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Capaneo nella Tebaide di Stazio: appunti per un’analisi del personaggio

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 15/11/2022
  • Data accettazione: 14/12/2022
  • Data pubblicazione: 06/02/2023

Abstract

Questo articolo propone un’analisi del personaggio di Capaneo all’interno della Tebaide di Stazio. In particolare saranno discussi i possibili influssi del De rerum natura di Lucrezio; il rapporto tra Capaneo e Meneceo nel decimo libro, anche in relazione al sistema dei personaggi della Tebaide; infine si cercherà di definire l’atteggiamento di Stazio come voce poetica nei confronti del personaggio di Capaneo.

 

This paper proposes an analysis of the character of Capaneus within Statius’ Thebaid. In particular the essay focuses on the possible echoes of Lucretius' De rerum natura; the relationship between Capaneus and Meneceus in Book 10 and finally, an attempt will be made to define the attitude of Statius as a narrator toward the character of Capaneus.


Parole chiave
Keywords

Pur appartenendo ad uno dei cicli mitici di maggior successo dell’antichità occidentale, Capaneo - almeno fino a Stazio - ricopre un ruolo quasi marginale nella letteratura greca e latina a noi pervenuta. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che la sua figura sembra legata ad un singolo episodio, per di più apparentemente cristallizzato nella propria struttura narrativa: Capaneo è uno dei sette condottieri che muovono guerra contro Tebe; durante l’assalto, scala le mura della città e, dopo aver minacciato di bruciarla anche contro il volere degli dèi, viene fulminato da Zeus/Giove.

Pressoché assente nelle fonti letterarie più antiche1, Capaneo sembra ritagliarsi uno spazio più cospicuo soltanto nella tragedia di età classica, anche se occorre notare che egli non figura mai in scena in nessuna delle tragedie superstiti nelle quali viene menzionato2 e la sua storia si sviluppa interamente nel racconto di altri personaggi o del coro.

La presenza di Capaneo è assai limitata anche nella letteratura latina. Prima della Tebaide di Stazio si contano soltanto pochi cenni in Properzio3 e Ovidio4, oltre a due rapidissime menzioni in Plinio il Vecchio e Servio5. Stazio si conferma dunque come l’autore antico che ha dato in assoluto più spazio a questo personaggio6. Nella Tebaide, Capaneo è infatti una presenza costante fin dal proemio e, calandolo all’interno della realtà poetica che maggiormente gli si addice (l’epica), Stazio ha potuto dilatare ed esplorare le possibilità narrative che il personaggio offriva e che non potevano trovare pieno sviluppo sulla scena tragica.

Nel presente lavoro si tenterà di mettere in luce la particolare attenzione che Stazio riserva alla costruzione del personaggio: il primo paragrafo si occuperà dei possibili influssi del De rerum natura di Lucrezio; il secondo del rapporto tra Capaneo e Meneceo nel decimo libro, anche in relazione al sistema dei personaggi della Tebaide; infine il terzo cercherà di definire l’atteggiamento di Stazio come voce poetica nei confronti del personaggio di Capaneo.


1. L’ateismo di Capaneo e la teomachia: un Epicuro negativo?

L’elemento più vistoso della caratterizzazione di Capaneo nella Tebaide è il suo disprezzo nei confronti degli dèi e della religio7. Tale empietà emerge chiaramente sin dalla sua prima apparizione nel terzo libro, per poi trovare sublimazione nell’aristia del decimo libro.

Quando entra in scena per la prima volta, l’eroe, programmaticamente definito superum contemptor (Theb. III 602)8, si profonde in una dura invettiva contro l’indovino Anfiarao, reo di voler impedire la spedizione contro Tebe. Riportiamo per completezza l’intero discorso (Theb. III 606-618)9:

ante fores ubi turba ducum vulgique frementis,

Amphiarae, tuas ‘quae tanta ignavia’ clamat

‘Inachidae vosque o socio de sanguine Achivi?

unius – heu pudeat – plebeia ad limina civis

tot ferro accinctae gentes animisque paratae 
610
pendemus? non si ipse cavo sub vertice Cirrhae,

quisquis is est, timidis famaeque ita visus, Apollo

mugiat insano penitus seclusus in antro,

expectare queam dum pallida virgo tremendas

nuntiet ambages. Virtus mihi numen et ensis
615
quem teneo. iamque huc timida cum fraude sacerdos

exeat aut hodie volucrum quae tanta potestas

experiar.’ [...]


