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Giorgio Luti.

Maestri di letteratura italiana - Seminario per i 100 anni dell'Università di Firenze (parte 2)

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 17/01/2025
  • Data accettazione: 01/09/2025
  • Data pubblicazione: 03/12/2025

Abstract

L’articolo ripercorre le fasi essenziali dal lungo viaggio (durato poco più di sessant’anni) compiuto da Giorgio Luti nel cuore della cultura letteraria fiorentina e italiana del Novecento, senza normative distinzioni tra l’esercizio della critica militante e quello del magistero universitario, che ha coinvolto scolari di più generazioni. Prendendo le mosse dagli anni della sua formazione alla scuola di Giuseppe De Robertis e della collaborazione a giornali e riviste come Il Mattino dell’Italia Centrale e Inventario, viene ricostruita la fisionomia di uno studioso che, con i suoi scritti sulle riviste letterarie del Novecento, su D’Annunzio, Svevo, Tozzi, è stato tra i padri fondatori della critica della letteratura contemporanea.

 

The article retraces the essential stages of the long journey (lasting just over sixty years) undertaken by Giorgio Luti in the heart of Florentine and Italian literary culture of the twentieth century, without standardizing distinctions between the practice of militant criticism and that of university teaching, which has involved pupils of multiple generations. Starting from the years of his education at Giuseppe De Robertis's school and his collaboration with newspapers and magazines like Il Mattino dell’Italia Centrale and Inventario, the profile of a scholar is reconstructed who, with his writings on twentieth-century literary magazines, on D'Annunzio, Svevo, and Tozzi, was among the founding fathers of contemporary literary criticism.


Parole chiave
Keywords

Interrogarsi intorno a Giorgio Luti e al suo lungo viaggio (durato poco più di sessant’anni) nel cuore della cultura fiorentina e italiana del Novecento, senza normative distinzioni tra l’esercizio della critica militante e quello del magistero universitario, che ha coinvolto scolari di più generazioni, è un’operazione non facilissima, e comunque irriducibile alla pseudo-oggettività di una impassibile tassonomia. Non è del tutto vero che la storia di uno scrittore, di un critico, di un professore coincida sempre e necessariamente con la sua bibliografia: neppure quando, come nel caso di Giorgio Luti, ci si trovi in presenza di una bibliografia di sconfinata e faticosamente dominabile latitudine.

Sfidando consapevolmente le sabbie mobili del luogo comune, si può certo dire, o continuare a dire, che all’instancabile, artigianale lavoro di Giorgio Luti si deve una conoscenza non superficiale, e molto spesso decisamente originale, di alcuni snodi capitali della cultura letteraria italiana dell’Ottocento e del Novecento: della modernità, come oggi piace ripetere. Il rilievo è anche tecnicamente fondato, se si pensi all’apporto che Luti ha offerto a una miglior comprensione dell’opera di Italo Svevo, di Gabriele d’Annunzio, di Federigo Tozzi, delle avanguardie primonovecentesche, della pulviscolare galassia dei periodici letterarî italiani, nessuno escluso, della prima metà del sec. XX.

Ma non ci si può illudere che la riflessione si chiuda qui. A riassumerla nel modo più scorciato, è fuori di dubbio che Luti sia stato tra i padri fondatori della critica della letteratura contemporanea, che non esisteva nelle università del nostro paese dal punto di vista amministrativo avanti il 1960, che ha preso forma, anche a prezzo di qualche sacrificio umano (ho in mente la vicenda più insensata che tragica di Giacomo Debenedetti), e ha poi finito per assumere i tratti pletorici e ridondanti che la titolografia ‘accademica’ relativa alla letteratura cosiddetta circostante esibisce ogni giorno. Il rapporto di Giorgio Luti con la contemporaneità stretta o strettissima si è sempre giocato sul terreno delle affinità elettive, nel segno di una tesa curiosità per le cose che accadevano che non per nulla lo ha indirizzato lungo rotte mai scontate e consunte.

