| Articolo sottoposto a Peer Review

Diventare morali con l’aiuto delle biotecnologie?

I limiti dei programmi coercitivi e volontari di biopotenziamento

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 26/11/2021
  • Data accettazione: 07/02/2022
  • Data pubblicazione: 04/03/2022

Abstract

Abstract


In questo saggio discutiamo gli effetti sulla libertà degli individui di un programma di bio-potenziamento morale imposto in modo trasparente tramite politiche pubbliche; per ridurre considerevolmente le minacce per la libertà e aumentare l’efficacia di questi interventi, alcuni autori propendono per distribuirli segretamente, somministrandoli ai cittadini senza che essi lo sappiano. Un programma segreto è però incompatibile con istituzioni giuste e perciò non è un’alternativa accettabile. Nemmeno un bio-potenziamento morale scelto dai singoli individui in modo volontario sembra risolvere i problemi. Sebbene sia più rispettoso delle libertà personali, va incontro a un paradosso: è molto probabile che chi ha più bisogno di migliorarsi moralmente abbia meno motivazioni per ricorrervi. La conclusione della discussione sarà quindi (parzialmente) aporetica.


In this paper I discuss the effects of a program of moral bio- enhancement imposed transparently through public policy on individual freedom; some authors propose to distribute these interventions secretly, administering them to citizens without their knowledge, to substantially reduce threats to freedom and increase the effectiveness of these interventions. However, a secret program is incompatible with just institutions and therefore not an acceptable alternative. Nor does a moral bio-enhancement chosen by individuals voluntarily seem to solve the problems. Although it is more respectful of personal liberties, it runs into a paradox: it is very likely that those who are most in need of moral enhancement will have less motivation to resort to it. The conclusion of this discussion will therefore be (partially) aporetic.


Parole chiave
Keywords

La minaccia del Danno Estremo e l’esigenza del biopotenziamento morale

Nel breve periodo di due anni, dal nostro angusto osservatorio si è assistito a eventi che passeranno alla storia: prima una pandemia che a oggi ha ucciso nel mondo quasi sei milioni di persone e poi l’invasione della Ucraina da parte della Russia, un conflitto la cui durata ed esito sono incerti nel momento in cui scriviamo. Sono situazioni non certo nuove nella storia dell’umanità, che si aggiungono a minacce globali già in atto. Come hanno ampiamente documentato Julian Savulescu e Ingmar Persson in numerosi scritti, lo sviluppo tecnologico porta con sé innegabili benefici ma aumenta esponenzialmente la capacità di distruzione degli esseri umani. Gruppi terroristici potrebbero entrare in possesso di armi nucleari e biologiche devastanti e questa escalation potrebbe generare reazioni di vendetta e ritorsione e atteggiamenti xenofobi verso gruppi etnici percepiti come fonte di pericolo per la vita. La minaccia di Putin di ricorrere all’arma nucleare fa presagire un quadro drammatico, che riporta indietro di decenni la lancetta dell’orologio della storia. Ma per i due autori esistono ulteriori motivi per preoccuparsi, perché questo esito sarebbe ulteriormente aggravato dalla possibilità futura di potenziare le capacità cognitive grazie alle biotecnologie, incrementando così la memoria, l’autocontrollo, l’attenzione e la veglia. La prospettiva è che individui in grado di acquisire velocemente conoscenze complesse potrebbero perfezionare la propria abilità di offesa. Secondo Persson e Savulescu:


l’espansione della conoscenza scientifica e delle abilità cognitive metterà nelle mani di un numero crescente di persone “armi di distruzione di massa” o la capacità di implementarle. Se ciò è vero, questa crescita della conoscenza sarà strumentalmente cattiva per noi nel suo complesso, poiché amplificherà in modo inaccettabile il rischio di morire presto. È un male per noi che la conoscenza scientifica continui a crescere con i mezzi tradizionali ed è anche peggio se questa crescita è ulteriormente accelerata dal potenziamento biomedico o genetico delle nostre capacità cognitive. (Persson-Savulescu 2008, p. 166)


Inoltre, le società occidentali sono afflitte dalla “tragedia dei beni comuni”: la loro popolazione è divenuta così numerosa che la somma delle conseguenze degli atti dei loro cittadini possono essere altamente problematici per il clima e l’ambiente, anche se ciascuna azione presa singolarmente ha delle conseguenze trascurabili. Occorre quindi una forte cooperazione interna ai paesi più ricchi e al tempo stesso una politica estera di coordinazione tra gli sforzi di ciascun paese ricco (ivi, pp. 94 e 104). L’insieme di questi pericoli prefigura la concreta possibilità che si realizzi il Danno Estremo, il potenziale annichilimento sulla terra di ogni forma di vita degna di essere vissuta (Persson-Savulescu 2019).