Un primo elemento da notare: in Eschilo è Tideo, personaggio non meno empio e feroce di Capaneo, ad avere un alterco con Anfiarao10. Se è vero che spesso, nella rielaborazione del materiale mitico, alcuni dettagli vengono attribuiti ora all’uno ora all’altro personaggio11, in questo caso la scelta di Stazio di intervenire sulla tradizione, cambiando l’interlocutore dell’indovino, non sembra casuale. Essa è, a mio modo di vedere, dettata da esigenze di costruzione del personaggio di Capaneo, come cercheremo di mostrare in queste pagine.

L’intero discorso punta a mettere in ridicolo l’arte divinatoria. Capaneo afferma chiaramente che non ha intenzione di rimandare ulteriormente la partenza, neanche se fossero Apollo in persona e la Sibilla a pronunciare gli oracoli. Anzi, l’eroe attraverso la formula quisquis is est sminuisce lo statuto divino di Apollo e quasi ne mette in discussione la stessa esistenza, parodiando una formulazione tipica della preghiera antica12. Capaneo ribadisce la propria mancanza di fede ai vv. 615-616, nei quali afferma che le uniche divinità in cui crede sono il suo valore e la sua spada (virtus mihi numen et ensis / quem teneo)13. Al verso 618, experiar è un verbo chiave per comprendere la caratterizzazione di Capaneo, che vuole “toccare con mano” e provare sulla propria pelle se esista e quanto sia grande la potenza degli dèi. Il verbo ritornerà, nella medesima sede metrica, in un altro passo molto significativo, ovvero Theb. X 847 experiar quid sacra iuvent an falsus Apollo (cfr. infra).

Ancora più interessante ai fini del nostro discorso risulta essere il secondo discorso di Capaneo, pronunciato subito dopo la replica di Anfiarao. In particolare, ci concentreremo sulle implicazioni filosofiche di Theb. III 657-6114:

                                       […] tua prorsus inani

verba polo causas abstrusaque semina rerum

eliciunt? miseret superum si carmina curae

humanaeque preces. quid inertia pectora terres
660
primus in orbe deos fecit timor. [...]

658 abstrusaque (obs- G M S) semina ω Σ : abstrusaque nomina P S4 s: obstrusaque nomina Gvl: abstrusa atque omina ed. Hill: abstrusaque momina Baeherens, ed. Shackleton Bailey, Sweeney: abstrusaque nemina Courtney


Le sententiae filosofeggianti di Capaneo si rifanno a un chiaro sostrato epicureo-lucreziano15, a partire dall’espressione semina rerum (della quale discuteremo infra), passando poi per l’annosa questione an superi rerum humanarum curam agant (vv. 659-60) arrivando infine al perentorio primus in orbe deos fecit timor (v. 661)16, con il quale l’eroe addirittura arriva a negare l’esistenza stessa degli dèi, frutto del timore degli esseri umani. Anche la menzione del cielo vuoto (vv. 657-8 inani… polo) dal quale Anfiarao pretenderebbe di trarre i segreti dell’universo potrebbe essere un’allusione alla teoria degli intermundia: il cielo è vuoto perché le divinità risiedono in una dimensione cosmica completamente separata da quella umana.

Come si intuisce dall’apparato accluso al testo, la lezione semina rerum non è sicura né ha goduto di grande successo tra gli editori (Hall è l’unico a metterla a testo), tuttavia mi sembra preferibile. Vale la pena soffermarsi un poco sulla questione, presentandola nella maniera più completa possibile. Il codice P (Parisinus lat. 8051) riporta nomina, mentre il resto della tradizione ha semina: entrambe le lezioni potrebbero restituire un buon senso al contesto. La prima è stampata da Klotz17, Mozley18 e difesa da Snjider19, il quale adduce come paralleli Stat. silv. II 6, 8 quia rerum nomina caeca / sic miscet Fortuna manu nec pectora novit e Lucan. VI 773 ne parce, precor: da nomina rebus, / da loca; da vocem qua mecum fata loquantur, celebre passo nel quale la negromante interroga il cadavere del soldato riportato in vita. Entrambi i luoghi (cui si potrebbe semmai aggiungere Manil. III 31 at mihi per numeros ignotaque nomina rerum, più simile al nostro passo per l’impianto cosmologico e la presenza dell’attributo ignota) non sembrano però molto pertinenti. Semina rerum d’altro canto è un nesso lucreziano che si inserirebbe perfettamente nel contesto, dal momento che in questi versi e in quelli immediatamente successivi Stazio attribuisce a Capaneo una consonanza di lessico e pensiero con l’epicureismo. Oltre ai numerosi precedenti in Lucrezio, il termine ricorre con significato simile in Theb. III 484 sic dedit effusum chaos in nova semina texens

