| Articolo sottoposto a Peer Review

La ricerca di un marchio normativo della cognizione

Un'impresa da abbandonare, e una possibile alternativa

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 03/02/2023
  • Data accettazione: 28/02/2023
  • Data pubblicazione: 28/03/2023

Abstract

Nei recenti anni, in filosofia della mente si è molto dibattuto su quale sia il modo più appropriato di intendere l’oggetto di studio e la pratica delle scienze cognitive, e, a tal proposito, una notevole eterogeneità di cornici teoriche si sono delineate in letteratura. Da molti questa situazione di disaccordo viene percepita come problematica, e una soluzione spesso proposta è quella di far riferimento, per dirimere le dispute, a un marchio normativo della cognizione, da intendersi come un insieme di condizioni necessarie che un processo deve rispettare per poter essere considerato “cognitivo”.  Nel presente saggio, argomenterò contro questa idea, mostrando come la proposta di un marchio siffatto sia inevitabilmente fallimentare. Inoltre, in alternativa, proporrò un quadro teoretico in cui la situazione di eterogeneità possa venire pacificamente accettata.

 

In recent years, within philosophy of mind it has been debated the best way to understand the subject and the practice of cognitive science, and, in this regard, a remarkable heterogeneity of theoretical frameworks have appeared in the literature. According to many authors, this situation of disagreement represents a problem, and a popular solution for resolving the disputes is to require a normative mark of the cognitive, i.e., a set of necessary conditions that a process must satisfy to be considered “cognitive”. In the present essay, I will argue against this idea, showing how any normative mark can’t be successful. Besides, I will propose a theoretical picture where the heterogeneity of the literature can be peacefully accepted.


Parole chiave
Keywords

Introduzione

Nei recenti anni, parallelamente all’attività delle scienze cognitive stricto sensu, vari framework teorici sono stati dibattuti al fine di caratterizzare, in maniera generale, la nozione di “cognizione” (da intendersi, qui, come l’oggetto di studio delle scienze cognitive), ma nessun consenso, a tal proposito, è stato raggiunto (Akagi 2018). Proposte diverse implicano diverse posizioni riguardo la corretta individuazione degli impegni ontologici delle scienze cognitive, e la varietà del panorama teoretico è stata spesso considerata problematica, in quanto, per poter essere ritenuta scientificamente solida, la nozione di cognizione – così implicitamente si assume – dovrebbe denotare un oggetto ben preciso (Adams 2010), (Aizawa 2014). In questo senso, un’idea popolare in letteratura è che una definizione della proprietà “essere cognitivo”, a cui frequentemente ci si riferisce con «marchio del cognitivo» (Adams e Aizawa 2001), sia ciò che serve per normare la situazione di disaccordo ontologico (Walter 2010), (Wheeler 2019). Infatti, tramite il riferimento ad un insieme di precise condizioni definitorie della cognizione, si può immaginare di arbitrare tra i vari framework presenti, e stabilire, così, quali siano quelli da perseguire e quali quelli da abbandonare. Una simile euristica, tuttavia, rappresenta davvero una buona idea? Nonostante l’intuitività, cercare una definizione univoca dell’oggetto di studio delle scienze cognitive potrebbe risultare un’impresa vana o, quanto meno, limitata. Alcuni autori, del resto, hanno fortemente contestato l’utilità di una simile ricerca (Allen 2017), (Ramsey 2017). Su questa linea, il principale obbiettivo di questo saggio è approfondire alcuni problemi inerenti alla richiesta di un marchio della cognizione. Inoltre, lavorando, diciamo così, per contrasto rispetto l’euristica del marchio, emergerà un quadro alternativo rispetto al quale la varietà di idee riguardo gli impegni ontologici delle scienze cognitive non rappresenta affatto un problema teoretico; tale quadro sarà sviluppato rimanendo apprezzabilmente vicino a ciò che sembra essere il senso stesso del fare scienze cognitive.

Il lavoro sarà diviso in due parti principali, entrambe a loro volta divise in due sezioni. Nella prima parte, spiegherò in quale senso l’attuale situazione nella filosofia delle scienze cognitive possa dirsi eterogenea e, conformemente a ciò, in che senso si possa asserire che è presente una significativa varietà di posizioni rispetto gli impegni ontologici delle scienze cognitive. Dopodiché, presenterò la proposta, popolare in letteratura, che richiedere un marchio della cognizione sia necessario per affrontare la situazione di eterogeneità, la quale, in questo senso, andrebbe percepita come problematica.

Nella seconda parte, dopo aver esplicitato e giustificato alcune assunzioni, argomenterò che la strategia del marchio normativo della cognizione per risolvere la situazione di eterogeneità costituisca, a ben vedere, una cattiva idea, esponendo un dilemma secondo cui un marchio generale normativo sia o ingiustificabile, o inutilizzabile. A seguire, nella sezione finale, delineerò un quadro alternativo in cui interpretare la situazione di eterogeneità di proposte presenti in letteratura, e in questo contesto avrò l’opportunità di arricchire la mia critica all’euristica del marchio normativo della cognizione. Il quadro che proporrò sarà contestualizzato in una riflessione generale sul senso stesso di fare scienze cognitive, e in esso la situazione di eterogeneità può essere dipinta come pacificamente accettabile.

 

1. Eterogeneità e il marchio del cognitivo

1.1 Varietà di framework teorici nella filosofia delle scienze cognitive

Come ho evidenziato nella sezione introduttiva, non c’è accordo nella comunità filosofica e scientifica riguardo la nozione di “cognizione” (Akagi 2018). Alcuni autori asseriscono che la cognizione sia un insieme di processi cerebrali di tipo computazionale e rappresentazionale  che sottostanno alla manifestazione del comportamento intelligente (Adams e Aizawa 2010), (Boone e Piccinini 2016). Altri, nonostante acconsentano sulla caratterizzazione computazionale e rappresentazione della cognizione come insieme di processi sottostanti al comportamento intelligente, insistono che tali processi siano estesi al di là dei confini del cranio e, addirittura, del corpo (Wilson 2004), (Clark 2008). Altri, ancora, affermano che le capacità collegate al comportamento intelligente siano presenti pressoché ovunque nell’albero filogenetico e che, di conseguenza, i processi cognitivi non siano ancorati al sistema nervoso ma siano invece diffusi nell’intero mondo vivente (Lyon et al. 2021), comprendendo anche piante (Calvo e Keijzer 2011), batteri (Lyon 2015) e processi morfogenetici (Mathews e Levin 2018). Inoltre, alcune fette della letteratura, per parte loro, hanno esortato a considerare la cognizione come un fenomeno interamente ecologico, insistendo sull’inessenzialità dei confini tra agenti e ambiente e sulla necessità del ricorso al formalismo dei sistemi dinamici piuttosto che  ai più tradizionali strumenti computazionali (Chemero 2009), (Hutto e Myin 2013).

