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La contemplazione nei Dialoghi italiani di Giordano Bruno

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 10/10/2024
  • Data accettazione: 28/11/2024
  • Data pubblicazione: 06/12/2024

Abstract

Se si confronta la nozione di contemplazione per come Bruno la recepisce dalla tradizione filosofica – sia aristotelica sia platonica – che lo ha preceduto con la sua concezione ontologica, antropologica e cosmologica, non sarà difficile trovare divergenze. Questo contributo, ricercando nei Dialoghi italiani le tracce dell’idea di contemplazione, si propone di ricostruire una continuità della riflessione bruniana, mettendo in evidenza anche le rotture che occorrono nel percorso filosofico dell’autore. Alla luce di ciò, si cercherà di far emergere l’esigenza di una rielaborazione originale, da parte di Bruno, del concetto di contemplazione, che sia coerente con la nolana filosofia. L’approdo a cui si giungerà sarà quello di una declinazione del concetto in chiave produttiva: il furioso-contemplativo imita l’efficacia del primo principio e causa.

 

If one compares the notion of contemplation as Bruno acknowledges it from the previous philosophical – both Aristotelian and Platonic – tradition and his own ontological, anthropological and cosmological conception, it will not be hard to find some contradictions. By looking for the traces of contemplation in his Dialoghi italiani, this study aims to reconstruct a continuity of Bruno’s meditation in his work, highlighting at the same time the breaks occurring in the author’s philosophical path. Considering this, we will try to bring out the need of an original rewriting of the concept of contemplation in accordance with Bruno’s philosophical thought. Here, we suggest that Bruno revises the notion which we are taking into account in a productive way: the contemplative-furioso reproduces the effectiveness of the first principle and cause.


Parole chiave
Keywords

Introduzione

Questo lavoro si propone di affrontare il tema della contemplazione nel pensiero di Giordano Bruno con particolare riferimento alla riflessione maturata dall’autore nei suoi Dialoghi italiani.

L’oggetto che qui si è scelto di considerare si confronta, nella trattazione bruniana, sia con la tradizione aristotelica – mediata dalla rielaborazione che ne ha fatto la filosofia medievale – sia con il pensiero platonico – il quale aveva conosciuto una significativa rinascita nel corso del Quattrocento – dei quali, di seguito, si tratteggeranno brevemente gli aspetti principali.

A seguito della ricezione dell’Etica nicomachea di Aristotele, avvenuta tra il XII e il XIII secolo, si aprì, all’interno della riflessione filosofica (e teologica) medievale, il dibattito intorno al rapporto tra felicità mentale e beatitudine eterna. Lo Stagirita aveva sostenuto (Etica nicomachea X 7-9) che la felicità è un bene che l’uomo desidera per se stesso e che consiste nell’attività conforme a virtù della parte migliore dell’anima, l’intelletto: si tratta della contemplazione, la «completa attualizzazione della capacità propriamente umana di conoscere la realtà tramite la ragione»1. L’esercizio di tale attività rende l’uomo beato – mentre dedicarsi alla vita politica e all’applicazione della virtù etica permette il benessere della comunità, ma conduce a uno stato di vita inferiore rispetto a quello del filosofo:

Una tale vita sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui v’è qualcosa di divino; […]. Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto alla vita umana2.

Il dibattito medievale3, mediando la filosofia con il Cristianesimo, introduce all’interno di questa concezione della contemplazione il problema del compimento dell’umano in una dimensione ultramondana alla quale si differisce la realizzazione dell’essenza dell’uomo nella visio Dei, impossibile durante la vita terrena all’uomo che è viator4. La questione era piuttosto controversa, poiché su questo terreno venivano, di fatto, a scontrarsi filosofia e teologia, nel tentativo di definire i propri confini in autonomia l’una dall’altra.

Una sintesi efficace, in questa sommaria ricostruzione del dibattito, è rappresentata dalle seguenti parole di Maria Bettetini: «il Medioevo inseguiva una sola felicità, quella della mente, o intelletto, o spirito. La pluralità sta nel dove e nel come: se in questa o nell’altra vita, se insieme ai piaceri del corpo o in opposizione a questi, se al culmine della ricerca filosofica o nell’abbandono mistico»5.

Quanto al platonismo, Bruno è debitore dell’opera di riscoperta e traduzione delle opere di Platone – in larga parte sconosciute al pensiero medievale – da parte di Marsilio Ficino. In particolare, per quanto concerne il tema della contemplazione, Ficino rielaborò i temi della filosofia dell’amore del Simposio platonico: egli distingue, infatti, tra una «Venere celeste» e una «Venere volgare», le quali hanno a che fare rispettivamente con la contemplazione e la generazione. Questa seconda forma di amore ha una dignità inferiore all’altra in quanto ne è «ombra» e, tuttavia, non è del tutto svalutata nel pensiero di Ficino: infatti, anche la bellezza dei corpi è infusa da Dio per suscitare il desiderio di trascendere la sensibilità e pervenire alla conoscenza, sospingendo l’anima verso l’origine di ogni amore e ogni bellezza – Dio stesso6. Questo anelito, tuttavia, è destinato a rimanere inappagato fintantoché l’uomo sarà «avvinto nella propria corporea sensibilità»7, ma, allo stesso tempo, continuamente rinnovato dalla corporeità stessa.

La questione che qui si intende affrontare prende le mosse da una tensione registrabile tra queste due tradizioni filosofiche, da una parte, e l’impostazione metafisica, antropologica e politico-morale del pensiero di Bruno, dall’altra. In particolare, il problema nasce dal fatto che, se la tradizione propone una concezione, per così dire, statica della contemplazione, intesa come possesso di un’essenza da parte della facoltà razionale dell’uomo – quale aspetto in cui egli può massimamente e specificamente realizzarsi – da differire a una vita ulteriore, una volta liberi dalle catene del corpo e dai limiti della materialità, essa non può essere accolta tout court da Bruno, bensì deve essere rielaborata8. Egli, infatti, pensa il dinamismo, l’infinita ed eterna produttività, come superiore alla stasi, secondo una priorità che si riflette in ogni ambito; ha una concezione non dualistica della realtà e, dunque, non prevede un’altra dimensione, migliore di quella in cui saremmo confinati nell’esistenza terrena in attesa della liberazione e della piena beatitudine, bensì esiste solo questo mondo nel quale l’unico principio immanente si realizza; identifica in una configurazione corporea l’aspetto qualificante dell’uomo – il quale non è costituito di una sostanza differente od ontologicamente superiore rispetto agli altri enti – e, pertanto, occorre rivalutare il ruolo dell’intelletto nella contemplazione e rivedere una concezione di quest’ultima come possesso intellettuale di un qualche bene9.

Qui si cercherà di mostrare quanto appena detto, dapprima, attraversando la concezione antropologica del Nolano, secondo cui l’uomo è dotato di occhio e mano, ma è quest’ultima a definirlo in quanto tale, a immagine del primo principio; il quale è soprattutto e prima di tutto ingegno universale, artefice interno del mondo, e non atto puro in stato di contemplazione di sé. Si procederà, poi, osservando alcune occorrenze rilevanti del termine contemplativi, allo scopo di registrare la definizione ambigua di tali figure nella riflessione bruniana.

Successivamente, si entrerà nel merito di alcuni passaggi significativi dei Dialoghi, con particolare riferimento al De la causa, principio e uno, allo Spaccio de la bestia trionfante e al De gli eroici furori.

Il primo interessa alcuni aspetti dell’ontologia bruniana, fra i quali una rinnovata nozione di perfezione come realizzazione di ogni forma nella materia, cui si accompagna una rivalutazione della materia stessa e uno slittamento del concetto di forma in direzione della configurazione accidentale che l’unica sostanza assume nell’infinita produzione – interna – di sé. Inoltre, il De la causa esclude che ci possa essere un orizzonte ultraterreno, superiore alla natura in cui l’Uno si esplica.

Quanto allo Spaccio, esso sostiene e arricchisce l’ontologia bruniana, sottolineandone l’omogeneità, con l’idea che, proprio in virtù del fatto che la sostanza di cui ogni cosa è fatta è una – o, sarebbe meglio dire, in virtù del fatto che l’unica sostanza assume infinite forme, che rappresentano le infinite cose – ciascun ente ha pari dignità ontologica, è una configurazione del divino e ne riflette l’efficacia, al punto che, anche sul piano morale, Bruno propone una certa idea di operosità, di contro all’ozio dei riformati.