Le uniche soluzioni che sembrano credibili comportano una revisione profonda delle nostre democrazie liberali. Secondo Persson e Savulescu, la possibilità di contrastare gli usi malvagi della tecnologia dipenderà da politiche di forte limitazione della privacy: la sorveglianza dello spazio pubblico e privato potrà essere la chiave per prevenire attacchi terroristici. Tutte le precauzioni prese potrebbero irrigidirsi a tal punto da diventare insostenibili e motivare politiche discriminatorie verso alcune etnie a cui appartengono i terroristi e comunque restrizioni di questo tipo sarebbero giustificate secondo gli autori dalla probabilità anche minima che un danno così ingente si realizzi. Analogamente, i cambiamenti climatici e ambientali possono essere affrontati solo con scelte politiche restrittive, che impongono limitazioni allo stile di vita, ai consumi e al comportamento dei cittadini, così come ai sistemi produttivi dei paesi più ricchi e inquinanti. Esistono problemi politici ed economici nel far rispettare decisioni di questo tipo, sia sul fronte interno sia sul fronte internazionale, in quanto gli interessi egoistici individuali e collettivi potrebbero frenare (come di fatto stanno già facendo) i cambiamenti globali necessari1.

L’urgenza di queste sfide globali e l’inefficacia dei metodi tradizionali nel produrre comportamento morale richiedono però scelte ancora più radicali e, secondo Persson e Savulescu, si rende necessario il biopotenziamento morale dell’umanità, ossia il ricorso a interventi biomedici per rafforzare o ridurre capacità e disposizioni già esistenti oppure crearne di nuove con l’intenzione di migliorare la motivazione, la decisione e il comportamento nella sfera morale (Galletti 2022, pp. 13-23). In particolar modo, secondo Persson e Savulescu, l’obiettivo è quello di sviluppare tecnologie genetiche, farmacologiche e neurologiche per potenziare disposizioni morali come l’altruismo, inteso come capacità di rispondere alle sofferenze altrui, e il senso di giustizia, inteso come capacità di rispondere con gratitudine e con un favore reciproco a chi ci beneficia e con rabbia e desiderio di vendetta a chi ci danneggia (Persson-Savulescu 2019).

Al di là della correttezza di questa diagnosi della condizione attuale in cui versa l’umanità e dell’effettivo ruolo della malvagità umana nella sua genesi, perpetuazione e aggravamento2, in questo saggio vogliamo concentrarci sulla terapia che questi due autori ritengono idonea per la guarigione (non ci soffermeremo però sulla prognosi, per continuare la metafora, un altro aspetto che ha solleva indubbiamente interrogativi filosofici). Daremo per scontati alcuni aspetti della terapia. Ad esempio, non ci occuperemo della questione se in futuro avremo realmente a disposizione tecnologie di biopotenziamento morale (d’ora in poi BPM) efficaci e sicure. Non è per niente scontato che il BPM riesca a mantenere tutte le promesse che i suoi fautori fanno, ma abbiamo trattato estesamente altrove questo problema (Galletti 2022, pp. 61-78, 101-9). Ci occuperemo invece delle modalità con cui le istituzioni devono distribuire il BPM tra la popolazione. In alcuni scritti Persson e Savulescu sembrano sostenere che l’imposizione coercitiva del BPM sia del tutto giustificabile o che, per lo meno, non esistano ragioni morali valide per escluderla (Persson-Savulescu 2008, p. 174; Persson-Savulescu 2012; Persson-Savulescu 2014; cfr. anche Gordon 2016). Discuteremo brevemente degli effetti di un programma di BPM imposto in modo trasparente tramite politiche pubbliche sulla libertà degli individui; per ridurre considerevolmente le minacce per la libertà e aumentare l’efficacia di questi interventi, alcuni autori propendono per distribuirli segretamente, somministrandoli ai cittadini senza che essi lo sappiano (Crutchfield 2021; Wiseman 2017a; Wiseman 2017b, pp. 272-81). Come mostreremo nel par. 3, il BPM è incompatibile con istituzioni giuste e perciò non è un’alternativa accettabile. Nemmeno un BPM scelto dai singoli individui in modo volontario sembra risolvere i problemi. Sebbene sia più rispettoso delle libertà personali, va incontro a un paradosso: è molto probabile che chi ha più bisogno del BPM abbia meno ragioni motivazionali per ricorrervi. La conclusione della discussione sarà quindi aporetica.