In questo contesto, l’eterogeneità delle posizioni esistenti è notevole, e gli esempi forniti nel precedente paragrafo sono tutt’altro che esaustivi rispetto alle svariate sfumature e sottodivisioni che vengono compiute negli effettivi dibattiti. È interessante notare che ciascuno di questi tentativi teoretici di identificare un concetto di “cognizione” stabile e generale, tipicamente, è guidato dal seguente pattern: (i) una porzione della letteratura scientifica contenente alcuni supposti buoni esempi di ricerche collegate, o collegabili, alle scienze cognitive viene selezionata; (ii) un’interpretazione teoretica di tale letteratura viene proposta; (iii) alcune caratteristiche generali della nozione di “cognizione” vengono inferite.  Di certo, tale pattern non ha, per così dire, una sequenza lineare di “sola andata”, ma segue, piuttosto, dinamiche di feedback e feedforwarding: sulla base della plausibilità iniziale di alcune concezioni della cognizione – che è un punto, si noti, concernente il passo (iii) – una porzione della letteratura scientifica viene selezionata e interpretata; inoltre, una volta che alcune provvisorie caratteristiche della nozione di “cognizione” sono state individuate, è possibile tornare alla letteratura scientifica rilevante e alla sua interpretazione.

In termini leggermente più filosofici, il punto di queste proposte sembra essere una chiarificazione concettuale della nozione di “cognizione” al fine di ottenere alcune conclusioni ontologiche sull’oggetto delle scienze cognitive. In altri termini, ciò che si intende inferire è cosa la cognizione sia e, conseguentemente, dove sia possibile trovarla nel mondo (Walter e Kästner 2012). Dato che proposte diverse di solito implicano differenti idee su quali siano gli oggetti di cui parlano, o dovrebbero parlare, gli studiosi della cognizione, possiamo asserire che in letteratura ci sia una situazione di eterogeneità di posizioni rispetto l’ontologia delle scienze cognitive, causata da interpretazioni teoretiche diverse della letterature empirica e, in alcuni casi, dalla selezione stessa delle ricerche rilevanti1.

Chiamerò le proposte che seguono il pattern (i) – (iii) appena menzionato “Framework Teorici Generali per le Science Cognitive” (per brevità, “FT”). Inoltre, al fine di avere un’altra utile etichetta, denoterò con “VAR” (per “varietà”) la presenza fattuale in letteratura di FT eterogenei. Per ripeterlo, dato che ciascuno di questi FT è associato con una certa ontologia, VAR implica che c’è una significativa eterogeneità in letteratura rispetto l’ontologia delle scienze cognitive.

Come, tuttavia, dovremmo reagire di fronte a VAR? Come, cioè, dovremmo reagire alla presenza, in letteratura, di differenti framework teorici significativamente eterogenei (e divergenti nel quadro ontologico per le science cognitive che propongono)?

Un’idea molto intuitiva e diffusa, la quale, per lo più, agisce implicitamente come assunzione scontata, è che la nozione di “cognizione”, per essere scientificamente valida, debba denotare un oggetto unitario e definito (Adams 2010), (Aizawa 2014), (Aizawa 2015) (Aizawa 2018), (Adams 2019). In accordo con ciò, VAR in letteratura è stato spesso considerato come sintomatico di alcuni profondi problemi teoretici. Questo è, in breve, il ragionamento: posto di desiderare una scienza della  “cognizione”, la cognizione deve essere qualchecosa, “là fuori”, di definito; ergo, alcuni framework (quelli che non studiato quella cosa definita che sta là fuori e che è davvero la cognizione) devono essere sbagliati, e la situazione di eterogeneità deve essere dissolta. Questa linea argomentativa è alla radice della proposta della ricerca di un marchio normativo della cognizione (Adams e Aizawa 2001); in questo senso, tale proposta definisce una particolare reazione (di allarmismo) di fronte a VAR.

Nella sezione seguente, presenterò l’euristica della richiesta di un marchio normativo della cognizione in più dettagli. Come già detto, l’obbiettivo di questo lavoro sarà mostrare perché questa proposta non è una buona idea, e quale alternativa migliore potrebbe esserci.

 

1.2. L’euristica del marchio normativo della cognizione

In letteratura, con «marchio del cognitivo» ci si riferisce a un insieme definitorio di condizioni necessarie che un processo deve soddisfare per essere considerato un processo cognitivo. Come ho già dichiarato, un uso particolare di questa nozione è profondamente collegata a VAR; tuttavia, in quale senso questo si dia, prima facie, potrebbe non essere ovvio, ed è necessario chiarire a fondo questo punto.

L’espressione «marchio del cognitivo» è stata popolarizzata da Adams e Aizawa (Adams e Aizawa 2001) nel contesto di una risposta critica all’ipotesi della cognizione estesa proposta da Clark e Chalmers (Clark e Chalmers 1998). In breve, l’idea dietro la nascita di tale espressione è la seguente: (a) Clark e Chalmers hanno asserito che i processi cognitivi responsabili per la manifestazione del comportamento intelligente includono parti esterne al cranio; (b) tradizionalmente, le scienze cognitive hanno considerato simili processi come processi realizzati esclusivamente dal sistema nervoso;(c) ergo, al fine di risolvere la disputa tra Clark e Chalmers e le scienze cognitive tradizionali sono necessari alcuni criteri per stabilire quando qualcosa è cognitivo, che, in altri termini, significa che abbiamo bisogno di un marchio del cognitivo per stabilire, coerentemente, se ciò che sta fuori dal cranio può legittimamente essere considerato come parte della cognizione (Adams 2019). Ciò detto, Adams e Aizawa propongono un marchio specifico dal quale seguirebbe che l’ipotesi della cognizione estesa è sbagliata (Adams e Aizawa 2010)2.