Su questo terreno soccorre sì la bibliografia dei suoi scritti, così ampia da non avere ancora un assetto definitivo nonostante un primo lontano tentativo di sistemazione compiuto da Carlo Maria Simonetti e un più recente esercizio di revisione e integrazione compiuto da Erika Bertelli. Senza voler vedere per forza negli iuvenilia la compiuta prefigurazione delle linee del destino di uno studioso, colpisce non poco per la sua singolarità la primissima scheda: Guillaume Apollinaire, Poesie, a cura di Giorgio Luti e Francesco Mazzoni, Firenze, Fussi, 1947.

Sospetto che la circostanza non sia universalmente nota, ma stravagante lo è di sicuro. Nello strabiliante carrefour che ancora fu, o riuscì a essere (e presto smise di essere) la Firenze postbellica, poteva accadere che un ventunenne non ancora laureato riuscisse a costruire una joint-venture con il proprio zio materno (il leggendario editore Fussi), un amico un poco più grande tornato dalla guerra destinato a diventare il primo ordinario (a Firenze…) della disciplina denominata Filologia dantesca, discendente per li rami da Guido Mazzoni e Pio Rajna, Francesco Mazzoni, e il figlio orfano di un ex parlamentare e diplomatico fascista (morto non ancora trentottenne a Kabul, dove era ministro plenipotenziario, il 21 marzo 1934), che al tempo delle avanguardie storiche era stato in corrispondenza con Apollinaire, dal giugno 1916 aveva diretto una rivista importante come «La Brigata» e alla Scuola di applicazione di fanteria alla Pilotta di Parma aveva fatto amicizia, negli ultimi mesi del 1917, con due giovani sconosciuti di nome Eugenio Montale e Sergio Solmi: dico Carlo Ernesto Meriano, figlio di Francesco. Credo che tutto questo significhi qualcosa, se trentasei anni dopo una raccolta di scritti di Francesco Meriano e di lettere a lui di d’Annunzio, Saba e Montale pubblicata da Vanni Scheiwiller con il titolo Arte e vita (il libro è stato ristampato nel 2005 dalle romane Edizioni di Storia e Letteratura) esibirà in limine una introduzione di Giorgio Luti.  

Luti si laurea il 26 giugno 1949 con Giuseppe De Robertis con una tesi su La struttura dei «Malavoglia». L’indimenticato maestro degli anni dell’università sarà oggetto, nel corso del tempo, di una vivissima, simpatetica attenzione attestata, a non dir d’altro, dalla ‘memoria’ scritta per il n. 3, settembre-dicembre 1988, della rivista «Il Vieusseux» (Per Giuseppe De Robertis. Studi e testimonianze) e da un intenso ricordo (A scuola da De Robertis) affidato prima al n. 5-6, gennaio-giugno 1996, del «Portolano», poi al volumetto Ricordanze. Memorie di gioventù e riflessioni semiserie di un vecchio letterato fiorentino (Firenze, Chegai, 2002), da cui cito:

dalle sue parole, dai suoi ricordi (la sua Matera, il suo approdo a Firenze, la sua giovanile militanza nella «Voce») si configurava un universo che mi avrebbe per lungo tempo affascinato. Anche i suoi violenti risentimenti e le sue non rare accensioni polemiche significarono molto per me: capivo quanto fosse importante battersi senza riserve per le proprie convinzioni, per il proprio metodo di lavoro, con fiducia e perseveranza. (pp. 39-40)