I Furori, nell’affrontare il tema della ricerca del divino da parte del furioso, contribuiscono alla riflessione sulla contemplazione nella misura in cui, ancora una volta sulla base dell’omogeneità ontologica della realtà, insistono sull’immagine di una caccia che si ripiega sul cacciatore stesso, poiché egli trova il divino in sé. Questo è, anche, il testo più problematico, dal momento che se, da un lato, sembra essere il compimento della riflessione che l’autore conduce nei dialoghi precedenti, in certi passaggi, invece, egli sembra esprimersi in modo contraddittorio alla metafisica che è andato costruendo, rimandando a una visione dualistica del mondo e a una svalutazione della materia e della corporeità. A tale problematicità si aggiunge, inoltre, il fatto che il tema dell’unione con l’Uno – che dovrebbe essere riservata a pochi – è affrontata in un dialogo morale.

Alla luce di tutto ciò, nella parte conclusiva di questo lavoro, si cercherà di proporre una lettura produttiva della contemplazione, che ne riscriva i tratti rispetto alla tradizione, cercando di seguire una certa continuità fra le considerazioni che il Nolano fa nei suoi Dialoghi e di affrontarne le numerose ambiguità e contraddizioni.

 

Verità e legge

Un primo elemento da tenere in considerazione è la distinzione bruniana – di matrice averroista10 – tra i filosofi e la «sciocca moltitudine» contenuta ne La cena de le ceneri.

In questo dialogo, il Nolano mette in campo una distinzione tra «teorica delle cose della natura» e «prattica di cose morali», tra il piano gnoseologico della verità, cui si accede – sono pochissimi a poterlo fare – a partire dall’utilizzo di «raggioni» e «sentimenti»11, e quello pratico della legge, che è, invece, finalizzato a «garantire i meriti e le virtù che rischierebbero di essere disprezzati dalla moltitudine»12 e sotto il cui dominio cade anche la religione: mentre i filosofi «senza legge fanno quel che conviene»13, i più non sono autonomi e necessitano di norme che diano ordine alla convivenza civile. Coerentemente con questa concezione, Bruno ritiene, quindi, che la religione non debba essere messa al bando dalla filosofia, ma, al contrario, che essa sia indispensabile e debba essere favorita – nella sua forma migliore14 – dai «contemplativi», e tuttavia, al contempo, essa risulta svuotata del contenuto di verità che pretenderebbe di avere: è una legge, al pari di quella civile15.

Proprio per queste ragioni, il Nolano sostiene che il filosofo debba servirsi della dissimulazione come espediente con cui comunicare un contenuto veritativo a chi è in grado di intenderlo e, allo stesso tempo, parlare «secondo l’occasione e comodità»16 affinché non «vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose»17: alla moltitudine occorre rivolgersi «di maniera che, secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire quel ch’è principale»18.

È in questo ambito di riflessione che, nella Cena, Bruno introduce anche la distinzione tra occhio e mano: questa ricalca la separazione tra teoria e pratica, ma allo stesso tempo ricorre anche nello Spaccio de la bestia trionfante e nella Cabala del cavallo pegaseo nei quali si arricchisce di significato.

In particolare, nel terzo dialogo dello Spaccio, la questione è affrontata quando l’Ozio si propone per sostituire la costellazione di Perseo: Giove spiega che gli dei avevano reso gli uomini simili a divinità poiché avevano donato loro l’intelletto e la mano, rispettivamente per contemplare e agire. In questo passaggio, benché si affermi che l’uomo «non contemple senza azione, e non opre senza contemplazione»19, tuttavia è l’ingegno20 ciò che permette di dare vita a nuovi corsi di eventi che trascendano le leggi naturali.

Il tema ricorre anche nella Cabala laddove Sebasto e Onorio, nel secondo dialogo, discutono del fatto che l’anima dell’uomo e quella degli animali non siano ontologicamente differenti, bensì identiche in essenza, e che derivino la loro gradazione dal corpo con cui sono congiunte:

Là onde quel spirito o anima che era nell’aragna, e vi avea quell’industria e quelli artigli e membra in tal numero, quantità e forma; medesimo, gionto alla prolificazione umana, acquista altra intelligenza, altri instrumenti, attitudini ed atti. […]. Quindi possete capire esser possibile che molti animali possono avere più ingegno e molto maggior lume d’intelletto che l’uomo […]; ma per penuria d’instrumenti gli viene ad essere inferiore, come quello per ricchezza e dono de medesimi gli è tanto superiore21.

Senza le mani l’uomo non sarebbe tale perché, come scrive Fulvio Papi, «dal punto di vista dell’essere», in accordo con l’ontologia bruniana, «non vi è alcuna diversità tra i viventi. Sono le mani, struttura corporea, a consentire la ‘divinizzazione’ dell’uomo, ma, più correttamente, si dovrebbe dire la umanizzazione dell’uomo, vale a dire la sua possibilità di stabilire una differenza tra sé e gli altri»22.

Infatti, Bruno scrive:

posto che l’uomo avesse al doppio d’ingegno che non ave, e l’intelletto agente gli splendesse tanto più chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venesser transformate in forma de doi piedi, rimanendogli tutto l’altro nel suo ordinario intiero; […] dove sarrebono le instituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edifici ed altre cose assai che significano la grandezza ed eccellenza umana, e fanno l’uomo trionfator veramente invitto sopra l’altre specie? Tutto questo, se oculatamente guardi, si referisce non tanto principalmente al dettato de l’ingegno, quanto a quello della mano, organo de gli organi23.

Dunque, rispetto alla tradizionale svalutazione del corpo in favore dell’anima, sua forma cui esso è teleologicamente ordinato o di cui esso è prigione, sembra qui esserci una sua rivalutazione.


I contemplativi 

Un ulteriore elemento interessante ai fine della nostra indagine è l’utilizzo dei termini legati alla sfera della contemplazione: in alcuni casi sono impiegati con un significato piuttosto restrittivo, in altri più ampio.

Quanto all’accezione più esigente, il termine contemplativi viene a indicare i filosofi e Bruno lo impiega, per esempio, nella Cena e nel De l’infinito, contestualmente alla distinzione tra verità e legge, cui si è già fatto riferimento sopra, in contrapposizione alla «sciocca moltitudine».

Nel De la causa, invece, coerentemente con il prospettivismo bruniano, si afferma che non c’è una sola via per poter conoscere la natura, bensì molteplici e, tuttavia, fra di esse una è più contemplativa delle altre sulla base della sua aderenza alla verità e del contributo che apporta al perfezionamento dell’intelletto umano. In questo contesto, Bruno sembra distinguere – ed escludere dalla via filosofica maestra – forme differenti di partecipazione alla natura: quella degli animali, dei profeti e quella di «poeti e altri contemplativi»24. Sembrerebbe, dunque, che oltre alla filosofia, Bruno annoveri – ma rifiuti – altre forme di contemplazione.

Nei Furori, poi, contemplativi sono i furiosi eroici, mentre non lo è Aristotele25, il quale era, a parere del Nolano, «studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più incaminata e guidata con sofismi ed apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle ed è la sustanza medesima loro»26.

Inoltre, contemplazione è usato con questa accezione anche quando Bruno individua tipologie distinte di furore: quello ferino e quello di natura divina, il quale a sua volta può accendere o chi è meramente «stanza de dei o spiriti divini»27 o chi invece possiede un intelletto straordinario. Solo in quest’ultimo caso l’autore parla di attività contemplativa.

Allo stesso tempo, però, in questo dialogo, contemplatori sono anche i platonici e i «cristiani teologi», nel momento in cui sostengono una cosmologia più tradizionale – che Bruno non condivideva, in favore, invece, di una concezione ontologica omogenea dell’universo – attraverso un’indagine condotta non necessariamente attraverso quelle «raggioni» e «sentimenti» di cui Bruno scriveva nel De la causa, bensì per fede. Egli si riferisce, infatti, a «tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore»28. Anche in questo caso, la posizione dell’autore sembra essere compatibile con il suo prospettivismo29, che nei Furori è espresso in questi termini:

cossì è diversità de contemplatori che con diverse affezioni si metteno ad studiare ed applicar l’intenzione alle sentenze scritte; onde si doviene sin a questo che medesima luce di verità espressa di un medesimo libro per medesime paroli viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie30.