Biopotenziamento morale coercitivo e libertà sociale

Una delle critiche più ricorrenti in letteratura riguarda l’incompatibilità tra il BPM coercitivo e la libertà. Altrove abbiamo già affrontato il problema sollevato dalla natura polisemica del concetto di libertà: poiché essa può essere intesa in almeno due modi, come libero arbitrio e come libertà sociale, occorre distinguere con attenzione l’impatto che il BPM può avere su ciascuna delle due forme (Galletti 2022, pp. 79-83; Galletti in corso di stampa). Senza ripetere nel dettaglio gli argomenti già avanzati, vorremo qui riproporre soltanto alcune considerazioni sul rapporto tra BPM e libertà sociale. In questo contesto per libertà sociale si intende la condizione di chi non si trova sotto il dominio di un’altra persona. Quando un individuo dipende dalla buona volontà di qualcun altro per compiere una serie di azioni significative secondo le sue preferenze, senza avere pieno e libero accesso a risorse, opportunità e opzioni adeguate allora non è socialmente libero. Rimane sempre nell’arbitrio del dominatore decidere se la persona considerata possa o non possa agire come crede: l’esempio classico è quello dello schiavo fortunato che conquista le simpatie, la benevolenza e l’indulgenza del proprio padrone; sebbene questo schiavo viva una condizione sicuramente più favorevole degli altri schiavi, non per questo può essere detto libero, perché tutte le sue scelte e azioni sono condizionate dalla disponibilità del padrone. Ovviamente ci sono molte sfere dell’attività umana in cui la possibilità di scegliere e agire dipende da un ampio sistema di opportunità determinate dalle preferenze altrui e da standard sociali che orientano istituzioni e organizzazioni. Ad esempio, per viaggiare in aereo occorre che ci siano compagnie aeree e non esista una generale avversione per i voli; per comprare case occorrono mutui concessi dalle banche secondo regole e norme condivise. Compagnie aree o funzionari di banca, di norma, non concedono però l’accesso ai voli e ai mutui in base alla loro buona volontà, ma secondo regole esplicite e socialmente condivise. Si tratta in breve della concezione repubblicana della libertà come non-dominio (Pettit 2014), che ha arricchito l’interpretazione tradizionale della libertà sociale e politica come libertà positiva (capacità di autodeterminazione e azione) e come libertà negativa (assenza di impedimenti e interferenze).

Secondo alcuni autori, come Robert Sparrow (2014), è proprio questa forma di libertà a essere pregiudicata dal BPM coercitivo e questo effetto traspare nettamente se si mettono a confronto metodi tradizionali di potenziamento morale, come l’educazione, e metodi biotecnologici. Secondo Sparrow, nell’educazione, per quanto imposta, si crea una relazione di parità dei soggetti, in quanto il processo avviene in termini habermassiani, attraverso il linguaggio e l’agire comunicativo. Ogni intervento è giustificabile da norme che modellano l’intero progetto e di principio è accettabile da parte di tutte le persone coinvolte. L’accettabilità implica anche la possibilità di contestare o di resistere per buone ragioni a ciò che viene proposto: l’intervento formativo si situa cioè nello “spazio delle ragioni”, lasciando così al potenziato la possibilità di contrapporsi all’azione educativa. Nel BPM, invece, chi potenzia mira a modellare l’agentività di chi è potenziato in modo tecnico e strumentale, esercitando una forma di dominio che spezza il mutuo riconoscimento e produce una relazione fortemente asimmetrica. Come scrive Sparrow, «la tecnica che usa […] potrebbe essere usata anche per controllare le motivazioni individuali più in generale. [Il BPM] ‘domina’ i suoi soggetti» (ivi, p. 27). Riprendendo una distinzione elaborata da Peter Strawson (2009, pp. 90-98), potremmo sostenere che nell’educazione correttamente intesa il potenziante assume una prospettiva partecipativa, da cui vede nell’altro una persona coinvolta nelle normali relazioni intersoggettive e partecipe a pieno titolo delle pratiche morali; al contrario, nel BPM il potenziante assume invece un atteggiamento oggettivizzante, per cui il potenziato è qualcuno da “curare”, “gestire”, “indirizzare”, un individuo da prendere in carico, in senso terapeutico o assistenziale e quindi incapace di partecipare alle pratiche tipiche degli agenti morali. Il BPM induce a sospendere ogni atteggiamento partecipativo e considerare chi si comporta in modo ingiusto non più un agente morale, che nutre disposizioni o sentimenti morali inadeguati, ma un oggetto da manipolare e correggere per il bene collettivo. L’agente è ridotto a meccanismo che deve essere riparato o comunque contenuto nei suoi effetti attraverso strumenti efficaci e modifiche mirate.

Ovviamente questa non è un’obiezione decisiva. Si potrebbe infatti rispondere che, anche se il BPM viola la libertà sociale, la perdita di valore che si realizza è controbilanciata dal bene prodotto in termini di prevenzione di atti immorali, ma questa replica funziona solo se accettiamo una concezione ristretta del bene, che non tiene di conto della potenziale perdita di fiducia nelle istituzioni che può provenire da un’imposizione del BPM, né del fatto che in questo modo si impedirebbe alle persone di migliorare il proprio carattere morale in modo autonomo (Galletti 2022, pp. 65-74; Galletti in corso di stampa). Nel momento in cui nella valutazione complessiva non vengono considerati questi aspetti, il bene che viene collocato sui piatti della bilancia insieme alla libertà risulta impoverito.