Ragazzo, alle Scuole Pie degli Scolopi, ha fatto in tempo a conoscere due intellettuali fiorentini ‘d’acquisto’ (il più grande è nato a Rio Marina, il più giovane a Volterra) per più d’un verso prestati all’insegnamento medio e inclini entrambi a percorrere sentieri meno burocratici e più avventurosi: un anglista appassionatamente autodidatta, Luigi Berti, e uno scrittore incline alla trasgressione piuttosto che all’ordine, Piero Santi, due figure non centrali ma neppure periferiche nella Firenze degli anni Quaranta e seguenti, anzi spiccatamente connotate al punto da apparire forse più eslege di quanto in realtà siano stati. Per una concomitanza non indegna di nota, e magari addirittura istruttiva, due dei libri della biblioteca di Luti che recano una data e una dedica coincidenti con i suoi sedici anni (Luti li compie nel crucialissimo anno 1942) sono i racconti di Avventure nel tempo di Santi e Foscolo traduttore di Sterne di Berti, pubblicati, l’uno e l’altro, da quelle Edizioni di Rivoluzione (della rivoluzione, ça va sans dire, fascista) cui l’ironia della storia conferisce l’ufficio di traghettare fuori del gorgo del regime larga parte di quella che è stata sbrigativamente designata come la generazione dei GUF (alla quale Luti non ha comunque potuto accedere non avendo ancora raggiunto i prescritti limiti d’età).

Il corso del lavoro di Giorgio Luti negli anni che seguono la laurea si configura secondo le modalità che contrassegnano le vite di molti dei suoi coetanei a vario titolo attratti, anche attraverso itinerarî sghembi o comunque non lineari, dall’universo della chose littéraire: mi astengo dal tentare un censimento anche approssimato per difetto dei nomi dei confrères, innumerevoli, sgranati tra il 1922 e il 1930, date di nascita di Sergio Romagnoli e Luigi Baldacci. Le opzioni che a Giorgio Luti si offrono non sono troppo diverse dal quadro delle scelte professionali con le quali aveva fatto i conti, quarant’anni prima, la generazione della «Voce» nella medesima città di Luti: l’insegnamento, il giornalismo, con una variabile importante (l’editoria) che nella Firenze postunitaria aveva preso forma e negli anni della «Voce» aveva secondato le esperienze delle avanguardie storiche, ma non soltanto quelle.

Paradossalmente, l’accessus di Luti a quel mondo (nella specie alla storica casa editrice Sansoni) avviene quando si incominciano ad avvertire i primi scricchiolii; ma ci sarebbe voluto un aruspice di virtù profetiche dotato per prefigurare la pressoché totale desertificazione dei nostri giorni. Sulla linea di quella antica consuetudine si inscriveranno, anni e anni dopo, il sostegno e la vicinanza disinteressati, sine spe, nel segno di un’amicizia senz’ombre, con Enrico Vallecchi, e la partecipazione a tutti i tentativi messi in atto dal vecchio editore, con esiti talora riusciti più spesso frustrati, di ridar vita a un’impresa con la quale si erano identificati cinquant’anni di cultura letteraria a Firenze.

Fin dal 1950-1951 con la letteratura che si fa Luti è in grado di stabilire un rapporto radente attraverso le pagine di un periodico e quelle di un giornale topograficamente vicino: il periodico è «Inventario» di Renato Poggioli (fiorentino del Galluzzo emigrato negli Stati Uniti, sommo conoscitore delle avanguardie poetiche e della russa in particolare: si pensi a La violetta notturna e a Il fiore del verso russo) e di Luigi Berti, garante in loco, avanti il trasferimento a Milano, della complicata dialettica italiana e ‘internazionale’ che governa la rivista (il cui fascicolo dell’autunno-inverno 1946-1947 accoglie nientemeno che La primavera hitleriana di Montale); il quotidiano è «Il Mattino dell’Italia centrale» (dal 21 febbraio 1954 «Giornale del Mattino»), affiancato, più avanti, dalla «Gazzetta di Parma» e dal supplemento letterario «Il Raccoglitore», inventato da Mario Colombi Guidotti e sopravvissuto di qualche anno alla sua tragica morte.