Infine, un ultimo utilizzo di contemplativi che è opportuno segnalare in questa sede si trova ancora nei Furori, ma non sembra riferirsi ai filosofi. Infatti, ivi, il Nolano scrive che occorre che ci sia la moltitudine del volgo, «altrimente non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi, padroni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti ed altri che siano eroici simili agli dei»31.

Tutto questo sembra rivelare uno statuto ambiguo – o almeno molteplice – della contemplazione nel pensiero di Bruno, la quale nel suo senso più ristretto sembra coincidere con la filosofia nolana stessa; nel senso più ampio si estende almeno a comprendere quelle prospettive che, per quanto inferiori alla filosofia nolana, comunque conducono a una qualche conoscenza del vero. Quest’ultima possibilità è legata alla concezione ontologica bruniana – di cui si affronteranno alcuni aspetti in seguito – secondo cui la realtà intera è l’esplicazione dell’unico principio e causa e, pertanto, ne reca – immersa nel rivolgimento vicissitudinale – la verità. Infatti, come rileva Carannante, sebbene «la verità rimanga sempre la stessa, molteplici e mutevoli sono i modi in cui essa affiora e si rende presente agli uomini»32.

 

L’ontologia del De la causa

Ai fini di una riscrittura del concetto di contemplazione, sono rilevanti, inoltre, alcuni elementi dell’ontologia bruniana – anch’essa frutto di una rielaborazione rispetto alla tradizione.

In primo luogo, il Nolano, nel De la causa, pone a fondamento della realtà un unico principio e causa33 di ogni cosa, il quale ha due aspetti, uno materiale e uno formale. In proposito, Augusto Guzzo commenta che «l’inscindibilità di ‘forma’ e ‘materia’, intesa come intrinsecità della ‘forma’ alla ‘materia’, mena il Bruno a concepir la forma-anima e la materia-corpo dapprima come universalmente coestese, e infine come riducibili a una sola sostanza, tutta corpo e tutta anima, senza intrinseca distinzione»34. Infatti, è Bruno stesso nel De l’infinito a scrivere che «l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili»35, le quali – e qui il riferimento è al De la causa –, considerate tutte insieme, sono «il grande simulacro, la grande imagine e unigenita natura»36 e, proprio per questo,

un’ombra del primo atto e prima potenza, e pertanto in essa la potenza e l’atto non è assolutamente la medesima cosa, perché nessuna parte sua è tutto quello che può essere. […], l’universo è tutto quel che può essere, secondo un modo esplicato, disperso, distinto. Il principio suo è unitamente e indifferentemente37.

Attraverso questa differenza tra il mondo naturale e il primo principio, Bruno può anche definire la perfezione come una condizione – sempre e continuamente in stato di realizzazione – in cui si è tutto quello che si può essere, ogni forma si realizza nella materia: condizione che, dunque, si può dare solo nell’Uno e non nelle cose, le quali sono soggette a difetto.

Infatti, per Bruno la materia che costituisce ogni cosa – e che egli distingue dal corpo in quanto corruttibile ed effetto della materia stessa – è un’infinita potenzialità che assume di volta in volta configurazioni differenti38, si tratta di «una sola materia sotto tutte le formazioni della natura»39:

Non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte forme naturali? […] Bisogna dunque che sia una medesima cosa che da sé non è pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non embrione, non sangue o altro; ma che, dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo l’essere embrione; dopo che era embrione, riceva l’essere uomo, facendosi omo; […]40.

L’idea del Nolano è che l’unico principio abbia tre aspetti: l’intelletto universale, che dà le forme; l’anima universale, che informa ogni cosa; e la materia, che riceve le forme. Ne risulta che il divino è soggetto e oggetto della sua stessa informazione. Il paradigma di cui Bruno si serve, infatti, è quello dell’artigiano, che, però, è artefice interno: l’intelletto universale, come il nocchiero in rapporto alla nave che conduce, è distinto dal suo effetto, ma immanente a esso41.

In relazione alla questione della contemplazione, si ritiene qui di sottolineare due aspetti legati a questa concezione ontologica.

Il primo ha a che fare con la perfezione: essa non sta più nella compiutezza e finitudine delle idee iperuraniche o dell’atto puro, bensì «la perfezion de l’universo […] è che in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale esistenza»42: nell’accidente – quale «soggetto del perenne movimento vicissitudinale»43 – si esprime l’infinita potenza della materia universale, dell’unica sostanza divina.

Qui, sembra esserci un mutamento di prospettiva rispetto alla tradizione: l’incarnarsi delle forme delle cose non è un decadimento, anzi è proprio questo a costituire la perfezione di un universo infinito, nel quale le forme non danno compimento alla potenzialità della materia, bensì si compiono loro stesse in questa, senza più avere quello statuto ontologico privilegiato di cui avevano goduto fino a questo momento. Occorre allora chiedersi se tali forme – ridotte a corpo, a mere configurazioni corporee accidentali della materia – conservino una dignità superiore sul piano gnoseologico.

A tal proposito – e questo è il secondo elemento di cui si intendeva trattare – entra in gioco il concetto di quidditas. Nella tradizione ereditata da Bruno – in particolare dal Bruno con un trascorso nell’Ordine dei Predicatori e, perciò, si prenda in esempio Tommaso d’Aquino – si pensava che

l’oggetto dell’intelletto è ‘il ciò che è’, ossia l’essenza della cosa, come si dice in Anim., III, 6. Perciò, intanto aumenta la perfezione dell’intelletto, in quanto conosce l’essenza di una cosa. […] se l’intelletto umano, conoscendo l’essenza di un effetto creato, conoscesse soltanto che Dio esiste, la sua perfezione non raggiungerebbe ancora in assoluto la causa prima, ma gli rimarrebbe ancora il desiderio naturale di andare in cerca della causa. Perciò, non è ancora perfettamente felice. Dunque, la perfetta beatitudine richiede che l’intelletto giunga fino alla stessa essenza della causa prima. E [solo] allora esso conseguirà la propria perfezione mediante l’unione con Dio come al proprio oggetto, nel quale soltanto consiste la beatitudine dell’uomo, […]44.

Nel De la causa, invece, all’intelletto umano è impossibile conoscere come il principio divino sia in sé: infatti, di esso si può aver una conoscenza soltanto umbratile, solo per vestigio – cioè attraverso la sua immagine che è l’universo intero stesso –, non perché una conoscenza piena sia promessa in un orizzonte ultraterreno – che, per il Nolano, non esiste –, bensì a causa di una certa finitudine di ogni oggetto: «lo scarto tra finito e infinito non si esaurisce mai in via definitiva, è sempre aperto; né potrebbe essere diversamente, alla luce dell’ontologia bruniana»45.

Inoltre, nella concezione ontologica della filosofia nolana, non ci sono enti superiori e inferiori, ma, essendo tutti costituiti di un’unica materia immanente alla natura – come si è visto – e differendo per la forma accidentale che questa assume, si potrebbe dire che essi condividono la medesima essenza inattingibile – la quale consiste in quello stesso principio, materiale e formale insieme, che li sostanzia – e che, invece, quella attingibile coincida con la complessione accidentale della materia. Infatti, è Bruno stesso a scrivere, criticando i peripatetici46, che «tutto quello che sapranno nominar fuor che la lor materia prima, non è altro che accidente, complessione, abito di qualità, principio di definizione, quiddità»47.

Dunque, in tale orizzonte di pensiero, non sarebbe molto coerente ritenere che la contemplazione coincida con la conoscenza di un’essenza, proprio per il fatto che non è più la materia imperfetta a ricevere compimento per l’intervento attualizzante della forma, bensì, «agli occhi di Bruno, al contrario, è la forma la ‘cosa corrottibile [e] imperfetta’, mentre la materia è ‘eterna’»48.

Alla luce di tali considerazioni, si potrebbe, piuttosto, ipotizzare una riscrittura del concetto in questione attraverso una dimensione produttiva49 nella quale poter aspirare – nell’infinito tempo – alla perfezione come realizzazione nella propria materia di ogni forma possibile50, tuttavia, vista la manchevolezza degli enti51, non in maniera sincronica52 – come accade nell’intero – bensì diacronica53: la contemplazione potrebbe, quindi, consistere in un riconoscimento dell’appartenenza alla medesima totalità e in un conseguente abbandono al trascorrere delle vicissitudini, cioè al continuo riconfigurarsi dell’unica sostanza54.