Un biopotenziamento morale che agisce nell’oscurità

Eppure, secondo alcuni l’unica speranza di evitare il Danno Estremo è proprio il biopotenziamento morale. La prospettiva di prevenire innumerevoli sofferenze, morti di massa e, infine, l’estinzione del genere umano sembra giustificare ogni sacrificio di altri valori, ogni abdicazione alla difesa di libertà fondamentali. Ovviamente, premessa di questo ragionamento è che il biopotenziamento morale sia efficace e questo punto è tutt’altro che scontato. Il progetto auspicato da Persson e Savulescu si scontra non solo con la realtà della ricerca attuale, che ancora è ben lontana dall’individuare tecniche capaci di potenziare le disposizioni morali nel modo desiderato; ma è probabilmente destinato a naufragare per la sua stessa impostazione. Utilizzare come bersaglio delle tecniche singoli tratti del complesso psicologico delle persone potrebbe non avere l’effetto sperato in termini di miglioramento morale degli individui, né esistono garanzie che sfide globali come il cambiamento climatico e la comparsa di pandemie planetarie siano affrontabili semplicemente rendendo gli individui più generosi, più altruisti o dotati di maggiore senso di giustizia. La dimensione “individualistica” e “aggregativa” del programma del BPM è dissonante rispetto al modo in cui l’umanità è riuscita a raggiungere nel passato le grandi conquiste morali e sociali e allargare il raggio inclusivo della comunità morale. Sembra quindi che occorre un complesso intreccio di buone disposizioni soggettive e di ambienti sociali capaci di favorire il loro esercizio. Non solo, ma in questi casi si tratta di problemi di azione collettiva, in cui occorre che un certo numero di persone sia disposto a potenziarsi e lo faccia effettivamente; se una certa soglia non viene raggiunta, è probabile che non vi sia la sufficiente cooperazione per risolvere il problema (Glannon 2018, pp. 76-79).

Parker Crutchfield (2021) ha sostenuto che un modo di risolvere questi problemi consiste nel conversare il programma di PBM, ma di renderlo segreto. Secondo Crutchfield, i problemi di azione collettiva sono difficili da risolvere per la presenza di oneri epistemici: esistono zone di ignoranza, false credenze, informazioni opache che devono essere eliminate perché sia possibile la coordinazione necessaria. Ad esempio, se non conosco a pieno gli effetti del cambiamento climatico o non so cosa gli altri pensano o come intendono agire al proposito, sarà per me più difficile riuscire a valutare la situazione e decidere come comportarmi:

Gli oneri epistemici comprendono sia la conoscenza proposizionale sia quella non-proposizionale (o, per essere più precisi, l’ignoranza). Gli oneri epistemici modellano in modo preconscio le nostre strutture incentivanti o le nostre gerarchie delle preferenze. I corsi di azione che sembrano portare oneri epistemici incredibilmente pesanti non sono tipicamente considerati come opzioni nella lista su cui l’agente delibera e in base a cui alla fine compie una scelta consapevole, mentre corsi di azioni che sembrano portare oneri epistemi comparativamente pesanti sono sistematicamente escluse dalla lista delle opzioni che sembrano meno problematiche dal punto di vista epistemico. L’ignoranza modella la psicologia decisionale. (Ivi, p. 50)

Un modo per attenuare gli oneri epistemici dei problemi di azione collettiva che coinvolgono beni pubblici consiste nel fare aumentare il valore soggettivo assegnato al superamento di questi oneri: si può quindi intervenire indirettamente con un biopotenziamento cognitivo e diminuire il peso dell’onere epistemico legato al contributo all’azione collettiva oppure intervenire direttamente e aumentare (fino a una soglia accettabile) il valore soggettivo attribuito al contributo. Anche nel primo caso si tratta di un BPM perché per Crutchfield l’intervento massimizza la realizzazione di valori morali (riduzione diffusa del danno e della sofferenza, promozione di utilità, libertà, uguaglianza e piacere) e corrisponde a un’amplificazione della sensibilità ai valori, sia in termini riconoscitivi sia in termini motivazionali (ivi, p. 58). Diversamente da Persson e Savulescu, Crutchfield ritiene che un programma di BPM coercitivo sia efficace solo se attuato in modo segreto. Le persone diffiderebbero di un intervento coercitivo che modifica le loro convinzioni morali e le loro credenze non-morali attraverso un meccanismo biotecnologico e non presterebbero fiducia nelle autorità che lo impongono data la diffusa opinione che non esistono esperti morali e che il disaccordo morale è un fenomeno ubique (ivi, pp. 82-84). Qualora invece l’azione avvenisse segretamente (ad esempio attraverso l’acqua del rubinetto o insieme a vaccini obbligatori), i cittadini non potrebbero opporre resistenza perché inconsapevoli, ma trarrebbero tutti i vantaggi possibili dal BPM.

La prima osservazione è che la segretezza che dovrebbe caratterizzare il programma di BPM non appare conciliabile con la sua proposta pubblica: converrebbe non parlarne, né difenderlo pubblicamente in un libro. È pur vero che il saggio di Crutchfield ha tutte le caratteristiche per circolare soltanto tra la comunità scientifica dei filosofi, senza raggiungere il grande pubblico, ma prima o poi la notizia potrebbe venire resa nota al di là della stretta cerchia dei ricercatori.