Libero da ogni obbedienza metodologica o di scuola, dei libri che escono Luti si rivela subito conoscitore provetto e interprete acuto e tempestivo; non c’è autore della contemporaneità stretta che sfugga alle sua capacità di analisi: la circostanza potrà sembrare ovvia a specchio di scrittori come Palazzeschi e Pavese, dei quali Luti recensisce rispettivamente Bestie del ’900 (13 maggio 1951) e Il mestiere di vivere (16 febbraio 1952), ma è meno ovvia la sua capacità di intercettare subito le voci più alte della nuova generazione: Beppe Fenoglio, Silvio D’Arzo, Italo Calvino. Dei Ventitre giorni della città di Alba si occupa l’11 aprile 1953, della Malora il 31 agosto 1954, di Casa d’altri il 9 giugno 1953 (e commemora D’Arzo sul «Popolo» il 17 settembre), dell’Entrata in guerra il 9 luglio 1954. La settimana dopo, tra il 16 e il 19 luglio, si affaccia al convegno di San Pellegrino organizzato da Giuseppe Ravegnani dove c’è, letteralmente, tout le monde, e dove Montale presenta l’ignoto poeta esordiente Lucio Piccolo, accompagnato dall’anche più ignoto e silenziosissimo cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa. A San Pellegrino incontra Italo Calvino, di tre anni più vecchio di lui, e con Calvino trascorrerà l’estate.

Ancora al «Mattino dell’Italia centrale», e al 1954, precisamente al 5 giugno, risale l’articolo Testi e saggi sveviani, primissimo documento della strenua fedeltà di Luti a Italo Svevo, destinata a durare per l’intero corso della sua esistenza. Italo Svevo e altri studi di letteratura italiana di primo Novecento (Milano, Lerici, 1961), il fortunatissimo «castoro» Svevo (Firenze, La Nuova Italia, 1967 e seguenti), L’ora di Mefistofele. Studi sveviani vecchi e nuovi (1960-1987) (Scandicci, La Nuova Italia, 1990) sono le principali stazioni di una storia che ha collocato Giorgio Luti al centro della seconda stagione della ‘fortuna’ del grande scrittore triestino (seconda dopo quella mitica riassunta, a far data dal 1925, dai nomi di Eugenio Montale, Valery Larbaud, Benjamin Crémieux). Tra i tre libri sveviani di Luti appena ricordati spicca il primo, coincidente con una fase straordinariamente espansiva dell’editoria italiana e particolarmente milanese, nella quale spicca il lavoro condotto, ai limiti dell’autodissipazione. da Roberto Lerici e da Aldo Rosselli: ai quali si deve l’allestimento di un superbo catalogo di narrativa (cui sovraintendono Romano Bilenchi e Mario Luzi: vi esordisce Antonio Pizzuto), di poesia italiana e straniera (la meravigliosa serie in tela rossa – verde per le antologie e i saggi – dei «Poeti europei») e di saggistica (nella medesima collana in cui appare lo Svevo di Luti vedono la luce Tolstoi e la storia di Isaiah Berlin e, per rimanere in area fiorentina, Tra cultura e ideologia dell’amico Cesare Vasoli).

Sono, questi, gli anni della piena maturità di Giorgio Luti, collaboratore delle maggiori riviste fiorentine, de «Il Ponte» di Piero Calamandrei e poi di Enzo Enriques Agnoletti, di «Belfagor» di Luigi e poi di Carlo Ferdinando Russo, di «Paragone» di Roberto Longhi e di Anna Banti (di «Paragone-Letteratura» sarà anche uno dei redattori fino alla crisi del ’63 prodotta dalla successione alla cattedra di Longhi e dalla sanguinosa polemica tra Aldo Rossi e Walter Binni), delle nuove serie di «Letteratura» di Alessandro Bonsanti. Alla Svevo-Renaissance segue, a breve distanza, il repêchage di Federigo Tozzi, inaugurato a Siena il 20 ottobre 1963 da Giacomo Debenedetti, proseguito da Luti nel gennaio 1964 con un notevole saggio apparso su «Belfagor» e subito ristampato in uno dei suoi libri maggiori, Narrativa italiana dell’Otto e Novecento (Firenze, Sansoni, 1964), culminato, infine, nelle esplorazioni di Luigi Baldacci ricapitolate in Tozzi moderno (Torino, Einaudi, 1993).