 

Il contributo dello Spaccio

Nel contesto della critica che lo Spaccio muove nei confronti del Cristianesimo riformato, l’aspetto che il Nolano sembra tollerare meno è l’irrilevanza che esso attribuisce alle opere, l’idea che «non per ben che si faccia o mal che non si faccia, si viene ad essere degno e grato a’ dèi; ma per sperare e credere secondo il catechismo loro»55. Di contro a questa concezione, egli oppone quella secondo la quale

gli dei avevano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’avevano fatto simile a loro, donandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operar secondo la natura ed ordinario, ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; […] Quella [libertade] certo, quando verrà ad essere ociosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l’occhio che non vede, e mano che non apprende56.

Questa condanna dell’ozio, che nello Spaccio è evocata sul piano morale, sembra rispecchiare la costituzione ontologica dell’Uno. Infatti, nel De l’infinito, si legge che sarebbe assurdo «pensare che la divina efficacia sia ociosa»57 e preferisca «rimaner più tosto sterile che farsi comunicabile»58, producendo un effetto finito, quando potrebbe farlo infinito – in questo caso si potrebbe dubitare dell’infinità della sua stessa potenza.

Bruno, quindi, sembra muoversi su un confine sottile tra la dissimulazione – dettata dall’esigenza che «nel mondo ogniuno vegna premiato e castigato, secondo la misura de gli meriti e delitti»59 – e un livello morale della questione, da un lato, e un rispecchiamento del piano ontologico in quello naturale, dall’altro. Dunque, in quest’ottica, si potrebbe pensare che anche la contemplazione debba essere un’attività che non getti il filosofo nell’ozio, bensì sia produttiva, a immagine del primo principio, a maggior ragione se anche la legge, in un certo grado, è ordinata a partire dall’Uno.

In proposito, è Bruno stesso a trattare di verità nello Spaccio: essa sostituisce la costellazione dell’Orsa Maggiore, perché ne prenda il posto di «polo magnifico e cardine del mondo»60. «Ivi» la verità «starà stabile e ferma, là non sarà exagitata da flutti e da tempeste; ivi sarà sicura guida di quelli che vanno errando per questo tempestoso pelago d’errori, et indi si mostrarà chiaro e terso specchio di contemplazione»61.

Scrive ancora il Nolano che

Sopra tutte le cose, […], è situata la verità; perché questa è la unità che sopra siede al tutto, è la bontà che è preeminente ad ogni cosa; […]. Dunque la verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose, è sopra tutto, con tutto, dopo tutto; ha raggione di principio, mezzo e fine. […]. È ideale, naturale e nozionale; è metafisica, fisica e logica. Sopra tutte le cose, dunque, è la verità; […]. Ma certo questa che sensibilmente vedi e che puoi con l’altezza del tuo intelletto capire, non è la somma e prima, ma certa figura, certa immagine e certo splendor di quella, la quale è superiore a questo Giove di cui parliamo sovente e che è oggetto delle nostre metafore62.

Dunque, la verità siede al di sopra di ogni cosa e anche Giove non è altro che sua immagine e metafora. L’autore sembra muoversi ancora in un terreno ambiguo, tra un dualismo ontologico funzionale all’ordine sociale e una concezione umbratile della conoscenza: tra l’utilizzo dell’immagine del concilio degli dei – che richiama al dominio della legge e allude a un orizzonte ultramondano come garanzia delle pene e dei premi per la condotta umana – e una verità che non può essere attinta, ma che è anche immanente alla natura e perciò è comunque cardine a cui potersi riferire.

Ultimo aspetto, che non fa altro che ribadire quanto già osservato nel De la causa, è rappresentato dalle minuzzarie: nel pensiero di Bruno si assiste a una rivalutazione del particolare, poiché anche nelle cose più piccole e apparentemente insignificanti si esplica la potenza divina. Infatti, Mercurio63, all’interno del primo dialogo, dice:

Ma te inganni, Sofia, se pensi, che non ne sieno a cura cossì le cose minime, come le principali, talmente sicome le cose grandissime e principalissime non costano senza le minime ed abiettissime. Tutto dunque, quantunque minimo, è sotto infinitamente grande providenza; ogni quantosivoglia vilissima minuzzaria in ordine del tutto ed universo è importantissima64.

Dunque, anche in questo caso, Bruno sostiene l’omogeneità ontologica dell’universo e continua a rendere difficilmente coerente con il sistema filosofico che sta costruendo una concezione della contemplazione come conoscenza dell’essenza di cose divine o, comunque, superiori.

 

I Furori: continuità e divergenze

In virtù della traiettoria che Bruno è andato costruendo fino a questo momento e delle immagini che utilizza nell’ultimo dei Dialoghi italiani – il De gli eroici furori – per descrivere l’eroico furore del filosofo, la nozione di contemplazione dovrebbe assumere i tratti di «una unio mistica» che «non riguarda la sola anima e Dio, ma si dà tra il soggetto conoscente, quale unità di corpo e anima, e la natura, intesa come copia imperfetta del divino»65, laddove egli, Atteone al cospetto di Diana-natura, prende coscienza di essere lui stesso l’oggetto della sua caccia, di non dover cercare all’esterno il divino, bensì di averlo già contratto in sé66. L’immagine – e il suo uso ripetuto – di un cacciatore sbranato dai suoi stessi cani suggerisce che il compimento dell’umano consista per Bruno in un sacrificio di sé da intendersi come ricongiungimento – in fieri – con la divinità attraverso una trasformazione del sé, secondo un metodo che, pertanto, non è generalizzabile67, bensì «è il metodo di un’esperienza eccezionale: il metodo per la conoscenza dell’infinito coimplica l’esistenza del ricercatore»68.

Tuttavia, bisogna anche riconoscere che tra i Dialoghi italiani questo risulta essere il più problematico dal punto di vista della costruzione di un sistema di pensiero coerente e unitario poiché, accanto a indicazioni nella direzione di cui si è parlato sopra, si riscontrano anche affermazioni contrastanti rispetto a quanto ricostruito fin qui. In quest’ultima parte, dunque, si intende registrare quali siano le principali continuità e contraddizioni tra la concezione ontologica bruniana e la dottrina erotica dei Furori.

Quanto agli aspetti di coerenza, la distinzione proposta nel De la causa tra l’universo-simulacro del principio primo e l’Uno si ripresenta – sebbene attraverso immagini – anche nei Furori, in cui si dice che discriminare cose superiori e inferiori è funzionale all’ordine civile e che:

a nessuno pare possibile de vedere il sole, l’universale Apolline e luce absoluta per specie suprema ed eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell’opacità della materia, cioè quella in quanto splende nelle tenebre69.

Pertanto, come nel De la causa si trovano la natura e il primo principio e causa, così nei Furori Diana e Apollo.

Un secondo elemento che potrebbe ricostruire una certa continuità fra i dialoghi metafisici e l’amore che è al centro dell’ultimo dei dialoghi morali è l’interpretazione dei «sentimenti». In particolare, il riferimento è al – già citato – passo della Cena dove Bruno distingue tra filosofi e moltitudine – in cui, insieme alle «raggioni», essi sono indicati come gli strumenti di conoscenza dei pochi – e al secondo dialogo del De la causa, in particolare laddove l’autore dice che è impossibile conoscere pienamente il primo principio e causa, ma che sono da lodare coloro che provano ad avvicinarsi a esso quanto più possibile «discorrendo con gli occhi di regolati sentimenti»70. Si potrebbe pensare che tali «sentimenti»71 non indichino la sensibilità e le affezioni ricevute dai sensi, bensì anticipino il furore dell’eroe72. Essi, sono, in un caso, accostati alle «raggioni» e, nell’altro, agli occhi, quindi all’intelletto, il quale – insieme alla volontà – è presentato come una delle ali dell’anima nei Furori, che, quindi, non sembrerebbero discostarsi dai dialoghi precedenti. Inoltre, è da notare che, tra le poesie che aprono il De la causa, ve ne sono due – Al proprio spirto e De l’amore – delle quali la prima recita «Mens, […], tangente Deo, fervidus ignis eris»73 e la seconda dichiara che Amore permette all’autore di discernere il vero e «impiaga sempre il» suo «cor»74, mentre il «volgo vile» pensa di vedere il vero, ma in realtà è cieco. Il contenuto di questi componimenti introduce una dimensione erotica pressoché estranea al De la causa ed è perfettamente conforme a quanto esposto nei Furori, al punto che – come ricorda Gentile – De l’amore è riproposto quasi invariato nell’ultimo dei Dialoghi italiani. Ciò porterebbe a pensare che Bruno avesse in mente un progetto filosofico unitario che fin dal principio comprendesse l’erotica del furioso.