La questione, qui, come è evidente, è una divergenza ontologica tra due FT (un’interpretazione cerobrecentrica delle scienze cognitive tradizionali e l’ipotesi della cognizione estesa). Più nello specifico, la presenza di due FT in disaccordo – punti (a) e (b) – è percepita come problematica, e un marchio definitorio è considerato la soluzione che potrebbe suggerire – punto (c) – quale FT è quello corretto e quale quello sbagliato. Di conseguenza, un marchio potrebbe dirci quale tra le due ontologie implicate dalle due FT è quello corretto e quale quello sbagliato. Si noti che, in questo senso, un marchio ha un ruolo normativo: c’è una disputa che deve essere risolta, e un marchio viene considerato come un possibile arbitro della disputa. La chiosa dell’argomento – punto (d) – è che il particolare marchio proposto da Adams e Aizawa muove a sfavore della proposta della cognizione estesa.

Assumendo che la ricostruzione proposta sia corretta, è cruciale compiere ora le seguenti osservazioni.

In primo luogo, è bene sottolineare come sia qui operante l’assunzione che “cognizione” debba riferirsi ad uno specifico e determinato oggetto là fuori: c’è disaccordo tra due quadri ontologici e, dato che la cognizione è un oggetto definito, uno dei due quadri è sbagliato. Inoltre, e più in generale, si noti che è esattamente l’idea che “cognizione” denoti qualcosa di definito che dà innanzitutto speranze di trovare un marchio univoco della cognizione.

In secondo luogo, ci sono almeno due usi della nozione di marchio della cognizione nella discussione compiuta sin qui (Wheeler 2019): da una parte, un marchio (qualsiasi esso sia), è richiesto al fine di produrre una soluzione perentoria ad un’istanza di VAR; dall’altra parte, un marchio specifico può essere proposto, e può essere visto, tra le altre cose, come una specifica soluzione a VAR. Sottolineo che il primo uso definisce un’euristica completamente generale (una sorta di “schema normativo”) che è indipendente, di suo, da qualsivoglia proposta specifica. È il primo uso che connette la nozione del marchio del cognitivo con VAR: richiedere un marchio è considerato una soluzione alla situazione di eterogeneità presente in letteratura. Allora, data la sua generalità, convengo di denotare con l’etichetta “MCnor” l’euristica di richiedere un marchio del cognitivo come soluzione a VAR. In questo senso, la discussione della cognizione estesa da parte di Adams e Aizawa non è altro che un’istanza della strategia generale MCnor.

In connessione con la precedente osservazione, è fondamentale ricordare che MCnor  è stata tirata in ballo da Adams e Aizawa in circostanze differenti dal dibattito sull’ipotesi della cognizione estesa; per esempio, essi si sono appellati alla nozione del marchio per argomentare contro alcune proposte a favore dell’idea che la cognizione sia diffusa nell’intero mondo biologico (Adams e Garrison 2013), (Aizawa 2015), (Adams 2018). Inoltre, l’euristica definita da MCnor  è stata seguita in letteratura da molti altri autori, che hanno manifestato, anch’essi, una qualche forma di preoccupazione di fronte a VAR e hanno abbracciato l’idea di richiedere un marchio normativo per risolvere la situazione di eterogeneità (Rowlands 2009), (Walter 2010), (Wheeler 2019), (Corcoran et al 2020), (Kiverstein e Sims 2021). È importante notare che questi autori hanno posizione diverse riguardo quale sia il FT da preferire, ma, nonostante ciò, le loro proposte sono tutte istanze di MCnor, e ciò testimonia la generalità e l’attrattiva di questa euristica3.

Riassumendo, un marchio del cognitivo è un insieme di condizioni che un processo deve soddisfare per poter essere considerato un processo cognitivo. In letteratura, a parte la proposta originaria di Adams e Aizawa, e al di là del FT preferito, molti autori hanno seguito l’idea che richiedere un marchio del cognitivo sia necessario per fronteggiare la presenza, in letteratura, di FT in disaccordo. Con la nostra notazione: in letteratura, molti autori hanno abbracciato MCnor. Ergo, data la generalità e la diffusione di questa euristica, è importante comprenderne l’effettivo valore. Questo sarà il tema della seconda parte del lavoro.

 


2. L’inevitabile fallimento di un marchio normativo, e perché l’eterogeneità non è un problema

2.1 un marchio normativo non è una buona idea per fronteggiare la situazione di eterogeneità 

In questa sezione, presenterò un argomento contro l’idea che un marchio normativo della cognizione possa legittimamente arbitrare tra gli eterogenei FT. In altri termini, usando le etichette delle sezioni precedenti, presenterò un argomento contro l’euristica MCnor.

Avrò bisogno di alcune assunzioni, che presenterò immediatamente. Insieme all’enunciato di ciascuna assunzione aggiungerò, di volta in volta, alcune note chiarificatrici. Chiarite le premesse, passerò poi a presentare l’argomento, in forma di dilemma, contro la ricerca di un marchio normativo del cognitivo.


[A1] Ogni FT è associato con una certa pratica scientifica.


Questa prima assunzione dovrebbe apparire abbastanza ovvia guardando a qualsiasi FT. Infatti, ciascun FT propone un bagaglio concettuale e tassonomie di vario genere per identificare alcuni oggetti e fenomeni (certi sistemi, capacità, comportamenti, processi, e così via) da considerarsi come il target proprio delle scienze cognitive; inoltre, ciascun FT promuove un insieme (più o meno variegato) di metodologie per lo studio della cognizione. In questo senso, un FT tenta di stabilire cosa sia e dove sia la cognizione nel mondo e come andrebbe indagata, e questo inevitabilmente finisce col connettersi ad una certa pratica scientifica. Dunque, per esempio, i sostenitori della cognizione estesa asseriscono che le scienze cognitive dovrebbero investigare processi distribuiti e sistemi estesi, mentre i sostenitori di posizioni cerebrocentriche insistono sull’idea che l’unico target appropriato per le scienze cognitive sia il sistema nervoso; d’altra parte, ciascun FT è associato ad alcune pratiche sperimentali e modelli matematici piuttosto che ad altri4.