Numerosi sono stati i tentativi di intervenire sulla paradosis, evidentemente ritenuta insoddisfacente. Hill20 ad esempio stampa abstrusa atque omina rerum, citando a supporto della propria congettura Theb. III 473 Ominaque et causas caelo deferre latentes (a parlare è Anfiarao). I due passi sono in effetti molto simili: caelo deferre ~ inani… polo… eliciunt; causas ~ causas; latentes ~ abstrusa. Per superare la possibile difficoltà presentata da atque posposto, Hill cita poi Stat. silv. IV 1, 25 moribus atque tuis gaudent turmaeque tribusque, mentre giova notare che il nesso omina rerum si ritrova in Theb. II 263 e VI 934. Sulla stessa via si era già mosso Håkanson che stampava abstrusaque et omina rerum, intendendo abstrusa come un sostantivo21. Non molto convincente numina di Alton22: di per sé il termine sarebbe anche appropriato, ma il nesso numina rerum non ha attestazioni e inoltre non sembra particolarmente efficace (meglio sarebbe forse abstrusaque numina divum, “l’imperscrutabile volere degli dèi”, ma l’intervento diverrebbe particolarmente invasivo). Molto suggestive, ma probabilmente da scartare le congetture momina di Baeherens e nemina di Courtney. La prima è messa a testo sia da Garrod23 che da Shackleton Bailey24 (oltre che da Sweeney nell’edizione degli scolii, contro semina della tradizione25) e recupera un raro termine lucreziano, sinonimo di momentum (Lucr. II 1169): la traduzione dovrebbe essere qualcosa come “i moti nascosti del mondo”. Nemina invece indicherebbe “le trame segrete del mondo” e i fili sarebbero quelli delle Parche, come si evince dai paralleli citati a supporto della congettura, Theb. III 556 e 642 (invero un po’ deboli). Entrambe le soluzioni mi sembrano più dotte e ingegnose che plausibili, ma meritano senz’altro di essere menzionate. La questione rimane ovviamente aperta, ma, in mancanza di soluzioni decisive, ritengo che si debba leggere semina rerum con Hall.

Che queste parole di Capaneo vogliano mettere in atto una storpiatura del pensiero epicureo è già stato notato e analizzato26, ma la mia impressione è che si possa andare oltre in questa interpretazione, individuando un precedente più preciso e più a fuoco, e ipotizzando cioè che tra i modelli dell’eroe argivo si celi proprio l’Epicuro di Lucrezio. Entrambi i personaggi sono rappresentati con tratti superomistici, quasi titanici. In particolare, il proemio del primo libro del De rerum natura lucreziano offre un memorabile ritratto di Epicuro eroico e sublime (Lucr. I 62-73):

Humana ante oculos foede cum vita iaceret

in terris oppressa gravi sub religione,

quae caput a caeli regionibus ostendebat

horribili super aspectu mortalibus instans,
65
primum Graius homo mortalis tollere contra

est oculos ausus primusque obsistere contra;

quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti

murmure compressit caelum, sed eo magis acrem

inritat animi virtutem, effringere ut arta
70
naturae primus portarum claustra cupiret.

Ergo vivida vis animi pervicit et extra

processit longe flammantia moenia mundi


Epicuro, campione dell’umanità oppressa dalla religio, lancia la sua sfida al cielo, senza alcun timore delle leggende sugli dèi, dei loro fulmini e del brontolio del tuono. La costruzione di questa scena secondo un paradigma epico-eroico è stata già messa in evidenza da Gian Biagio Conte27, il quale ha poi individuato nei vv. 64-5 gli elementi di un immaginario gigantomachico28. I punti di contatto con la teomachia di Capaneo non mancano, ma prima di discuterne, diamo uno sguardo all’inizio dell’azione dell’eroe argivo in Stazio (Theb. X 837-47):

iam sordent terrena viro taedetque profundae

caedis, et exhaustis olim Graiumque suisque

missilibus lassa respexit in aethera dextra.