Rispetto alle discontinuità, il problema più consistente è rappresentato dalla squalifica che corpo e materia subiscono nei Furori e dall’orizzonte dualistico in cui tale dialogo sembra – a tratti – cadere. Come si è già più volte ripetuto, Bruno non può concepire «un viaggio ultraterreno verso un luogo celeste o sopraceleste, del tutto separato, di cui parlano i platonici e i cristiani, essendo per lui patria dell’anima la natura, quale simulacrum dell’essenza divina»75 né una eterogeneità ontologica nella natura. Tuttavia, nei Furori, l’autore discrimina le cose divine da quelle che sono oggetto di «amori volgari e naturaleschi»76, come se ci fosse una gerarchia di oggetti più o meno degni di essere amati. Si legge, infatti, che il filosofo

Doviene un dio dal contatto intellettuale con quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrarsi insensibile e impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno della vita77.

E ancora si legge che Atteone muore al mondo e «al riguardo d’ogni altra cosa»78. Questa posizione pare confliggere con l’immagine delle minuzzarie, con l’idea che anche l’apparentemente più insignificante individualità non sia difforme dall’uomo in quanto entrambi sono fatti della medesima sostanza, differiscono solo per configurazione accidentale e sono allo stesso modo esplicazione del divino79: ogni cosa ha pari dignità.

Inoltre, quando il Nolano spiega l’allegoria dell’ultimo dialogo dei Furori, nel momento in cui sostiene l’unità dei contrari – che costituisce il punto di vista dell’assoluto ed è il contenuto di verità scoperto dal filosofo –, scrive anche «che son due sorti d’acqui: inferiori, sotto il firmamento che acciecano; e superiori, sopra il firmamento che illuminano»80: questa concezione cosmologica dualistica sembra estranea al pensiero di Bruno dal momento che è assente nel suo pensiero ogni «dualisme ou hiérarchie cosmique, puisque était identique la composition des astres et identique toute leur phénoménologie vitale», risultandone «un univers, donc, sans hiérarchie, animé par l’âme universelle, pénétré d’une manière homogène par une divinité intérieure à l’univers et accessible en lui sans aliénation»81.

Anche del corpo l’autore parla in modo contrastante con quanto detto negli altri dialoghi, per esempio quando si riferisce alla «staggione che di nuvoloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo»82 o quando dice che «l’anima del furioso […] per la maggiore familiarità che avea con la materia, era più dura ed inetta ad esser penetrata da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontate»83.

È vero che il corpo è limite rispetto all’infinita potenzialità della materia, però è anche il luogo in cui essa si realizza e da cui prendere le mosse nel cammino di ricongiungimento con Dio. Inoltre, è la mano – configurazione corporea – a nobilitare l’uomo al di sopra degli altri esseri.

Tuttavia, a quest’ultimo problema si potrebbe, in parte, rispondere sostenendo che il corpo è una prigione solo dal punto di vista strettamente particolare della finitudine, mentre non lo è dal punto di vista della totalità, la quale si realizza contemporaneamente in tutte le configurazioni corporee. Dunque, il corpo è un limite solo nella misura in cui incatena l’uomo a una forma particolare, ma non lo è per colui che riconosce la transitorietà della propria figura e si pone per quanto possibile – prendendo consapevolezza del fatto che in un certo senso egli stesso è l’Uno, è l’esplicazione dell’unica sostanza, e riconducendosi a quell’unità – nella prospettiva dell’Uno. In quest’ottica, il distacco dal corpo consisterebbe in un suo rifiuto non in quanto tale, bensì nella misura in cui impedisce di riconoscere la propria appartenenza – e in un qualche modo identità – al divino. Scrive Bruno, infatti, che al corpo

non deve altrimente riguardare che come carcere che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suoi piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò non sia servo, cattivo, inveschiato, incatenato, discioperato, saldo e cieco; perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce: […]84.

A ciò che si è detto, si può aggiungere anche quanto scrive Bassi rispetto alla ripresa del mito di Atteone: l’eroe, nel momento in cui da cacciatore si ritrova a essere caccia,

si libera dai vincoli della materia corporea; non esalta le distinzioni materiali e sensibili né da esse si fa sviare ma, ‘avendo gittate le muraglie a terra’, si concentra solo sulla dea, comprendendo in essa ogni singolo ente, divenendo ‘tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte’[,] […] occhio non più scisso in potenze concorrenti, non offuscato e distratto dal bagliore delle specie particolari, [...]. Il furioso ‘tutto occhio’ vede l’unità della fonte originaria di ogni dimensione naturale, il volto mondano della monade superessenziale, […]85.

 


Conclusione

Per concludere, si potrebbe osservare la costitutiva ambiguità dell’opera di Bruno: il pensiero dell’autore si muove sulla linea di confine tra continuità – cui si aggiunge una buona dose di dissimulazione – e rottura radicale con la tradizione. Questo aspetto, se da un lato giustifica le tensioni interne ai Dialoghi italiani, dall’altro rende difficile accoglierne il contenuto filosofico nella sua totalità e prendere sul serio il Nolano in ogni sua affermazione e presa di posizione, soprattutto nei tre dialoghi morali, nei quali si introduce il problema del rapporto con il volgo, dell’organizzazione sociale e della condivisione della “verità” delle cose – se è concesso esprimersi così – con la «sciocca moltitudine».

Questa ambiguità si riflette in primis nel fatto che i Furori da un lato sembrano essere il compimento produttivo86 della concezione bruniana dell’ontologia – sarebbe risultata fuori posto una concezione tradizionale della contemplazione all’insegna di una, sicuramente maggiore che in Bruno, passività87 –, ma allo stesso tempo sembrano stridere con quella stessa ontologia. Inoltre, questo dialogo appartiene alla triade morale, ma tratta del furore eroico del contemplativo – fatto che contribuisce ad accrescere l’ambiguità e la complessità interpretativa dei Furori poiché lo colloca in una posizione in un qualche modo intermedia tra i dialoghi metafisici, da un lato, e un compromesso da dover stabilire rispetto alla verità filosofica nel momento in cui entra in scena il rapporto con la moltitudine degli uomini, dall’altro.

In particolare, alla luce delle considerazioni fatte, la beatitudine non può consistere in una realizzazione – indipendentemente dal fatto che sia in questa o in un’altra vita – della facoltà specifica e migliore dell’uomo – quella razionale – dal momento che è la mano a conferirgli una dignità superiore alle altre specie e non l’anima, che è unica – e una con la materia – per ogni ente, in quanto autoproduzione dell’unica sostanza: «illusoria si rivelerebbe l’idea di un primato dell’uomo sulle altre specie sulla base di un’essenza specifica dell’anima»88, dal momento che «la mano costituisce l’organo che qualifica specificamente l’umanità, poiché rappresenta l’attitudine inventiva e produttiva dell’ingegno che si traduce concretamente nelle sue operazioni»89.

Inoltre, il compimento dell’individuo non può coincidere con una contemplazione puramente intellettuale perché l’intelletto umano ha un limite costitutivo che non può mai essere superato90. Con ciò si intende non solo che l’intelletto dell’individuo non potrà mai comprendere il divino nella sua esistenza terrena, ma anche che non si dà un’esistenza ultraterrena cui poter differire il compimento dell’uomo viator: il suo limite consiste nella sua prospettiva parziale di cosa finita. Dunque, per ridurre la sproporzione degli enti finiti rispetto all’infinito, occorre qualcosa di ulteriore rispetto alle forze dell’intelletto individuale91: qui entrano in gioco la centralità dell’amore e la dimensione produttiva. La questione non è più conoscere l’Uno, ma la riconduzione in unità degli enti finiti e, in particolare, il riconoscimento di sé come appartenente alla produttività universale: come osserva Carannante, l’amore permette al furioso di vivere «fino in fondo il contrasto» dei contrari, senza restarne «a metà», di assumere «su di sé la brulicante vita dell’universo, patendo ‘quel disquarto e distrazione in sé medesimo’ che è, poi, il fine dei suoi sforzi». In questo modo, l’intelletto può liberarsi dalla sua condizione finita e «individuare l’unità celata al di là» della vicissitudine, «sottesa al continuo scontro tra i contrari»93.