Noto che questa prima assunzione è utile, principalmente, come supporto per la prossima.


[A2] Ad ogni FT può essere associato un certo valore epistemico.


Questa assunzione andrebbe presa in maniera generale, e non insisterò sui dettagli. Di certo, la domanda importante, qui, è: che cos’è, e come è possibile misurare, il “valore epistemico” di un FT? A tal proposito, si noti che, seguendo [A1], ogni FT è associato ad un certo repertorio concettuale, tassonomico e metodologico, e, più in generale, ad una certa pratica scientifica. Dunque, molto in breve, il valore epistemico di un FT dipenderà dalla robustezza e dal successo della pratica scientifica ad esso associato e, più in astratto, dalla coerenza degli strumenti concettuali e tassonomici, e dall’efficacia delle metodologie proposte. Assumo un’idea intuitiva di “robustezza e successo di una pratica scientifica”, avendo in mente i criteri usuali riguardanti, per esempio, l’uso di metodi quantitativi, il potere predittivo, la possibilità di manipolare gli oggetti investigati, l’abbondanza di fenomeni spiegati, la riproducibilità dei risultati, e così via.

Come ho detto, non insisterò sui dettagli, e, bruscamente, ci si sarebbe potuti limitare a dire che assegnare un valore epistemico a un FT deve essere innanzitutto possibile se vogliamo che l’intero contesto della nostra discussione abbia significato. Non si capirebbe, infatti, quale sarebbe il punto della proposta di un FT se non fosse possibile associarlo ad un certo valore conoscitivo.


[A3] Le differenze tra due framework definiscono una disputa non-verbale se, e solo se, sono associati, rispettivamente, ad una pratica scientifica che differisce in qualche punto.


Questa assunzione deve essere propriamente intesa. Non sto asserendo, con strenuo spirito neo-positivista, che le dispute tra FT possano essere interessanti solo se risolvibili attraverso la pratica stessa delle scienze cognitive, un’idea che, seppure in un contesto diverso, è stata già criticata (Sprevak 2010). Piuttosto, il mio punto qui è piuttosto minimale: dato che FT distinti sono associati a certe pratiche scientifiche, allora, se essi sono distinguibili in maniera interessante, la loro associata pratica scientifica deve differire in un certo punto. Stiamo o non stiamo pur sempre parlando di framework generali per le scienze cognitive? Si noti che qua “differire” è da intendersi in maniera molto generale. Due FT possono avere focus significativamente diversi (ergo, concentrarsi su fenomeni diversi), e questo è sufficiente per poter dire che la loro pratica differisce in certi punti. In altre parole, due FT, per essere distinti in maniera interessante, non devono necessariamente implicare (anche se sarebbe ovviamente sufficiente) due predizioni opposte riguardo una possibile osservazione empirica (nel contesto di una sorta di experimentum crucis); piuttosto, i due FT possono essere considerati distinti in maniera interessante se la loro pratica scientifica sistematicamente si focalizza su fenomeni diversi. Dunque, per esempio, affinché un FT vicino alla cognizione estesa sia distinto in maniera non meramente verbale da un altro FT più tradizionalmente cerebrocentrico, è sufficiente che la sua pratica scientifica sistematicamente si focalizzi su sistemi e processi estesi.

Osservo che, seppure non la enuncerò come un’assunzione esplicita, lavorerò con l’idea che un marchio della cognizione debba essere chiamato in causa per arbitrare disaccordi non meramente verbali. In altri termini, MCnor dovrebbe essere abbracciata per arbitrare tra FT distinti in maniera interessante, ovvero tra FT le cui pratiche scientifiche associate differiscono in un qualche punto.


[A4] Non è sempre possibile stabilire, tra due FT differenti in maniera interessante, quale tra le due abbia un maggior valore epistemico (in un qualche senso assoluto).


Per quanto, ovviamente, talvolta si dibatta il valore epistemico di taluni FT, questa assunzione non dovrebbe essere particolarmente problematica. Del resto, dibattere pregi e difetti di un singolo FT è ben più trattabile del confronto tra due FT distinti. Ad esempio, come ho già detto, il valore epistemico di un FT dipende, tra le altre cose, dalla pratica scientifica associata; quando questa, in due distinti FT, diverge perché i fenomeni investigati sono sistematicamente differenti, allora potrebbero non esserci criteri assoluti per stabilire, in generale, quale delle due ha maggior valore epistemico.


[A5] Qualsiasi marchio del cognitivo interessante è associato a uno o più FT. In particolare, un marchio che pretenda di normare VAR è associato a uno o più FT ad esclusione degli altri.


Quest’ultima assunzione è molto importante, ed appare ragionevolmente accettabile. Dopo tutto, qualsiasi insieme interessante di caratteristiche definitorie della cognizione (cioè, qualsiasi marchio interessante) non dovrebbe essere il prodotto di teorizzazioni in poltrona, e il nesso con alcune pratiche scientifiche, strumenti concettuali, tassonomie, e metodologie – il tutto ragionevolmente relazionabile a certi FT – sembra inevitabile. Di conseguenza, affermo che, in particolare, ogni specifico marchio che pretenda di normare VAR o è esplicitamente estratto da una qualche FT esistente, ad esclusione degli altri, o può essere visto come un potenziale generatore di uno o più FT che sono in disaccordo con gli altri FT esistenti.

Ovviamente, il punto di aggiungere la clausola “ad esclusione degli altri” è che il marchio in questione dovrebbe normare VAR, e implicitamente ho assunto che differenti FT non possono definire un unico marchio coerente, il che sembra ragionevole, poiché, altrimenti, è difficile capire perché si avrebbe bisogno, innanzitutto, di un marchio normativo per arbitrare la situazione.

Tanto basta per le assunzioni. Ora, date [A1] – [A5], il mio argomento è così strutturato.