Crutchfield inoltre dedica un intero capitolo a difendere l’idea che la trasparenza non è una condizione necessaria per giustificare qualsiasi intervento finalizzato a massimizzare il benessere di una popolazione. L’argomentazione di Crutchfield si snoda attraverso osservazioni concettuali e osservazioni empiriche. Ad esempio, sostiene che, di principio, la mancanza di trasparenza non è incompatibile con il rispetto per le persone, qualora non lo si definisca come un atteggiamento morale verso l’agentività razionale ma lo si intrepreti come la disponibilità a tenere in considerazione gli interessi legati alla sentience e quindi di natura edonistica (ivi, pp. 113-4).

Crutchfield cita poi alcuni studi empirici le cui conclusioni mostrerebbero che la trasparenza non è necessaria per creare e conservare la fiducia pubblica, ma addirittura potrebbe danneggiarla (ivi, pp. 117-8) o che i cittadini (americani) preferiscono tendenzialmente la cosiddetta stealth democracy, ossia «vogliono che le politiche siano fatte nell’oscurità, pur conservando l’opportunità di gettare luce su di esse, se lo desiderano» (ivi, p. 123).

Non sembra che la concezione del rispetto per le persone presentata da Crutchfield risolva tutti i problemi, perché le persone potrebbero avere un interesse a sapere che sono oggetto di un biopotenziamento, la cui mancata considerazione può produrre sofferenza, disagio, frustrazione. Per quanto riguarda il sostegno empirico alle conclusioni su fiducia e trasparenza, Crutchfield stesso riconosce che i dati a disposizione sono «esigui», ma c’è un problema fondamentale che contraddistingue la volontà dell’autore di far convivere politiche pubbliche che agiscono nell’oscurità e strumenti che consentono ai cittadini di venirne a conoscenza, qualora lo desiderino. È infatti abbastanza difficile far convivere la “democrazia furtiva” con la possibilità di fare luce su ciò che rimane oscuro: continuando la metafora, per riuscire a fare luce occorre sapere dove puntare la torcia ma se i cittadini rimangono all’oscuro circa il programma di BPM difficilmente riusciranno anche solo a desiderare di saperne di più.

Rimane da considerare se la mancanza di trasparenza riesca a essere compatibile con istituzioni giuste e, quindi, se politiche mancanti di pubblicità possano essere considerate effettivamente giuste. Sebbene la questione sia complessa (Kogelmann 2021), vorremo qui fare alcune osservazioni partendo da ciò che John Rawls dice in Una teoria della giustizia. Qui Rawls (1983, pp. 62, 122-3) elenca una serie di condizioni che impongono vincoli per stabilire l’accettabilità dei principi etici, tra cui c’è la condizione di pubblicità: in un’ottica contrattualista le parti presuppongono di sapere dei principi tutto ciò che saprebbero se l’accettazione di questi principi fosse frutto di un accordo. Si può quindi seguire con regolarità un principio senza averne alcuna consapevolezza e questo è per Rawls inconcepibile in una società ben ordinata, in cui i cittadini devono valutare le concezioni della giustizia in quanto pubblicamente riconosciute e in quanto «costituzioni morali pienamente efficaci nella vita sociale». La struttura fondamentale della società è un sistema pubblico di regole caratterizzato da una dinamica di reciproca consapevolezza tra i cittadini riguardo a quali sono le regole vigenti e cosa esse richiedono (reciproca perché ciascuno sa che gli altri sanno). Questa dimensione orizzontale della trasparenza regola l’accettazione dei principi e le aspettative dei cittadini non solo nei confronti delle istituzioni, ma anche tra i cittadini stessi. Il senso di reciprocità che la concezione contrattualistica presuppone è connesso all’esigenza rawlsiana di costruire una teoria della giustizia basata sui principi di equità che possono regolare una società ben ordinata in presenza di disaccordi ragionevoli e di concezioni sostantive plurali del bene. In un certo senso, la possibilità di sapere quali sono i principi grazie a cui è regolata la società permette cooperazione e convergenze, ma consente anche uno spazio di contestazione delle regole, apre la possibilità a una revisione. Un modello di BPM segreto non creerebbe questa opportunità, eliminando alla radice la possibilità che esista dissenso. Non si tratta di attribuire valore alla contestazione in quanto tale, ma di riconoscere che la pratica del dissenso, laddove condotta entro una pratica di scambio di ragioni, è essenziale per comprendere punti di vista diversi e per alimentare la rappresentazione dei cittadini non come semplici meccanismi da aggiustare, ma come soggetti agenti (Huang 2018, pp. 557-60). Inoltre, il riconoscimento di questo diritto previene anche il pericolo del conformismo morale ottenuto per via biotecnologica, la contrazione del pluralismo morale, la riduzione della possibilità di confronto.