Quanto detto non toglie che occorra conoscere che il mondo è specchio dell’Uno e che «la vicissitudine di tutte le cose non è altro che il realizzarsi dell’eternità divina nella temporalità del creato»94; tuttavia, questo non è sufficiente: si rende necessario unirsi all’unico principio e causa in altro modo, è necessario che il divino si realizzi nel contemplativo. Come scrive Granada, il furioso non è un magnum miraculum «par sa structure ontologique ou par ses possibilités initiales», bensì per il fatto che si trasforma in dio attraverso lo sforzo di divenire tutte le cose, proprio come dio è ogni cosa95.

Ed è per questa ragione che il furioso viene, a un tempo, assimilato a e distinto da una farfalla attratta dalla luce: questa, se

prevedesse la sua ruina, non tanto ora séguita la luce, quanto allora la fuggirebbe, stimando male di perder l’esser proprio, risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui [al furioso] non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclinazion di natura, per elezion di voluntade e disposizion del fato stenta, serve e muore, più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che soffra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma96.

Pertanto, se la contemplazione è intesa in senso strettamente teoretico, essa non rappresenta ancora la beatitudine97 e il compimento dell’umano; se, invece, essa è riscritta fino a comprendere quell’aspetto che si è chiamato produttivo, allora prevede, oltre alla coscienza di essere immerso nel trascorrere vicissitudinale delle cose, anche un abbandono a tale trascorrere – senza volersi incatenare a una forma particolare – affinché nell’infinito tempo si realizzino le infinite forme: nel De la causa si legge che «è in volontà de la natura, che ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa nostra sustanza di farsi ogni cosa, ricevendo tutte le forme, che, ritenendone una sola, essere parziale»98.

Alla luce di queste ultime considerazioni, è possibile comprendere cosa spinga Okamoto a sostenere che in Bruno sapiente e furioso siano due figure distinte e che questi prediliga la seconda: mentre il sapiente, comprendendo la vanità e la transitorietà di ogni cosa, aspira ad acquietare gli affetti, a una condizione di indifferenza alla vicissitudine; il furioso, riconoscendo «che, proprio perché mutano col tempo, tutte le cose sono buone e divine», accoglie anche «gli affetti che da queste cose sono generate e che a queste si dirigono» come «assolutamente veraci e vitali»99. Infatti, se osservati dalla prospettiva dell’eroe, per quanto «dilaceranti», gli affetti non sono un male «quando si abbracci il conflitto»: «in tal modo, benché al sapiente non possa che apparire follia, il furioso, vivendo eroicamente nel conflitto, volge con sicurezza i suoi affetti alla divinità e alla benignità delle cose che sempre mutano»100.

In conclusione, si può dire che la contemplazione, a immagine del primo principio e causa101, sia

Il vincolo d’amore [che] fa entrare il singolo nella vicissitudine naturale ed è la forza per cui esso, con la sua appetizione, con il suo tendere a uscire da se stesso […], entra a far parte del tutto, partecipa dell’autofinalità dell’universo. […]. Il vincolo d’amore dunque […] è la tensione che pervade tutta la materia a sprigionare da se stessa le proprie forme e nella totalità di questo processo ‘perfectissimum ergo est illud principium, quod fieri vult omnia et quod non ad particularem formam fertur, sed ad universam formam et ad universam perfectionem’102.

Note
  • 1

    Dall’Introduzione di Luca Bianchi al De summo bono in Boezio di Dacia/Bianchi 2017, p. 201.

  • 2

    Aristotele/Plebe 1983, X (K), 7, 1177b26-33.

  • 3

    Si fa qui riferimento al Medioevo latino.

  • 4

    Cfr. 1Cor 13, 12: «Videmus enim nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem».

  • 5

    Dalla Prefazione di Maria Bettetini in Arezzo et al./Bettetini-Paparella 2005, p. VII.

  • 6

    Cfr. Suggi 2023, p. 24.

  • 7

    Ibidem.

  • 8

    Nella sua rielaborazione dell’eredità filosofica, in Bruno si registrano «a la vez la dependencia y la ruptura filosófica, la inserción en una tradición y al mismo tiempo la modificación conceptual decisiva de la misma en el propio pensamiento» (Granada 1998, p. 352), poiché egli combina elementi di diverse tradizioni, senza identificarsi pienamente con nessuna di esse (Granada 2020, p. 203). Cfr. anche Spruit 1988, p. 54: «La libertà che Bruno si prende nei confronti delle tradizioni filosofiche emerge dalla variabilità e dall’inventività con le quali esse vengono da lui rielaborate». Cfr. anche il dibattito tra González 2019 e Granada 2020.

  • 9

    Cfr. la voce Averroè di F. Dell’Omodarme in Ciliberto 2014, vol. I, p. 206: «Sia per l’oggettiva impossibilità di possedere un oggetto infinito, sia per lo strutturale dissidio interiore che alimenta il furore, alla riflessione bruniana appare estraneo l’ideale contemplativo, l’immagine cioè di una tensione che si appaga infine in una eterna e piena fruizione della verità».

  • 10

    In proposito, si veda Bianchi 1992. In particolare, vi si legge: «L’elitarismo, l’aristocratismo erano insomma la logica ed inevitabile conseguenza di un intellettualismo che era tanto ‘averroista’ quanto ‘albertista’ e che molti, non a torto, ritenevano semplicemente aristotelico: se infatti con Aristotele l’umanità dell’uomo consiste nella sua razionalità, che solo la filosofia può sviluppare al massimo grado, solo il filosofo è integralmente uomo e, al contempo, più che uomo, immagine terrena della divinità» (Bianchi 1992, p. 188). Nelle pagine seguenti, a ciò Bianchi aggiunge la precisazione che, sebbene questa idea fosse stata espressa da Averroè nei termini di una forte distinzione tra la massa e i sapienti, tuttavia essa era una concezione che non apparteneva esclusivamente ad averroisti e peripatetici,  ma che «attraversò per secoli la cultura europea» (ivi, p.190), risultando, solo in epoca rinascimentale, in una discriminazione naturale tra uomini sapienti e indotti, innestata su una dottrina di matrice aristotelica.

  • 11

    Cena in Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 120.

  • 12

    Gisondi 2020, p. 305.

  • 13

    Cena in Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 121. Da notare che questa stessa espressione viene utilizzata nel De la causa per riferirsi alla produzione dell’unico principio: l’intelletto universale «indrizza la natura a produre le sue specie come si conviene» (ivi, vol. I, p. 232).

  • 14

    Con ciò si intende dire che per il Bruno non ogni religione ha la stessa valenza, nei termini di funzionalità alla promozione della vita associata: qualcuna, come la religione civile dei Romani, è più atta allo scopo, qualcun’altra, come il luteranismo, invece, deve essere radicalmente trasformata (cfr. Spaccio de la bestia trionfante in Bruno/Gentile 2014, vol. II, pp. 659-60: gli dei «magnificorno il popolo Romano sopra gli altri; perché con gli suoi magnifici gesti, più che l’altre nazioni, si seppero conformare ed assomigliare ad essi, […], promovendo gli meritevoli, abbassando gli delinquenti, mettendo questi in terrore ed ultimo esterminio con gli flagelli e secure, e quelli in onore e gloria con statue e colossi. Onde consequentemente apparve quel popolo più affrenato e ritenuto da vizii d’incivilitade e barbaria, e più esquisito e pronto a generose imprese, ch’altro che si sia veduto giamai. E mentre fu tale la lor legge e religione, tali furono gli lor costumi e gesti, tal è stato lor onore e lor felicitade». Cfr. anche Granada 1998).

  • 15

    Considerazioni simili a queste si trovano nel De l’infinito, universo e mondi: «gli veri, civili e bene accostumati filosofi sempre hanno faurito le religioni; perché gli uni [i teologi] e gli altri sanno che la fede si richiede per l’instituzione di rozzi popoli, che denno esser governati, e la demostrazione per gli contemplativi, che sanno governar sé et altri» (Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 387).

  • 16

    Cena in ivi, vol. I, p. 122.

  • 17

    De gli eroici furori in ivi, vol. II, p. 1114.

  • 18

    Cena in ivi, vol. I, p. 121.

  • 19

    Spaccio in ivi, vol. II, pp. 732-33.