Di fronte a VAR, supponiamo che un marchio del cognitivo M venga proposto per arbitrare tra i framework distinguibili in maniera interessante (non meramente verbale) FT1, …, FTn. Usando la terminologia della precedente sezione, stiamo abbracciando l’euristica MCnor e, in particolare, stiamo ipotizzando di proporre un marchio specifico M per risolvere, coerentemente con quanto richiesto da MCnor, la situazione VAR considerata problematica. Mostrerò ora perché, date le precedenti assunzioni, questa non è affatto una buona idea.

Innanzitutto, data [A5], M dovrebbe essere collegato ad un certo FTk ad esclusione degli altri. Ma come facciamo a giustificare la scelta del FT da cui trarre spunto per definire M? Di certo, non si può dire che FTk è il framework da cui attingere perché il marchio che ne emerge è M e perché M è il marchio corretto. Questo modo di ragionare, di certo, è palesemente circolare. Allora, assumo che l’unico supporto che possiamo avere per la scelta proprio di FTk è sulla base del suo valore epistemico (il quale, per [A2], è associabile ad ogni FT). Il valore epistemico di qualsiasi FT dipende, tra le altre cose, dalla pratica scientifica ad esso associata, e, per [A3], la pratica scientifica associata a FTk è differente da quelle associate agli altri FT (infatti, abbiamo dichiarato che M è proposta per arbitrare tra framework distinguibili in maniera non meramente verbale). Tuttavia, si presenta ora il seguente dilemma.

O si dà che


(I) non c’è alcuna maniera di stabilire quale FT abbia il maggior valore epistemico (che è un’opzione genuina come dichiarato in [A4]),


oppure si dà che


(II) possiamo stabilire, in qualche modo, che il valore epistemico di FTk è, in un qualche senso, il più alto tra i vari FT, rendendo però così MCnor  svuotato di qualsiasi ruolo normativo.


Nel primo caso, ovviamente, il problema è che il marchio M proposto mancherebbe di essere giustificato sulla base del valore epistemico di FTk (che appare l’unica via per evitare giustificazioni circoli della scelta). In questo caso, allora, non avremmo alcun supporto per il marchio proposto, e la disputa tra i vari FT sarebbe normata in maniera arbitraria. Presumo che questa conclusione non sia accettabile per i sostenitori di MCnor. Si noti che (I) implica che, sulla base di soli criteri per giudicare il valore epistemico dei vari FT, potremmo dover accettare la coesistenza di FT eterogenei. Ritornerò su questo punto nella sezione successiva.

Nel secondo caso, sottilmente, il problema espresso è che MCnor apparirebbe completamente inutile come euristica, perché tutto il lavoro normativo (e MCnorè un’euristica normativa!) sarebbe già stato fatto in relazione al valore epistemico dei vari FT. In altre parole, nel caso (II), il ruolo normativo del marchio M proposto sarebbe illusorio, poiché esso arriverebbe, per così dire, a giochi già fatti, dopo che altri criteri riguardo il valore epistemico dei framework ci hanno già convinto che FTk  sia l’unico framework da perseguire.

In conclusione: MCnor non è una buona idea per fronteggiare VAR, perché qualsiasi marchio normativo M proposto o manca di giustificazione o non è in grado di giocare alcun ruolo normativo. Ergo, dovremmo smettere di pretendere che dispute tra FT eterogenei possano essere normate da un marchio generale normativo della cognizione. Ciò che il dilemma evidenzia, in altre parole ancora, è che se vogliamo definire alcune condizioni necessarie per certe proprietà delle cose (cioè, un marchio ontologico) sulla base del valore epistemico di certi framework teorici, allora è necessario avere dei criteri indipendenti dal marchio per stabilire il suddetto valore epistemico; ma allora, certamente, un marchio appare superfluo al fine di normare tra i framework considerati. Per osservazioni simili, si veda (Allen 2017). Le alternative sono: o si sceglie di riferirsi ad altri criteri e non alla bontà epistemica dei framework, ma a tal proposito è del tutto oscuro a cosa altro mai ci si potrebbe riferire per scegliere un framework; oppure, si sceglie di non riferirsi affatto ai framework, ma ciò, d’altra parte, sembra implicare un totale scollamento del marchio proposto dalla pratica scientifica, non riuscendo così più a capire a cosa ancorarsi per definire (ancora più per giustificare) un qualsivoglia marchio.

A scopi illustrativi, e per dare corpo all’argomento mostrando un’istanza specifica del dilemma sopra proposto, prendiamo ad esempio il dibattito tra gli avvocati di una visione cerebrocentrica-rappresentazionale della cognizione associabile alle scienze cognitive classiche (Adams e Aizawa 2010) e i sostenitori della cognizione estesa (Clark e Chalmers 1998). Supponiamo di voler normare la disputa prendendo in considerazione un marchio ℳ definitorio della proprietà “essere cognitivo”. Supponiamo, seguendo la proposta classica di Adams e Aizawa, che:


[Marchio ℳ ] : P è un processo cognitivo =Def P è un processo rappresentazionale e computazionale.


Ora, come dovremmo giustificare tale marchio? Si noti che Adams e Aizawa hanno ribadito più volte di essere degli “intracranialisti contingenti” (Adams e Aizawa 2001), (Adams e Aizawa 2010), intendendo, con ciò, che il cerebrocentrismo è da considerarsi corretto non per una qualche petizione di principio, ma perché, dato ℳ, e dato che  per un mero fatto contingente i processi definiti secondo ℳ si trovano solo dentro il cranio, il cerebrocentrismo è da considerarsi corretto. Ma Adams e Aizawa – e questo è il punto – come intendono giustificare ℳ? A tal proposito, si consideri il seguente passaggio:

[…] the dispute must be joined by a substantive theory of the cognitive. This is why we offer the conjecture that cognitive processes involve non-derived representations that are embedded within (largely unknown) cognitive mechanisms. This is not a definition of the cognitive, let alone a stipulative definition of the cognitive. It is a theory that we think is implicitly at work in a lot of cognitive psychological research. Cognitive psychologists have not, in general, definitively established what mechanisms are at work in cognitive processing, but they generally assume that cognitive mechanisms exist and that they are discoverable through clever experimental techniques. We very briefly described just the tip of the iceberg of research there is on memory, leaving aside the vast literature on such topics as linguistic processing, attentional processing, and reasoning. We think these examples lend considerable plausibility to the claim that there are processes that are plausibly construed as answering to our common-sense and orthodox conception of the cognitive that occur only within core neurons of the brain. (Adams e Aizawa 2010, pag. 84)