Una possibilità è quella di optare per un sistema misto. In questo senso è utile la distinzione introdotta da Luc Bovens, secondo cui è possibile individuare due tipi di trasparenza: la trasparenza del tipo di interferenza (type interference transparency) e la trasparenza dell’occasione dell’interferenza (token interference transparency). Nel primo caso il governo dichiara pubblicamente che farà uso di certi strumenti per ottenere certi risultati; nel secondo caso, invece, dichiara pubblicamente che in una particolare occasione sta utilizzando un particolare strumento per ottenere un certo scopo. Si tratta di due modi diversi di rendere trasparenti le interferenze, che possono dare luogo a tre richieste diverse provenienti dal principio di pubblicità: (a) i cittadini devono essere consapevoli del fatto che il governo utilizza certi dispositivi tecnologici per potenziare moralmente le persone senza sapere quando e come li utilizza effettivamente; (b) i cittadini possono non essere consapevoli del fatto che il governo utilizza certi dispositivi tecnologici per potenziare moralmente le persone ma devono sapere quando e come il governo utilizza questi dispositivi di potenziamento; (c) i cittadini devono essere consapevoli del fatto che il governo utilizza certi dispositivi tecnologici per potenziare moralmente le persone e devono sapere quando e come il governo li utilizza (Bovens 2009, pp. 216-7; Mills 2015, pp. 500-2)3. Un programma semi-segreto di BPM potrebbe adottare un principio di pubblicità che realizza una trasparenza di tipo (a). Sebbene possa risultare più accettabile, ovviamente tale proposta non sarebbe accettata da Crutchfield, perché la considererebbe inefficace. Un’altra possibile soluzione è di organizzare una deliberazione pubblica in cui i cittadini sono chiamati a decidere ed esprimersi sulla possibilità di rinunciare a quote della loro libertà sociale per prevenire il Danno Estremo. Questa soluzione sembrerebbe più in linea con i valori democratici, ma niente assicura che i cittadini che vi partecipino non siano schiacciati, nelle sue varie fasi, da oneri epistemici. Ma questo problema affligge anche la proposta del BPM segreto. Le persone che dovrebbero decidere di imporlo potrebbero scontrarsi con il problema di dover superare oneri epistemici, dimostrandosi molto più sensibili al valore dell’interesse personale che al valore degli stati prodotti dal BPM. Dovremmo quindi assicuraci che esse per prime siano state biopotenziate, ma su iniziativa di chi? Il rischio di un regresso all’infinito sembra attanagliare il programma segreto di BPM.

Un biopotenziamento morale volontario?

Per evitare le conseguenze negative del biopotenziamento coercitivo, sia nella sua versione esplicita, sia nella sua versione segreta, rimane la possibilità di renderlo volontario. Vojin Rakić (2014; 2021), ad esempio, ha sostenuto che il BPM coercitivo ha serie conseguenze sul libero arbitrio e, quindi, sull’identità degli esseri umani:

Rendere obbligatorio il BPM per ridurre la probabilità del danno estremo depriverebbe gli esseri umani del loro libero arbitrio. Privare loro di questa libertà significa eliminare qualcosa di essenziale per gli esseri umani in quanto esseri morali. […] Il BPM obbligatorio, un’impresa che tocca ciò che percepiamo come libero arbitrio, tocca anche ciò che noi percepiamo come identità umana (che include il fatto di avere libero arbitrio). Quindi, Il BPM obbligatorio, che tocca ciò che percepiamo come il nostro libero arbitrio, è contrario alla nozione di chi siamo. In questo senso, infligge anche un altro danno essenziale: un danno, forse un danno estremo, alla nostra identità di esseri umani. (Rakić 2021, 22-3)

Secondo Rakić l'unico modo per conservare i beni del biopotenziamento morale senza rinunciare al libero arbitrio è di rendere il BPM obbligatorio solo per alcuni cittadini (ad esempio, criminali incalliti già incarcerati che rappresenterebbero da liberi una minaccia per la collettività); tutte le altre persone dovrebbero avere il diritto di acquistare e utilizzare, dietro prescrizione medica, dispositivi o farmaci potenzianti (ivi, pp. 63-6).

L’obiezione di Rakić al BPM coercitivo non è politica, ma metafisica, in quanto riconosce un’incompatibilità tra questo di intervento e il libero arbitrio. Tuttavia, la negazione della libertà della volontà incide sull’identità pratica degli individui umani e questa è una rilevante conseguenza etica. Il BPM volontario preserva invece il libero arbitrio, anzi è una sua diretta espressione. Si potrebbe però obiettare che la decisione di sottoporsi volontariamente al BPM crea un problema se si accetta una concezione “complessa” dell’identità personale, secondo cui l’identità diacronica è data da una relazione di continuità e connessione tra parti corporee e mentali diverse della vita della persona (Parfit 1973). È possibile suddividere in parti questa continuità e distinguere il sé presente dai sé futuri, la persona che oggi prende la decisione X e la persona che domani, in momenti diversi, subirà gli effetti di quella decisione. Un’obiezione di questo tipo viene mossa da Michael Hauskeller:

L'asimmetria persisterebbe quindi tra il nostro sé presente (e futuro) e il nostro sé precedente, che per il nostro sé presente è un'altra persona. Ci troveremmo in condizioni analoghe al caso in cui qualcuno ha firmato volontariamente un contratto che lo ha reso schiavo per il resto della sua vita. Anche se quella persona avesse liberamente scelto di essere schiava, una volta schiava, non avrebbe più la possibilità di non esserlo, e non è un'intuizione inusuale che per questo sia sbagliato fare una tale scelta (e non dovrebbe essere permesso farla). Allo stesso modo, privandoci volontariamente e deliberatamente della possibilità di agire in determinati modi (che sono stati selezionati come moralmente indesiderabili o “cattivi” da qualcun altro), ci trasformiamo in schiavi di una decisione precedente, e non importa se questa decisione è stata presa da noi o da qualcun altro, perché in entrambi i casi finiamo per essere schiavi. (Hauskeller 2017, p. 374)

Hauskeller parla di libertà politica, non di libero arbitrio, e si potrebbe pensare che questo argomento non funzioni contro l’ipotesi di BPM volontario di Rakić; è però sufficiente riformulare l’obiezione chiedendo se sia moralmente giusto o lecito consentire alle persone di trasformare in “zombie morali” i loro sé futuri. In questo modo l’obiezione non sembra perdere forza, perché la prospettiva di auto-trasformarci liberamente in individui che possono soltanto compiere azioni moralmente buone, senza alcun libero arbitrio nella sfera morale, potrebbe risultare fortemente indesiderabile. In entrambi i casi abbiamo un sé presente che non tratta i sé futuri come persone, ma come oggetti da manipolare a suo piacimento, da far diventare schiavi o zombie.

Ci sono però alcune cose che non funzionano. L’argomento della schiavitù si basa sull’idea che esista una frattura tra ciò che il sé presente vuole e ciò che il sé futuro desidera. Derek Parfit (1973) presenta il celebre esempio di un nobile russo dell’Ottocento che sa di ereditare dopo molti anni alcune terre. Poiché è un convinto socialista decide che darà questi possedimenti ai contadini, firmando un documento legale di cessione, revocabile solo con il suo consenso della moglie. Quindi chiede alla moglie di promettergli che non darà ascolto al suo sé futuro se dovesse abdicare i suoi ideali socialisti e quindi decidere di non cedere le terre. Qualora ciò accedesse, la moglie potrebbe ritenere che la persona che ora chiede di stracciare il documento di cessione non sia più la stessa persona che prima lo ha sottoscritto. Il sé attuale non ha alcuna facoltà di sollevarla dalla promessa fatta perché non è a lui che l’aveva fatta e il sé passato a cui aveva dato parola non esiste più, perché con la perdita degli ideali giovanili. (Per inciso, si potrebbe ribattere che proprio questa perdita compromette l’autorità morale della promessa, giustificata da quei principi a cui l’uomo non aderisce più. Lasciamo però perdere questo punto.)

Nel caso del BPM volontario si dovrebbe sostenere che la persona che esisterà dopo l’intervento non è più la persona che esisteva prima. Poiché il BPM interviene su disposizioni come altruismo e senso di giustizia, la persona che risulterà sembrerà diversa, perché diversi sono i suoi atteggiamenti morali rispetto al passato. Poiché però il BPM non sembra intervenire direttamente sui principi che strutturano l’identità pratica, non è chiaro in quale misura il sé futuro sarà diverso da quello precedente. Ovviamente, un BPM che causi un radicale cambiamento dell’intera personalità dell’individuo potrebbe sortire un effetto analogo a quello prodotto nel carattere di Phineas Gage dall’incidente nel caso analizzato da Damasio. Se però gli effetti sono circoscritti, potremmo sensatamente parlare di una persona che dopo il BPM diventa più altruista o più giusta, rimanendo la stessa persona, così come può diventare più socievole senza per questo cessare di portare a credere che ci troviamo di fronte a un “altro sé”.

Se questa frattura identitaria non si realizza, il BPM volontario può quindi essere assimilato a una qualsiasi scelta che modella i nostri desideri futuri e ha quindi conseguenze su chi saremo tra qualche anno, come la scelta dell’università, che non consideriamo una forma immorale di auto-schiavitù. E tuttavia da queste scelte si può sempre recedere, ci è dato un margine di ripensamento e di revisione delle decisioni cruciali che riguardano la nostra vita. Invece di equiparare il BPM a una scelta cruciale che ha conseguenze sull’andamento della biografia futura di un individuo, sembra più giusto pensarlo come una strategia di auto-controllo preventivo, un «vincolo essenziale» per usare la terminologia di Jon Elster. Vincolo essenziale è qualsiasi stratagemma con cui gli agenti si autoimpongono restrizioni in modo da condizionare il comportamento futuro in ragione di alcuni benefici attesi: il BPM esprime allora una «certa forma di razionalità nel tempo»:

Nel momento 1, un individuo vuole fare A nel momento 2, ma prevede che quando 2 sarà arrivato, egli potrà o vorrà fare B, a meno che qualcosa non glielo impedisca. In questi casi, il comportamento razionale da adottare nel momento 1 può richiedere di prendere qualche misura precauzionale per evitare la scelta di B al momento 2, o quanto meno per rendere tale scelta meno probabile (Elster 2000, p. 17).