Ardua mox torvo metitur culmina visu, 
840
innumerosque gradus gemina latus arbore clausos

aerium sibi portat iter, longeque timendus

multifidam quercum flagranti lumine vibrat;

arma rubent una clipeoque incenditur ignis.


A colpire è il gesto dell’eroe di guardare verso il cielo (respexit in aethera) che ricorda il tollere contra oculos di Epicuro29: entrambi rivolgono il proprio sguardo verso il cielo in segno di sfida, anche se l’esito delle due vicende sarà ben diverso30. Epicuro infatti tornerà vincitore dai flammantia moenia mundi, mentre invece Capaneo dalle mura di Tebe verrà sbalzato giù violentemente, colpito dal fulmine divino. 

Proprio la folgore è un altro degli elementi che possono mettere in correlazione i due passi: nel proemio lucreziano si dice che né i fulmini né i tuoni spaventano Epicuro, così come in Stazio Capaneo procede imperterrito nonostante sopra di lui si stiano radunando le nubi e comincino a intravedersi le prime scariche atmosferiche (X 921-4 coeperat Ogygiae supra fastigia turris / arcanum mugire polus caelumque tenebris / auferri: tenet ille tamen, quas non videt, arces, / fulguraque attritis quotiens micuere procellis). Anzi, l’argivo si permette anche di ironizzare sulla situazione, affermando di avere proprio bisogno di riaccendere la propria fiaccola con una degna fiamma (X 925-6 “his” ait “in Thebas, his iam decet ignibus uti, / hinc renovare faces lassamque accendere quercum”).

Anche la descrizione dell’atteggiamento di Giove e della formazione della tempesta sembra rifarsi a moduli lucreziani. Mentre tutte le altre divinità sono in preda al panico, il padre degli dèi si mantiene perlopiù imperturbabile (X 897 non tamen haec turbant pacem Iovis), limitandosi a ridere delle folli velleità di Capaneo (X 907-8 ipse furentem / risit). Giove si chiede, quasi annoiato31, perché l’umanità ambisce ancora a sfide di questo tipo dopo la sconfitta dei Giganti (si noti l’ennesimo paragone implicito tra Capaneo e esseri titanici, cfr. supra) e se dovrà punire anche questo suo avversario: Theb. X 909-10 “quaenam spes hominum tumidae post proelia Phlegrae? Tune etiam feriendus?”. Gli altri numi temono che Giove possa intervenire troppo tardi e in effetti il padre degli dèi si mantiene serafico fino alla fine, unica divinità veramente “epicurea” all’interno di questa scena. 

Lo stesso ruolo del dio nella folgorazione non sembra così attivo, come già notavano i contributi di Reitz32 e Pontiggia33: le nubi si radunano di propria spontanea volontà, senza alcun intervento diretto di Giove (Theb. X 913-5 ipsa dato nondum caelestis regia signo / sponte tonat, coeunt ipsae sine flamine nubes / accurruntque imbres)34. Il prosieguo della scena della tempesta sembra poi evocare suggestioni lucreziane35: i fulmini si formano per lo “sfregamento” delle nuvole (Theb. X 924 fulguraque attritis quotiens micuere procellis), secondo uno schema tipico di alcune descrizioni naturalistiche (cfr. ad esempio Lucr. VI 160-2; Sen. nat. I 14-15). In pratica, proprio nel momento in cui dovrebbe farsi più chiara l’efficacia della punizione divina, quello che colpisce Capaneo è invece un fulmine “naturale”, lo stesso di cui parlano i φυσικοί. 

Facciamo però un passo indietro, all’inizio della scalata di Capaneo, per analizzare un passo a mio parere molto significativo36 per l’identificazione dell’eroe argivo come “Epicuro negativo”, vale a dire Theb. X 845-7:

'hac' ait 'in Thebas, hac me iubet ardua virtus37
845
ire, Menoeceo qua lubrica sanguine turris.

experiar quid sacra iuvent, an falsus Apollo.'