Sembra di capire che la giustificazione di ℳ dipenda proprio dalla pratica della psicologia cognitiva classica, che, del resto, si è sempre occupata del contributo del sistema nervoso centrale nella manifestazione di certe capacità. D’altra parte, un framework cerebrocentrico-rappresentazionale che includa le scienze cognitive classiche sembra proprio ciò che si vuole far prevalere contro le proposte della cognizione estesa: questo è il dibattito che si intende normare proponendo un marchio. Ma allora la necessità di giustificazioni esterne per evitare ragionamenti circolari appare evidente, e la struttura del dilemma sopra delineato sembra aver già preso forma. ℳ  è giustificato facendo riferimento alle scienze cognitive classiche; d’altra parte, il potere giustificatorio delle scienze cognitive classiche deve ricadere nel loro valore epistemico, e non – a meno di circolarità – nel loro rispettare ℳ. Ma allora, a ben vedere, ℳ non è in grado di giocare alcun ruolo normativo nella disputa tra le scienze cognitive classiche, concentrate sul sistema nervoso centrale, e le proposte dei sostenitori della cognizione estesa, aperte a processi e sistemi extra-cerebrali. Anche vi fosse un modo di stabilire che le scienze cognitive classiche hanno, in un qualche senso, un maggior valore epistemico rispetto ad un framework simpatizzante con le proposte della cognizione estesa (e, senza mai far riferimento ad alcun marchio, c’è chi lo ha sostenuto, e.g., (Rupert 2009)), finiremmo col far prevalere una certa visione sulla cognizione e sul fare scienze cognitive che non è normata da ℳ . E questo, in buona sostanza, è il dilemma sopra delineato5.

Prima di chiudere questa sezione, è molto importante capire cosa intende bersagliare il precedente argomento.

Innanzitutto, se non dovesse essere chiaro, il precedente argomento certamente non nega in alcun modo che vi siano criteri obbiettivi e ragionevoli per perseguire o abbandonare certi framework. Si pensi ai criteri per valutare il valore epistemico di un framework. Non ci siamo dilungati troppo su di essi (si veda comunque l’assunzione [A2]), ma posto che abbia senso parlare in generale di “valore epistemico”, certamente sembra ragionevole asserire che, se un framework è considerato epistemicamente valido, allora tale framework andrebbe perseguito, e, altrimenti, abbandonato. Ma simili criteri appaiono del tutto indipendente dal “marchio del cognitivo”. D’altra parte, se i criteri epistemici sono sufficienti per scegliere di mantenere o abbandonare certi framework di ricerca, impegnarsi poi a trovare un marchio è uno sforzo teoretico ulteriore che,  se rivolto alla normatività, va incontro al dilemma sopra presentato.

D’altra parte, prego di notare che il mio argomento è specificatamente contro MCnor, che è una particolare euristica riguardante l’uso del marchio del cognitivo; in accordo a ciò, il mio argomento non è contro ogni possibile uso di questa nozione, ancor meno contro ogni possibile tentativo di chiarire (in un qualche senso) il concetto di cognizione. Per esempio, il mio argomento non implica che cercare un supposto marchio che emergerebbe da uno specifico FT (che viene magari perseguito per il suo valore epistemico) costituisca un problema di principio: un marchio può essere utile per organizzare o in qualche modo migliorare la ricerca interna ad un certo FT, o per interpretarlo meglio. Il mio argomento è neutrale rispetto a questo. Certo, però, va detto che i ricercatori, per guidare la loro pratica scientifica, tipicamente seguono indicazioni molto più agili e intuitive sul loro oggetto di studio rispetto a un insieme gessoso di condizioni definitorie della cognizione (Allen 2017); in questo senso, è compito di chi propone un marchio, eventualmente, chiarire quale vantaggio teoretico si potrebbe ottenere da esso. Per parte mia, comunque, non voglio negare di principio che non ci sia un alcun uso sensato della nozione di “marchio del cognitivo”. Ma, di nuovo, ciò che intendo negare con il mio argomento è che non c’è alcuna maniera sensata o interessante di proporre un marchio normativo per arbitrare la situazione teoretica di eterogeneità della letteratura.

 

2.2.  Un quadro alternativo

Un modo alternativo di fronteggiare VAR può essere radicato in alcune osservazioni sul fare scienze cognitive. In quanto segue, esporrò tali osservazioni, per passare poi a spiegare come queste possano essere utilizzate ai fini della nostra intera discussione.

Sembra ragionevole asserire che, nello sviluppare una “scienza della mente”, ciò che si sta cercando di fare è organizzare e governare un dominio pre-teorico di fenomeni e pattern che è fuzzy e poco definito, e che ci appare in qualche modo interessante e bisognoso di chiarificazioni. Ciò che si staglia da questo dominio sono certi sistemi\soggetti\agenti (tipicamente, esseri umani) che interagiscono con l’ambiente\contesto manifestando certe capacità peculiari che pre-teoricamente chiameremmo “intelligenti”, “razionali”, “adattive”, “goal-directed”, e così via. Si noti che questo dominio è aperto e rivedibile, e si noti che, a questo livello, non si sta imponendo nessun vincolo teoreticamente pesante nella sua definizione: anche se gli esseri umano con le loro capacità appaiono come il target privilegiato, non siamo, a questo livello, ancorati a nessuna concettualizzazione teoreticamente pesante nemmeno nel caso stesso dell’’essere umano, e dovremmo sentirci liberi di considerare altri sistemi con le loro capacità (altri animali e, magari, IA, o piante, o batteri). Le scienze cognitive, in quanto impresa scientifica, sembrano, innanzitutto, un insieme di strumenti metodologico-linguistici per organizzare, dare spiegazione, e governare questi fenomeni. Ciò che sto descrivendo(mi auguro pacificamente)  è una ricostruzione della genesi e dello sviluppo delle scienze cognitive in quanto disciplina scientifica: si raggruppano pre-teoricamente alcuni fenomeni che appaiano come target di una possibile disciplina scientifica unica, e attraverso concettualizzazioni più precise e l’utilizzo di metodi sperimentali e formali (oltre, ovviamente, altre conoscenze scientifiche addizionali), si tenta di sviluppare un’impresa scientifica che, in un qualche senso, miri a quel dominio pre-teorico. Per simili idee, si veda (Ramsey 2017). Di certo, l’intero processo è altamente dinamico e molto più caotico di questa descrizione semplificata; tuttavia, in termini generali, tale ricostruzione appare fedele.