Scegliere di sottoporsi al BPM non manifesta solo razionalità, ma anche uno scrupolo e una cura per la qualità delle proprie disposizioni morali. Significa esprimere una preoccupazione per il tipo di persona che si è e per il tipo di comportamento che si tiene in aree rilevanti della nostra vita e che ha ripercussioni sugli altri e sulle relazioni che intratteniamo con loro. Diversamente dal BPM obbligatorio, quello volontario non comporta una limitazione assoluta della libertà né comunica una volontà di dominio intersoggettivo, bensì un atteggiamento di scrupolo per il proprio carattere morale.

Tuttavia, il significato espressivo del BPM volontario contiene in sé anche il limite di questa soluzione. Esso dà infatti luogo a un paradosso: chi si vuole potenziare moralmente dimostra già di avere una certa sensibilità morale, perché si preoccupa della natura dell’impatto delle sue azioni sul mondo. Esprime una propensione a migliorarsi ricorrendo a metodi biotecnologici, perché ritenuti più efficaci e veloci dei metodi tradizionali. Questo significa che solo una piccola parte degli individui deciderà di ricorrere al BPM e questa minoranza dimostra già di avere desideri moralmente apprezzabili. Come ha scritto Elster, «desiderare di essere mossi da un interesse a lungo termine è già di per sé essere mossi da questo interesse a lungo termine, proprio come aspettarsi che ci si aspetti che qualcosa accada è già aspettarsi che qualcosa accada, o desiderare di diventare immorali è già essere immorali» (ivi, p. 47). Ribaltando queste ultime parole, si può sostenere che desiderare di diventare morali è già essere morali; quindi, il BPM avrebbe una portata molto limitata nella sua forma volontaria ed è per questo motivo che Crutchfield sostiene che la forma coercitiva è quella più giustificata. Chi necessita davvero del BPM è scarsamente sensibile ai valori, cosicché sarà meno motivato a biopotenziarsi deliberatamente. Quindi, se non riesce a superare la sua carenza morale grazie a un atto di volontà, allora ha sufficienti capacità morali che rendono superfluo il ricorso al BPM; se invece non riesce a colmare questa carenza, allora difficilmente desidererà ricorrere al BPM (Crutchfield 2021, pp. 61-3).

Siamo quindi giunti a un punto di stallo. Le forme coercitive (pubbliche e segrete) di BPM minacciano la libertà sociale e rendono potenzialmente ingiuste le istituzioni che lo promuovono. Quella volontaria non pregiudica il libero arbitrio, né la libertà sociale ma corre il rischio di essere inefficace. Questo esito aporetico potrebbe indurre a cercare altre strade: ad esempio, potrebbe essere un’alternativa una deliberazione pubblica, trasparente e partecipata, in cui gruppi di cittadini possano acquisire conoscenza e consapevolezza delle tecnologie di BPM e delle loro implicazioni e decidere se e in che forma siano rese disponibili. In questo modo, sarebbe un’intera comunità politica ad auto-vincolarsi e scegliere il mezzo migliore per ottenere i benefici previsti. Non possiamo in questa sede percorrere questa direzione, ma dobbiamo limitarci a indicarla e a riconoscere che il punto di partenza di questo nuovo cammino è costituito dai limiti del BPM coercitivo e di quello individuale volontario.

Note
  • 1

    Altri fautori del biopotenziamento morale interpretano in modo diverso i limiti della natura umana, proponendo giustificazioni del biopotenziamento morale più vicine alle motivazioni che in Arancia meccanica portano a sviluppare il metodo Ludovico: la natura umana è intrinsecamente difettosa perché incorpora tendenze malvagie che spiegano il prosperare di violenze, aggressioni, stupri, ecc. I metodi tradizionali, come la socializzazione e l’educazione, si sono dimostrati inefficaci nell’eliminare radicalmente il male e quello che serve è un’alterazione della natura biologica umana (resa possibile dalle numerose prove empiriche che dimostrano il legame tra comportamenti al patrimonio genetico (Walker 2009, pp. 27-9; DeGrazia 2014, p. 362). Secondo altri, semplicemente, l’accettabilità del biopotenziamento morale deriva dai benefici collettivi che potrebbe produrre e dall’assenza di ragioni morali forti contro il suo utilizzo (Douglas 2008, pp. 229-30).

  • 2

    John Harris, ad esempio, ripete spesso che è molto probabile che la distruzione ultima dell’umanità non sarà l’effetto della malvagità umana, ma della stupidità; Harris 2016, pp. 3-4, 70-74, 135-6.

  • 3

    La prima delle possibili combinazioni della coppia individuata da Bovens ha alcune somiglianze con la compatibilità individuata da Thompson (1999) tra una «segretezza di primo ordine» e una «pubblicità di secondo ordine».

Bibliografia
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Informazioni
Cita come: Matteo Galletti, Diventare morali con l’aiuto delle biotecnologie? I limiti dei programmi coercitivi e volontari di biopotenziamento in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 1 (2022), pp. 36-51. 10.35948/DILEF/2022.3285