Capaneo dichiara di voler salire proprio dalla torre dalla quale si è gettato Meneceo (si noti la ripetizione enfatica di hac) e sulla quale ancora si trovano le fresche tracce del sangue del giovane, un dettaglio che si ritrova solo in Stazio. Prima di procedere con le ipotesi, vale la pena riepilogare brevemente l’episodio: i Tebani spaventati consultano l’indovino Tiresia, il quale dichiara che solo il sacrificio di Meneceo, figlio di Creonte, potrà garantire la salvezza alla patria. Il giovane apprende l’esito del vaticinio e decide di togliersi la vita, ingannando il preoccupato padre prima di gettarsi dalla torre. 

Capaneo vuole tentare la scalata delle mura proprio per verificare in prima persona (experiar, cfr. Theb. III 617-8) l’efficacia degli oracoli in una sorta di quest eroico-filosofica non dissimile da quella compiuta da Epicuro, il quale si spingerà molto al di là dei confini del mondo (longe processit). Nella menzione del sacrificio di Meneceo38, istigato da un oracolo, mi sembra che si possa poi ravvisare un richiamo al celeberrimo episodio di Ifigenia, che nel primo libro del De rerum natura è immediatamente successivo all’elogio “eroico” di Epicuro. Nella sua empietà, Capaneo reinterpreta il sacrificio del giovane come l’ennesima dimostrazione della mistificazione religiosa e si impegna a smentirne di persona l’utilità. Nella disputa con Anfiarao poi si può forse riconoscere una messa in scena della polemica contro i vates39, che Lucrezio fa seguire alla narrazione dell’uccisione di Ifigenia, emblema dei mali a cui la cieca superstizione può condurre.

L’esito delle due sfide agli dèi di Capaneo e di Epicuro - come già accennato - è molto diverso, né potrebbe essere altrimenti. Anche osservato attraverso questa lente filosofeggiante, il personaggio staziano rimane sostanzialmente empio, violento, figlio di un universo epico ben diverso da quello del poema lucreziano, e non può dunque sfuggire al castigo divino. La definizione di “Epicuro negativo” che abbiamo coniato in queste pagine mira proprio a rendere conto dei tratti evidentemente deformati di Capaneo rispetto al modello.


2. Quando gli opposti si attraggono: Capaneo e Meneceo

Si è in parte già accennato al rapporto tra l’episodio dell’aristia di Capaneo e quello del suicidio di Meneceo, ma esso merita di essere approfondito perché può aiutare a inquadrare meglio il sistema dei personaggi e l’architettura della Tebaide40. Entrambi gli eroi trovano la morte nel decimo libro, chiudendo di fatto la sezione più tradizionalmente epico-eroica della Tebaide e lasciando il posto al duello “tragico” di Eteocle e Polinice nell’undicesimo libro e poi alla ricomposizione finale ad opera di Teseo nel dodicesimo. Per di più le due vicende, solitamente slegate nella tradizione, si intrecciano in maniera evidente, il che non può essere un dato casuale41

  • 589-737 oracolo di Tiresia, intervento della Virtus, dialogo tra Meneceo e il padre;
  • 738-55 Capaneo infuria sul campo di battaglia; 
  • 756-826 sacrificio di Meneceo e pianto della madre; 
  • 827-939 teomachia di Capaneo.

Quando la Virtus gli appare sotto le sembianze di Manto, Meneceo sta facendo strage di nemici davanti alle mura di Tebe (vv. 650-660). Nella narrazione epica è tipico che un eroe si copra di gloria e compia grandi imprese proprio poco prima di andare incontro alla sua fine, tuttavia l’aristìa di Meneceo e, per così dire, la sua dimensione eroica sono innovazioni rispetto alla rappresentazione tradizionale, che si concentra esclusivamente sull’episodio del suicidio. Questo elemento potrebbe contribuire ad avvicinare il personaggio di Meneceo a Capaneo. Il legame tra i due personaggi si esplicita però soprattutto nel discorso che Meneceo rivolge al padre Creonte, per rassicurarlo e nascondere i propri veri propositi:

'Falleris heu verosque metus, pater optime, nescis.

Non me ulli monitus, nec vatum exorsa furentum

sollicitant vanisque movent (sibi callidus ista

Tiresias nataeque canatnon si ipse reclusis 
725
comminus ex adytis in me insaniret Apollo.