A questo punto, possiamo fare la seguente, cruciale, osservazione. Non sembra che vi sia un unico percorso dal dominio pre-teorico ad una qualche attività scientifica precisa, e la ragione sembra essere che non c’è una unica maniera valida e florida di teorizzare sopra il dominio pre-teorico della “mente”, e non sembra esserci un’unica metodologia efficace per modellizzare o indagare sperimentalmente i fenomeni ad esso associati. In altri termini, possiamo dire che non c’è una unica tradizione di ricerca possibile – nel senso di Laudan (Laudan 1977) – nelle scienze cognitive, e anche all’interno di tradizioni di ricerca specifiche sono apprezzabili notevole discrepanze. Su di questo, si veda anche (Steiner 2021). Assumo che i Framework Teoretici Generali per le Scienze Cognitive (cioè, quelli che ho chiamato “FT”) di cui abbiamo parlato, dovrebbero essere considerati come degli sforzi filosofici di chiarificare e mettere in relazione, in un senso molto ampio, una porzione di ciò che viene fatto nelle scienze cognitive, alcune specifiche concettualizzazioni delle nozione di “mente”, e il dominio pre-teorico stesso da questa definito. Inoltre, possiamo anche dire che i vari FT sono delle costruzioni teoretiche per sistematizzare o interpretare certe tradizioni di ricerca nel senso di Laudan. In accordo a ciò, dato lo stato magmatico delle scienze cognitive, nella letteratura è possibile trovare diversi FT, i cui impegni ontologici, tra le altre cose, sono eterogenei. Questa, del resto, era proprio la situazione descritta da VAR.

Ma allora, ritengo che quanto detto sin qui ci permetta proprio di rimuovere l’aurea problematica attorno a VAR, spianando la strada ad un quadro alternativo in cui contestualizzare questa situazione. L’eterogeneità degli FT sembra inevitabile data la presenza di differenti tradizioni di ricerca nelle scienze cognitive contemporanee. È importante osservare che non è possibile sapere in anticipo se finiremo con l’avere un unico paradigma di ricerca unificato, e dovremmo perciò rimanere aperti alla possibilità della coesistenza di differenti cornici scientifiche, in quanto ciascuna di esse potrebbe avere un proprio valore epistemico non negoziabile nell’affrontare, da un qualche punto di vista, quel dominio pre-teorico che ha mosso, ab initio, lo sviluppo stesso di una qualche scienza cognitiva. Potremmo ritrovarci, allora, nella situazione di dover accettare diversi FT ontologicamente eterogenei. Ed è questo un problema? La risposta dovrebbe essere negativa: dobbiamo riconoscere che, anche se due FT potrebbero avere impegni ontologici distinti, non è affatto ovvio, a partire da ciò, che essi debbano trovarsi in una qualche relazione di conflittualità in senso stretto. Potrebbero semplicemente occuparsi di fenomeni diversi, o avere focus marcatamente diversi su oggetti più o meno simili. Si noti che se l’eterogeneità dei FT non è un problema, allora, per definizione, VAR non è un problema: la presenza di FT eterogenei è il risultato naturale dello stato diversificato delle scienze cognitive; a loro volta, dato che le scienze cognitive sono, prima di tutto, un modo di organizzare il dominio pre-teorico di “mente”, non è necessario pensare che vi sia un unico modo possibile di fare scienze cognitive. Tutto ciò implica una pacifica accettazione dell’eterogeneità e un rifiuto della ricerca di un marchio normativo della cognizione. In estrema sintesi: non c’è niente di cui preoccuparsi riguardo la varietà dei framework teoretici, dato lo stato attuale delle scienze cognitive, e dato anche ciò che sembra significare, innanzitutto, il fare scienze cognitive.

Prima di concludere, è bene notare come, in questo contesto, possiamo arricchire le critiche precedenti alla ricerca di un marchio normativo della cognizione, e possiamo anche vedere sotto un’altra luce l’assunzione cruciale che ne sta alla base riguardo l’unitarietà e la definitezza dell’oggetto denotato dalla nozione scientifica di “cognizione”. Come ho detto, un marchio del cognitivo, per essere interessante, deve essere relazionato a un qualche framework teorico (vedi anche [A5]), e ogni marchio che pretenda di essere generale e normativo deve affrontare il dilemma sopra presentato. A questo punto, dovremmo ammettere che cercare un marchio normativo generale appare come un tentativo di regolare qualsiasi possibile framework scientifico che intenda mirare a quel dominio fuzzy denotato dalla nozione pre-teorica di “mente”. Ma perché dovremmo provare a normare qualsiasi possibile sviluppo teoreticamente impegnato di una nozione pre-teorica attraverso specifiche nozioni teoreticamente impegnate? Prendendo in prestito alcune idee da un antico maestro, questo sembra un tentativo di rispondere a «domande esterne» attraverso risposte a «domande interne» (Carnap 1950). Invece, c’è un senso vago e intuitivo di parlare di “mente” che sembra semplicemente necessario sia prima di sviluppare qualsiasi framework teorico sia al fine di lasciare aperti possibili differenti sviluppi. Non vedo alcun merito nel contrastare simili dinamiche con atteggiamenti normativi. Il tentativo, volendo insistere su questo punto, sembra proprio concettualmente e metodologicamente sbagliato: prendendo ancora in prestito alcune idee da un altro antico maestro, nelle dispute della forma “la cognizione è X, la cognizione è Y”, dovremmo immaginare che i teoreti coinvolti stiano discutendo possibili o attuali framework dopo aver operato una sorta di «ascesa semantica» (Quine 1961). Ma non è a questo livello che dovremmo scegliere i framework da perseguire o abbandonare; come già detto, questa scelta andrebbe fatta sulla base del valore scientifico, o, più in generale, sulla base del valore epistemico dei framework in esame, e, per ripeterlo, potremmo ritrovarcene più di uno in casa. Coerentemente, si noti che l’assunzione che “cognizione” debba denotare un oggetto unico definito appare ragionevole, al massimo, rispetto ad una versione di questa nozione già specificata in un framework teoreticamente impegnato. Pretendere che il dominio fuzzy denotato dalla nozione pre-teorica di “mente” sia una sola cosa definita, a ben vedere, è un’asserzione oscura, in quanto la nozione pre-teorico non è, e non può essere, rifinita abbastanza6. Questo però significa che c’è un senso in cui la nozione di “cognizione”, nel suo essere un generatore di possibili framework teorici per indagare quel dominio fuzzy e pre-teorico di “mente”, non denota, e non può denotare, niente di definito. E tuttavia ciò, ironicamente, non ne riduce affatto il valore scientifico, ma, anzi, lo arricchisce7.


