grandi crociate contro l’umanità (come quella contro gli albigesi) colla stessa imparzialità delle lotte disperate per l’umanità significa annullare la loro diversa funzione storica, riconciliando i boia con le loro vittime, distorcendo il passato». (Ivi, p. 102-103).

  • 31

    Ivi, p. 103.

  • 32

    Ivi, p. 104.

  • 33

    Ibid.

  • 34

    Ibid.

  • 35

    Cfr Debord 1967.

  • 36

    Marcuse 1965, p. 103.

  • 37

    Foucault 1977, p. 271.

Bibliografia
  • Debord 1967 = G. Debord, La Société du spectacle, Éditions Buchet-Chastel, Paris 1967; trad. it. a cura di P. Stanziale, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 2001.

  • Foucault 1977 = M. Foucault, Les matins gris de la tolérance, “Le Monde” n. 9998, 1977, p. 24; in M. Foucault, Dits et écrits, vol. II, Gallimard, Paris 20012, pp. 269-271.

  • Giorello 1984 = G. Giorello, Prefazione a J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 19843.

  • Locke 1689 = J. Locke, Epistola de Tolerantia ad Clarissimum Virum T.A.R.P.T.O.L.A Scripta a P.A.P.O.I.L.A., 1689; trad. it. a cura di C. A. Viano, Lettera sulla tolleranza, Laterza, Bari 1994.

  • Marcuse 1964 = H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston 1964; trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1967

  • Marcuse 1965 = H. Marcuse, Repressive tolerance, in R. P. Wolff, B. Moore jr, H. Marcuse, Critique of Pure Tolerance, Boston, Beacon Press, 1965; trad. it. di L. Codelli, La tolleranza repressiva, in R. P. Wolff, B. Moore jr, H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1968.

  • Stuart Mill 1859 = J. Stuart Mill, On liberty, London 1859; trad. it. di S Magistretti, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 19843.

  • Nietzsche 1878 = F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches, 1878; trad. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Umano, troppo umano, Vol. I, Adelphi, Milano 1981.

  • Togliatti 1966 = P. Togliatti, Prefazione a Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Editori Riuniti, Roma 1966.

  • Voltaire 1764 = Voltaire, Dictionnaire philosophique, 1764, ed. it. a cura di D. Felice e R. Campi, Dizionario filosofico. Tutte le voci del “Dizionario filosofico” e delle “Domande sull’Enciclopedia”, Bompiani, Milano 2013.

  • Voltaire 1763 = Voltaire, Traité sur la Tolérance, 1763, ed. it. a cura di R. Fubini, in Scritti politici di Voltaire, UTET, Torino 19782.

  • Wolff 1965 = R. P. Wolff, Beyond Tolerance, in R. P. Wolff, B. Moore jr, H. Marcuse, Critique of Pure Tolerance, Beacon Press, Boston 1965; trad. it. di D. Settembrini, Al di là della tolleranza, in R. P. Wolff, B. Moore jr, H. Marcuse, Critica della tolleranza, Torino, Einaudi, 1968.

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Informazioni
Cita come: Stefano Righetti, Marcuse e la critica della tolleranza in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 3 (2023), pp. 90-102. 10.35948/DILEF/2024.4338
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