Sed gravis unanimi casus me fratris ad urbem

sponte refert: gemit Inachia mihi saucius Haemon

cuspide; vix illum medio de pulvere belli

inter utrasque acies, iam iamque tenentibus Argis -
730
sed moror. i, refove dubium turbaeque ferenti

dic, parcant leviterque vehant; ego vulnera doctum

iungere supremique fugam revocare cruoris

Aetiona petam.' sic imperfecta locutus

effugit; illi atra mersum caligine pectus
735
confudit sensus; pietas incerta vagatur
discordantque metus, impellunt credere Parcae.


I versi 724-726 presentano una forte rassomiglianza con i due discorsi di Capaneo nel terzo libro, anzi sembrano configurarsi quasi come vere e proprie citazioni: sibi callidus ista / Tiresias nataeque canat richiama da vicino Theb. III 648-649 tuus o furor auguret uni / ista tibi; mentre non si ipse reclusis / comminus ex adytis in me insaniret Apollo riecheggia Theb. III 611-612 non si ipse cavo sub vertice Cirrhae, / quisquis is est, timidis famaeque ita visus, Apollo / mugiat insano penitus seclusus in antro. Per risultare credibile e ingannare Creonte, il virtuoso Meneceo “prende in prestito” le parole del più empio dei protagonisti, simulando una polemica contro i vates proprio nel momento in cui si accinge a farsi strumento dell’oracolo. A differenza di Capaneo, il giovane non crede davvero in quello che dice, anzi il contrasto è reso ancor più stridente dal fatto che il lettore sa che il giovane è ormai risoluto a sacrificare la propria vita. È molto interessante notare come le strategie retoriche dei due eroi divergano in maniera sensibile, a dispetto delle riprese puntali (non si ipse, Apollo in chiusura di verso, in antro ~ ex adytis, insano ~ insaniret, reclusis ~ seclusus). Nelle parole di Capaneo prevale infatti l’idea della distanza del dio, il quale fa rimbombare (mugiat) i propri oracoli “rinchiuso nelle profondità del suo folle antro”; Meneceo insiste invece sulla vicinanza di Apollo, sottolineando che non si piegherebbe al suo volere neppure se il dio in persona lo possedesse. Un’evidente iperbole che però non sortisce l’effetto sperato: il discorso del giovane eroe rimane infatti poco credibile tanto per il lettore, quanto per Creonte stesso.

A far da ponte tra le parole di Capaneo e quelle di Meneceo interviene un modello virgiliano: la visita di Enea all’oracolo di Apollo a Delo (Aen. III 84-92):

Templa dei saxo venerabar structa vetusto:

"Da propriam, Thymbraee, domum; da moenia fessis
85
et genus et mansuram urbem; serva altera Troiae

Pergama, reliquias Danaum atque immitis Achilli.

Quem sequimur? quove ire iubes? ubi ponere sedes?

Da, pater, augurium atque animis illabere nostris."

Vix ea fatus eram: tremere omnia visa repente,
90
liminaque laurusque dei totusque moveri

mons circum et mugire adytis cortina reclusis.


Enea chiede ad Apollo verso dove debbano fare vela i Troiani superstiti e dove finalmente porre le fondamenta di una nuova Troia. Nel fare ciò, l’eroe prega il dio di “scendere nel suo animo”, quasi di possederlo, una formulazione che sembra in qualche modo riecheggiare nel fiero discorso di Meneceo (non si ipse reclusis / comminus ex adytis in me insaniret Apollo). Da notare anche il ricorrere in entrambi i passi del nesso adytis reclusis, mentre il verbo mugire ricorre nella prima invettiva di Capaneo contro Anfiarao (Theb. III 613)42. Nel fingere scetticismo verso l’oracolo, Meneceo finisce per riutilizzare espressioni che in qualche modo riflettono la sua fede nella capacità degli dèi di manovrare gli esseri umani, influenzandone le scelte e le azioni. In effetti il discorso di Meneceo non riesce a convincere del tutto Creonte, che si mostra molto perplesso e incerto sul da farsi, prima che l’intervento delle Parche lo spinga a fidarsi delle parole del figlio. In definitiva ciò che persuade Creonte non è l’ostentato disinteresse per gli oracoli divini manifestato da Meneceo (e suffragato da espressioni alla maniera di Capaneo), quanto piuttosto la bugia sul ferimento dell’altro figlio, Emone. L’amore paterno spinge dunque Creonte a dirigersi verso quello che sembra il pericolo più immediato, pur presentendo che le parole di Meneceo non siano del tutto veraci.