Il vertice di tale stagione risiede inequivocamente in Cronache letterarie tra le due guerre1920/1940, un libro rimasto insuperato nel campo della storiografia delle riviste italiane del Novecento, memorabilmente recensito da uno dei protagonisti di quel ventennio, Eugenio Montale, sul «Corriere della Sera» del 1° maggio 1966: Strana vita delle riviste si intitolava quell’articolo giustamente famoso. (Significativamente, e in qualche modo simmetricamente, nove anni dopo Luti riprenderà un illustre sintagma montaliano, Sul filo della corrente, a mo’ di titolo – sottotitolo Fatti e figure della letteratura italiana del Novecento – di un suo libro tra i maggiori, edito da Longanesi). Nel 1966 Luti ha quarant’anni, Montale ne compie settanta e sta per imprendere con ostentata nonchalance la marcia trionfale (laticlavio, premio Nobel, edizione critica dell’Opera in versi) che ne scandirà gli ultimi quindici anni. In quel medesimo arco temporale, e oltre, Giorgio Luti sarà uno dei protagonisti della vita culturale e civile di Firenze. Professore amatissimo nella Facoltà di Lettere, della quale sarà anche a lungo prorettore, direttore di istituto e di dipartimento; maestro di centinaia di scolare e scolari che hanno discusso con lui le loro tesi di laurea, spesso fondate su ricerche negli archivi letterarî il cui ufficio ha ininterrottamente rivendicato in amichevole competizione con Maria Corti; direttore di una nuova serie di «Inventario»; presidente del Gabinetto Vieusseux; titolare di progetti di largo respiro come il remake in due tomi del Novecento della Letteratura italiana Vallardi; relatore (quando non ne è anche l’organizzatore) a uno sterminato numero di convegni di studio che lo vedono naturalmente, oggettivamente al centro della scena (due esempȋ tra i tanti: gli appuntamenti dannunziani di Pescara e quelli pirandelliani di Agrigento); promotore di una serie non numerabile di iniziative culturali di profondo radicamento fiorentino e toscano ma non circoscrivibili a un orizzonte strettamente regionale. Tre titoli, di un libro, di un saggio e di un altro libro in ogni senso capitali che di Luti illuminano retrospettivamente l’intera vicenda: Firenze corpo 8. Scrittori, riviste, editori nella Firenze del Novecento, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1983; Firenze e la Toscana, nella Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 463-546; Cronache dei fatti di Toscana. Storia e letteratura tra Ottocento e Novecento, Firenze, Le Lettere, 1996.

Dopo il 1966 la sequenza delle opere di Giorgio Luti acquista una cadenza vertiginosa, che sconsiglia di redigerne, qui e adesso, un minuto inventario, anche per non violare i limiti di tempo che mi sono stati assegnati. Ma non voglio passare sotto silenzio alcuni specimina della scrittura di Luti degli anni estremi, che, in obbedienza a un gioco memoriale che non vuol essere, e non è mai, autoconsolatorio, aspirano a cogliere la malinconia e talora la desolazione del superstite, del testimone non secondario che sa di essere sopravvissuto a una stagione alta e irripetibile. Sul sottile crinale che separa (ma non sempre separa) ironia e mestizia, nel corso di un medesimo anno, il 2002, Giorgio Luti pubblica semiclandestinamente il citato Rimembranze e, insieme con la compagna di una vita Dedy Luziani, Diario Bianco e altre prose di memoria (Helicon).

Luti sembra chiudere in quel punto il circolo di un’inventio narrativa inaugurata cinquant’anni prima sul «Mattino dell’Italia centrale»; e si dispone a prendere congedo con la lucidità e la generosità che ne sono sempre state lo stigma.

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