  • 20

    Da notare che l’intelletto, in quanto ingegno, sembra assumere una connotazione produttiva. Infatti, nel De la causa, nel momento in cui Bruno sta spiegando che la nostra conoscenza può essere solo umbratile, il primo principio e causa viene paragonato, in rapporto ai suoi effetti, all’ingegno di Apelle che produce le sue statue (De la causa in ivi, vol. I, p. 227). Dunque, la mano sembrerebbe corrispondere alla sfera dell’azione morale dell’individuo, mentre l’occhio a un intelletto contemplativo, ma, in quanto partecipe della natura dell’intelletto universale, caratterizzato anche da una dimensione produttiva. Interessante al riguardo il fatto che «i termini ingegno/ingenium rinviano sostanzialmente al significato della parola latina (dal tema gen- di gignĕre, generare, con prefisso in-)» (dalla voce Ingegno di E. Canone in Canone-Ernst 2006, p. 60).

  • 21

    Cabala in Bruno/Gentile 2014, vol. II, pp. 885-87.

  • 22

    Papi 1968, p. 246.

  • 23

    Cabala in Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 887.

  • 24

    De la causa in ivi, vol. I, p. 277.

  • 25

    Dunque, qui, filosofi sembrano essere solo i seguaci della filosofia nolana.

  • 26

    Furori in Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 1115.

  • 27

    Ivi, vol. II, p. 986. Si veda Guzzo 1941, pp. 41-42: si tratta di «forme di sapere che, infuse o ispirate dalla divinità, pur riempiendo l’uomo d’un mirabile contenuto, lo lasciano privo di proprio valore» e che Bruno, indipendentemente dalla considerazione che ha – o che manifesta di avere – di esse, «riserba la sua stima più alta a quelle forme di sapere alle quali l’uomo perviene con lo sforzo della sua mente, diventando egli stesso sapiente, e non soltanto portare d’una sapienza non sua, perché divinamente infusagli».

  • 28

    Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 943.

  • 29

    Cfr. Ciliberto 1979, vol. I, p. XIV: «la consapevolezza della molteplicità delle vie della filosofia e dei linguaggi, che vanno distinti e non confusi, apre alla riflessione bruniana la possibilità di scorgere e ritrovare, da punti di vista diversi, dall’alto e dal basso, con eguale intensità, la natura e la verità».

  • 30

    Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 1162.

  • 31

    Ivi, vol. II, p. 1114.

  • 32

    Dalla voce Sofia di S. Carannante in Ciliberto 2014, vol. II, p. 1803. Cfr. anche la voce Verità di S. Carannante in ivi, vol. II, p. 2040.

  • 33

    Dal punto di vista divino, causa e principio sono due aspetti dell’Uno stesso, il quale in quanto causa produce un effetto e in quanto principio gode di superiorità ontologica rispetto a quello stesso effetto. Invece, nel mondo naturale, principio è ciò che concorre intrinsecamente alla costituzione dell’effetto, mentre la causa estrinsecamente.

  • 34

    Guzzo 1985, p. 7.

  • 35

    De l’infinito in Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 384.

  • 36

    De la causa in ivi, vol. I, p. 282.

  • 37

    Ibidem.

  • 38

    Cfr. quanto dice Fantechi (cfr. la voce Accidente di E. Fantechi in Ciliberto 2014, vol. I, p. 38), la quale scrive che nell’ontologia bruniana i corpi sono configurazioni accidentali transeunti le quali non alterano «l’unità e la stabilità della materia universale».

  • 39

    De la causa in Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 267.

  • 40

    Ibidem. Cfr. anche Henninger 2006, p. 22.

  • 41

    Scrive il Nolano che l’intelletto universale «empie il tutto, illumina l’universo e indrizza la natura a produre le sue specie come si conviene» (De la causa in Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 232).

  • 42

    Ivi¸ vol. I, p. 235.

  • 43

    Dalla voce Accidente di E. Fantechi in Ciliberto 2014, vol. I, p. 38.

  • 44

    Tommaso d’Aquino/Fiorentino 2018, Ia-IIae, q. 3, a. 8.

  • 45

    Ciliberto 2002, p. 109.

  • 46

    Nel suo commento al De la causa, Guzzo scrive che, dal punto di vista di Bruno, Aristotele avrebbe attribuito alle cose delle forme che sono, non le loro essenze, bensì le loro definizioni logiche, da cui consegue «l’accusa che Aristotele non sappia cogliere la realtà delle cose naturali, sostituendo ad essa puri concetti logici» (Guzzo 1985, p. 141, nota 91).

  • 47

    Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 270. Cfr. Mignini 2000, p. 348: «Bruno, […], afferma in modo assoluto e radicale l’accidentalità di tutti gli individui, espressioni vicissitudinali e ombre dell’Uno». Si noti, inoltre, come, alla luce di quanto il Nolano scrive in questo passo, accidenti e quidditas siano posti sullo stesso piano.

  • 48

    M. Lamanna, Tommaso d’Aquino, in Ciliberto 2014, vol. II, p. 1954.

  • 49

    Si utilizza produttiva per indicare una dimensione non strettamente teoretica e allo stesso tempo distinguerla dalla pratica (intesa come dominio dell’agire morale).

  • 50

    Infatti, si ricordi che secondo Bruno «nessuna cosa si anichila e perde l’essere, eccetto che la forma accidentale esteriore e materiale» (Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 270).

  • 51

    Nel suo contributo sull’averroismo di Bruno, Rita Sturlese scrive che «la somma felicità è un’infelicità imperfetta», da un lato, perché la realtà, per l’infinita potenza del primo principio, è inesauribile – e ciò implica che l’indagine filosofica è, allo stesso modo, una strada infinitamente percorribile; dall’altro, perché «la potenza della mente umana è infinita, sia in quanto capace di esplicarsi in forme infinite […] sia in quanto sempre pronta ad andar ‘oltre quel che possiede’». Con ciò, si esclude «che per Bruno la mente possa giungere ad una visione totalizzante della realtà […], oppure che possa acquietarsi nell’atto dell’autoriflessione e nella conseguente scoperta dell’essere trascendente quale suo fondamento» (Sturlese 1994, p. 329).

  • 52

    Cfr. la voce Perfezione di L. Fedi in Ciliberto 2014, vol. II, p. 1465 sgg.: l’Uno soltanto è perfetto simpliciter, poiché non è manchevole di alcunché; al contrario tutte le cose possono solo approssimarsi a esso e alla sua condizione, tanto che in Bruno «perficere vuol dire ‘fare a similitudine del perfetto’» (ivi, vol. II, p. 1466), rompendo «l’equivalenza aristotelica tra ‘perfetto’ e ‘finito’» (ibidem).

  • 53

    Ciò è dovuto al fatto che, come rileva Carannante, «l’esistenza delle cose è espressione, dispersa nel tempo e nello spazio, dell’atto unico ed infinito con cui la divinità realizza sempre ed istantaneamente la sua potenza» (dalla voce Atto di S. Carannante in Ciliberto 2014, vol. I, p. 202).

  • 54

    A ciò si aggiunga anche una concezione della magia che, quale pratica che consentirebbe di intervenire sul corso vicissitudinale, «permetterebbe di incamminarsi su di un percorso che va dall’uomo alla natura e dalla natura a Dio» (Bertino 2017, p. 57, nota 59). Questo elemento contribuisce a suggerire che la contemplazione non coincida con una forma elevata di conoscenza, ma che preveda anche un lato produttivo – a imitazione della produttività del primo principio –, vista la superiorità rispetto alla moltitudine che viene parimenti riconosciuta al filosofo e al mago. Infatti, «conoscere e fare sono proposti come termini equivalenti: la ricerca razionale […] si identifica, immediatamente, con l’operazione […], ossia con la capacità di intervenire sulla realtà modificandola» (dalla voce Magia di V. Perrone Compagni in Canone-Ernst 2006, p. 93). Tutto questo indica una direzione nella quale l’accezione gnoseologica della contemplazione e un aspetto – in qualche misura – produttivo non possono essere scissi: «la magia presuppone ovviamente la ricostruzione razionale della realtà, ma l’operare, a sua volta, è fondamento e garanzia della validità della filosofia, perché solo nella dimensione operativa la filosofia si dimostra capace di attuare ‘la perfezion de l’intelletto umano’ rendendolo emulo e cooperatore della natura» (ibidem). Si veda anche quanto sostiene Carannante quando scrive che in Bruno si nota una compenetrazione di teoria e prassi, dal momento che «la comprensione profonda della natura è propedeutica ad un’azione che incide nel vivo tessuto della realtà, trasformandola per mezzo di quella pratica magica dischiusa dal possesso di una teoria generale delle cose. […]. La magia, in quest’ottica, è legata alla ‘contemplazion della natura e perscrutazion di suoi secreti’, ne rappresenta l’impiego fruttuoso e capace di sortire effetti concreti» (dalla voce Contemplazione di S. Carannante in Ciliberto 2014, vol. I, p. 389). Ciò manifesta una concezione unitaria delle sfere contemplativa – nel senso stretto della speculazione filosofica –, pratica – nei termini di un impiego della conoscenza per il bene della comunità (cfr. la voce Magia di V. Perrone Compagni in Canone-Ernst 2006, p. 92) – e produttiva – come trasformazione della realtà secondo imitazione ed esplicazione nell’uomo della produttività infinita dell’Uno.