In conclusione, entrambi i personaggi, Capaneo e Meneceo, dimostrano forme sovraumane di manifestazione del carattere, in aperto contrasto col principio apollineo del μηδὲν ἄγαν, e rappresentano due generi opposti di eccesso: il primo eccede in ὕβρις, il secondo in virtù.


3. Il (non) giudizio del poeta: Stazio e Capaneo

Nella Tebaide, come si è visto, la caratterizzazione del personaggio di Capaneo corrisponde a quella ormai consolidata di eroe empio e tracotante. A ben vedere però, Stazio non nasconde una certa ammirazione per il suo Capaneo, anzi in più punti il valore e l’eroismo dell’argivo sono messi in risalto. Si sarebbe quasi portati a credere, alla luce anche dell’ampio spazio che il poeta gli riserva rispetto ai suoi predecessori, che Stazio avesse una certa predilezione per questo personaggio.

In due occasioni il poeta fa vestire a Capaneo i panni dell’eroe vendicatore, prima del piccolo Ofelte (Theb. V 565-78) e poi di Ippomedonte (Theb. IX 546-65). Nel primo caso, il figlio di Ipsipile viene ucciso da un serpente sacro a Giove, sollevando un desiderio di vendetta tra gli Argivi. Il primo tentativo di Ippomedonte di colpire l’animale con un grosso masso fallisce, mentre l’asta di Capaneo, il cui lancio è accompagnato da parole arroganti, coglie nel segno. L’uccisione del serpente, empia a causa della sacralità dell’animale, quasi porta alla folgorazione di Capaneo (vv. 583-7), la cui punizione è però destinata a compiersi successivamente, ma il senso di pietà nei confronti del piccolo Ofelte pone l’episodio sotto una luce ambivalente.

Decisamente eroico appare invece l’episodio del libro nono, nel quale Capaneo abbatte Ipseo che si fa beffe delle spoglie di Ippomedonte. Anche in questo caso il lancio dell’asta è preceduto dalle solite affermazioni blasfeme (vv. 549-50 ades o mihi, dextera, tantum / tu praesens bellis et inevitabile numen, / te voco, te solam superum contemptor adoro), ma l’eroe è detto magnanimus (v. 547) e inoltre lo si vede intento a celebrare un funerale in miniatura per Ippomedonte, cui si promette una degna sepoltura più avanti43.

In generale, Capaneo è dipinto come un personaggio che travalica i limiti umani. Fin da subito si capisce che egli, anche nel novero dei sette grandi condottieri degli Argivi, fa gara a sé per forza, stazza e valore. Al di là della sua esagerata fisicità, l’eccezionalità del personaggio di Capaneo è chiaramente avvertita anche a livello di poetica. La sua è una guerra che trascende i limiti dell’epica e richiede un’ispirazione poetica nuova, più elevata. Stazio accenna alla straordinarietà della sua vicenda già nel proemio (Theb. I 41-45):

quem prius heroum, Clio, dabis? inmodicum irae

Tydea? laurigeri subitos an vatis hiatus?

urguet et hostilem propellens caedibus amnem

turbidus Hippomedon, plorandaque bella protervi

Arcados atque alio Capaneus horrore canendus
45


Stazio domanda alla musa Clio da dove iniziare il suo canto e elenca alcuni momenti salienti della guerra contro Tebe: la smodata ira di Tideo, la catabasi di Anfiarao, la sfida tra Ippomedonte e il fiume Ismeno. La serie è chiusa da Capaneo il cui horror è diverso (alio) da quello di tutti gli altri. È però in Theb. X 827-36 che lo scarto poetico rispetto agli altri personaggi si fa più evidente. Stazio chiede una seconda ispirazione poetica per poter cantare adeguatamente le imprese di Capaneo, anzi addirittura per innalzarne la gloria fino al cielo. Fin da subito viene messo in evidenza lo stacco tra quanto si è narrato fino a quel momento e quanto invece sta per avvenire: finora (hactenus) abbiamo cantato armi, trombe di guerra, ferro e ferite - dice Stazio - ma le gesta di Capaneo sono tutt’altra cosa. Cantare de solito more (v. 829, evidente il richiamo a alio… horrore del proemio) non è più sufficiente e Stazio, ha bisogno di un’ispirazione più grande (maior amentia) per osare, di concerto con le Muse, questo canto fuori dal comune.