3. Sommario conclusivo

In questo lavoro, siamo partiti dal riconoscimento di una situazione di eterogeneità nella filosofia delle scienze cognitive (a cui mi sono riferito con VAR). Nello specifico, abbiamo notato come siano presenti diversi Framework Teorici Generali per le Scienze Cognitive (a cui mi sono riferito con “FT”) e come, ciascuno di essi, prescriva impegni ontologici differenti. Da ciò, abbiamo osservato come nella filosofia delle scienze cognitive contemporanee vi sia una situazione di eterogeneità rispetto le idee riguardo gli impegni ontologici delle scienze cognitive.

Dopo di ciò, abbiamo considerato la nozione di “marchio del cognitivo”, definita come un insieme di condizioni necessarie che un processo deve soddisfare per poter essere considerato cognitivo. Nella letteratura, una simile proposta è stata spesso utilizzata in senso normativo: l’euristica è che richiedere un marchio normativo sia necessario per arbitrare tra diversi FT presenti in letteratura; in questo senso, richiedere un marchio definisce una specifica reazione a VAR (che è percepita come problematica). Ho dato a questa euristica l’etichetta MCV-nor.

Nella seconda parte, ho proposto un argomento (a partire da alcune assunzioni esplicite) contro l’idea che MCV-nor possa costituire una buona reazione a VAR. In breve, il punto è che la suddetta euristica finisce col fronteggiare il seguente dilemma: qualsiasi marchio normativo o manca di una giustificazione, o non è in grado di giocare alcun ruolo normativo. In chiusura, ho proposto un quadro alternativo in cui contestualizzare VAR, radicato in alcune osservazioni su ciò che sembra essere il senso stesso di fare scienze cognitive. In particolare, dalla mia proposta, emerge un’accettazione pacifica della situazione di eterogeneità, che non dovrebbe perciò essere percepita come problematica. In questo contesto, ho anche arricchito le mie critiche precedenti sulla ricerca di un marchio normativo, puntando ad alcuni problemi che stanno alle sue stesse fondamenta.

Note
  • 1

    Per esempio, si consideri come i sostenitori di posizioni “cerebrocentriche” si oppongano alla rilevanza, per le scienze cognitive ed ergo per i suoi impegni ontologici, di alcune ricerche sulla chemiotassi dell’E. Coli, contro alcuni autori che invece hanno sostenuto che, in simili ricerche, si stiano effettivamente studiano capacità cognitive (Van Dujin et al. 2006).

  • 2

    Le caratteristiche specifiche del marchio proposta da Adams e Aizawa non sono rilevanti alla nostra discussione.

  • 3

    Un caveat.  È importante riconoscere che, in letteratura, l’uso di MCnor non è sempre esplicitamente dichiarato: alcuni autori si limitano a proporre un certo marchio, ed è solo dal contesto che possiamo inferire che stanno, di fatto, tentando di affrontare VAR con un atteggiamento normativo (stanno, cioè, abbracciando la strategia MCnor). Inoltre, anche se in letteratura tale uso del marchio è evidente, non sempre è chiaro se chi lo propone, di volta in volta, considera il marchio come la soluzione necessaria a VAR (che è la posizione originaria di Adams e Aizawa), o solo, più debolmente, una soluzione sufficiente. Comunque, tale sofisticazione è completamente superflua rispetto la nostra discussione.

  • 4

    A tal proposito, è bene ricordare il pattern in tre step sopra menzionato che tipicamente definisce un FT: : (i) una porzione della letteratura scientifica contenente alcuni supposti buoni esempi di ricerche collegate, o collegabili, alle scienze cognitive viene selezionata; (ii) un’interpretazione teoretica di tale letteratura viene proposta; (iii) alcune caratteristiche generale della nozione di “cognizione” vengono inferite.

  • 5

    Stabilire quando un framework teorico ha maggiore valore epistemico di un altro framework è una questione tutt’altro che banale. Tuttavia, addentrarci nel dettaglio in simili questioni esula dagli scopi del presente saggio, e per ciò che ci riguarda è sufficiente supporre che abbia senso parlare di valore epistemico di un framework teorico e che, almeno in qualche caso, certi framework vengono abbandonati o perseguiti sulla base di esso.

  • 6

    Per un punto simile, ma nel contesto della discussione della nozione di “vita”, si veda (Machery 2012).

  • 7

    Qualcuno potrebbe lamentare che quanto proposto è solo una forma di pragmatismo anti-realista; tuttavia, ad uno sguardo attento, la mia posizione è perfettamente neutrale rispetto dispute metafisiche molto generali come quelle tra realismo e anti-realismo. Del resto, alcune forme di realismo minimamente sofisticate sono del tutto compatibili con la mia proposta. Si veda, ad esempio, (Duprè 1993) e (Chang 2017).

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Informazioni
Cita come: Matteo Cerasa, La ricerca di un marchio normativo della cognizione Un'impresa da abbandonare, e una possibile alternativa in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 2 (2023), pp. 87-106. 10.35948/DILEF/2023.4306