  • 55

    Spaccio in Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 623.

  • 56

    Ivi, vol. II, p. 732.

  • 57

    De l’infinito in ivi, vol. I, p. 380.

  • 58

    Ivi, vol. I, p. 381.

  • 59

    Spaccio in ivi, vol. II, p. 627.

  • 60

    Ivi, vol. II, p. 618.

  • 61

    Ibidem.

  • 62

    Ivi, vol. II, pp. 646-47.

  • 63

    Potrebbe far riflettere il fatto che sia Mercurio a parlare con Sofia: egli è un dio che, in quanto tale, rientra nella metafora di cui Sofia e Saulino – i due principali interlocutori del dialogo – si stanno servendo, ma allo stesso tempo è l’unico dio a prendere la parola nel dialogo, mentre il concilio è un fatto meramente riportato.

  • 64

    Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 643.

  • 65

    Bertino 2017, p. 46.

  • 66

    Cfr. l’Introduzione di Nuccio Ordine in Bruno/Aquilecchia et al. 2002, vol. I, p. 137.

  • 67

    Sull’impossibilità di tradurre in termini normativi universali il cammino del furioso, cfr. le considerazioni di Mugnai 2000, p. 410.

  • 68

    Papi 1968, p. 159.

  • 69

    Furori in Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 1123. Da notare che qui – e altrove nei Furori – Bruno sembra non tenere ferma la distinzione tra corpo e materia.

  • 70

    Ivi, vol. I, p. 228.

  • 71

    Per la polisemia del termine, si veda la voce Sentimento di L. Carotti in Ciliberto 2014, vol. II, pp. 1761-62.

  • 72

    Cfr. la voce Sentimento di L. Carotti in ivi, vol. II, p. 1762: «Il sentimento come aspetto della sfera emotivo-affettiva […] gioca un ruolo decisivo nell’ascesa del furioso. Fin dall’Argomento in apertura agli Eroici furori, Bruno chiarisce come il suo intento sia quello di descrivere non amori sensibili per donne in carne ed ossa, bensì l’amore come slancio conoscitivo in grado di sottrarre l’uomo, anche solo per qualche istante, alla sua condizione di accidente finito. Non è infatti sufficiente la ratio per giungere alla visione di Diana, deus in rebus: all’uomo è richiesto per questo un vigore straordinario, non solo intellettuale, ma anche emotivo-affettivo».

  • 73

    Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 188-89.

  • 74

    Ivi, vol. I, p. 189.

  • 75

    Canone 1998, p. 12.

  • 76

    Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 932.

  • 77

    Ivi, vol. II, p. 988.

  • 78

    Ivi, vol. II, p. 1062.

  • 79

    Cfr. la voce Vicissitudine di M. Á. Granada in Canone-Ernst 2006, p. 186: come ogni cosa, l’uomo è parte della vicissitudine universale delle infinite forme, «è privo, dunque, di uno statuto particolare per il quale sia differente dal resto della natura e grazie al quale sia investito di una particolare dignitas; la materia e l’anima che vengono a costituire l’uomo sono le stesse che negli altri esseri viventi, così che l’uomo non è altro che ‘ente tra gli enti’». Cfr. anche Canone 2003, p. 300.

  • 80

    Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 946. Cfr. anche p. 1007.

  • 81

    Bruno/Granada-Hersant-Michel 1999, p. XLVIII

  • 82

    Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 1062.

  • 83

    Ivi, vol. II, p. 1098. Si noti che anche qui Bruno non presta fede alla sua stessa distinzione tra materia e corpo. Anche Granada riconosce questo problema, cfr. in merito Bruno/Granada-Hersant-Michel 1999, p. LXX.

  • 84

    Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 1088.

  • 85

    S. Bassi, Atteone, in Ciliberto 2014, vol. I, p. 196.

  • 86

    Qui ancora si usa produttivo per indicare un piano del discorso che non sia strettamente teoretico né pratico. Infatti, il filosofo ha una sua moralità che consiste nel limitare la diffusione della verità – seppur umbratile – cui accede per evitare disordini sociali, mentre il furore di cui arde lo colloca fuori dalla sfera della legge poiché, in quanto eccesso di passione, sarebbe ritenuto un vizio. Inoltre, produttivo intende rimandare a una certa metamorfosi del soggetto, al «trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte di quelle» (Bruno/Gentile 2014, vol. II, p. 946), corrispondente a quella del tutto nella sua attività produttiva, che altro non è che riconfigurazione della propria sostanza.

  • 87

    Cfr. Ciliberto 2002, p. 42: «Quella di Bruno è dunque una filosofia volta a promuovere, con massima consapevolezza, una forte dinamicità, ad ogni livello della realtà. In questo senso è, senza dubbio, una filosofia del mutamento, della trasformazione, […].».

  • 88

    Canone 2000, p. 398.

  • 89

    Dalla voce Uomo di M. Matteoli in Ciliberto 2014, vol. II, p. 2008.

  • 90

    Cfr. Bönker-Vallon 2003, pp. 281-82 e Gonzales y Reyero 2005, p. 79.

  • 91

    Cfr. la voce Ficino Marsilio di S. Carannante in Ciliberto 2014, vol. I, p. 721: «Nell’universo infinito e senza centro l’uomo non può più fare leva sulla propria posizione privilegiata per pervenire alla divinità; diversamente, gli si richiede uno sforzo straordinario, non solo intellettuale, ma anche emotivo, affettivo, fisico. Solo la forza straordinaria dell’amore può fornire alla ragione la potenza necessaria per ascendere alla divinità, sottraendosi, per un istante, alla vicissitudine che trasforma ed annulla tutti gli esseri viventi».

  • 92

    Dalla voce Amore di S. Carannante in ivi, vol. I, p. 79.

  • 93

    Ibidem. A ciò, Carannante aggiunge che questa immedesimazione del furioso con la produttività della vita naturale è possibile solo in virtù del fatto che «la forza che spinge il furioso verso la divinità» si identifica «con quella che anima il cosmo, di cui anzi l’amore del furioso rappresenta una specificazione» e che «è il vero fondamento dell’ascesa del furioso e della sua assimilazione alla contrarietà, nell’ambito di quella che è, a tutti gli effetti, una praxis» che Bruno svilupperà nella concezione operativa dei suoi scritti sulla magia (ibidem).

  • 94

    Okamoto 2012, p. 543.

  • 95

    Granada 1993, pp. 70-71. Cfr. anche Granada 1999, pp. 319-20.

  • 96

    De gli eroici furori in Bruno/Gentile 2014, vol. II, pp. 1037-38.

  • 97

    Da non intendersi comunque mai, dal punto di vista della finitudine, come piena soddisfazione, bensì come stato in corso di continua ed eterna realizzazione: «Heroism consists not in arrival but in frenzied departure» (Blum 2012, p. 362).

  • 98

    De la causa in Bruno/Gentile 2014, vol. I, p. 297.

  • 99

    Okamoto 2012, p. 544.

  • 100

    Ibidem.

  • 101

    Cfr. la voce Imitatio di M. Cambi in Ciliberto 2014, vol. I, pp. 928-29: «il sapiente imita la natura naturans non la natura naturata.». Qui, ci si potrebbe spingere quasi al punto di dire che il contemplativo – ridescritto nei termini produttivi – non imita, bensì è la natura naturans stessa, sebbene da una prospettiva finita: egli imita l’ingegno di Apelle – cfr. nota 17 – perché tale ingegno costituisce il suo – del contemplativo – tessuto ontologico stesso.

  • 102

    Papi 1968, pp. 255-56.

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