Ciò che colpisce in questo passo è soprattutto l’assenza di condanna morale da parte del poeta. Il giudizio di Stazio rimane sospeso e le motivazioni dell’agire di Capaneo rimangono celate all’interno di un dubbioso elenco (Theb. X 831-6). Questo genere di espediente retorico, attraverso il quale il poeta passa in rassegna varie possibilità senza poi realmente operare una scelta, è tipico di Ovidio e risulta molto amato anche da Stazio44. La voce narrante presenta una serie di motivazioni, evidentemente ritenute plausibili in egual misura, demandando al lettore il compito di selezionarne una: forse è stato l’intervento delle Furie a ispirare il suo furor; oppure il suo valore che eccede la giusta misura; oppure è stato il desiderio di fama o l’iniziale successo che precede la caduta; o infine, le blande ire degli dèi. In ogni caso Stazio non prende esplicita posizione, né tantomeno condanna Capaneo, anzi all’inizio dell’undicesimo libro le sue azioni verranno definite degne di lode persino presso lo stesso Giove, che di esse era il bersaglio (Theb. XI 10-1 memorandaque facta relinquens / gentibus atque ipsi non inlaudata Tonanti).

Note
  • 1

    In Omero viene nominato sempre e soltanto come padre di Stenelo (cfr. ad esempio Il. II 564; IV 367; 403; V 108-9); mentre non compare mai in Pindaro, che pure dedica ampio spazio ad altre figure del ciclo tebano quali Anfiarao e Adrasto. Secondo alcune testimonianze ([Apollod.] bibl. III 121; Sext. Emp. math. I 261 e schol. Pind. Pyth. 3, 96), nell’Erifile di Stesicoro (fr. 194 Page = 92 Davies-Finglass) si faceva menzione di un dettaglio alquanto raro della vicenda mitica di Capaneo: la sua resurrezione (insieme a Licurgo) ad opera di Asclepio.

  • 2

    Aesch. sept. 423-434; fr. 17 Radt; Soph. Ant. 127-28; 134-37; OC 1318-9; Eur. suppl. 494-97; 860-71; 933-38; 980-1113 (sacrificio di Evadne); Phoen. 179-92; 1128-33; 1172-86; fr. 159 Kannicht.

  • 3

    Prop. II 34, 40; mentre la moglie Evadne è menzionata in I 15, 21; III 13, 24.

  • 4

    Ov. met. IX 404; ars III 21; Pont. III 1, 51; trist. IV 3, 63.

  • 5

    Plin. nat. XXXV 144; Servio ad Aen. I 44.

  • 6

    Poco o nulla sappiamo purtroppo del trattamento del personaggio di Capaneo nella Tebaide di Antimaco, la quale doveva certamente rientrare tra i modelli di Stazio (per un inquadramento del problema dell’influenza di Antimaco su Stazio, cfr. Vessey 1970; Venini 1972).

  • 7

    Il motivo dell’empietà di Capaneo è ben radicato nella tradizione tragica classica (cfr. Aesch. sept. 420 ss.; Eur. Phoen. 1171 ss.), ma viene ancor più esasperato da Stazio, la cui narrazione sopravviverà poi in Dante, Inferno XIV 68-70 Quei fu l’un d’i sette regi / ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia / Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi.

  • 8

    La stessa etichetta verrà rivendicata con un certo orgoglio dallo stesso Capaneo in Theb. IX 550 te (scil. la sua mano) voco, te solam superum contemptor adoro. In questa sede, non importa soffermarsi troppo sull’evidente ripresa del contemptor divum col quale Virgilio designava Mezenzio in Aen. VIII 7; sul rapporto tra i due personaggi cfr. Caiani 1990; Leigh 2006.

  • 9

    Il testo è tratto dall’edizione di Hall 2007-2008, con l’unica differenza che si è deciso di ripristinare la lezione plebeia in luogo di Phoebeia al v. 609. Phoebeia si ritrova nei mss. S, J1 e S2 (sempre ante correctionem), mentre il resto della tradizione riporta plebeia (stampato da tutti i precedenti editori). Hall probabilmente ritiene la prima una lectio difficilior, tuttavia a mio parere phoebeia pone qualche problema di interpretazione. Hall traduce “before the Phoebus-favoured doors of just one citizen”, intendendo dunque che le soglie della casa di Anfiarao siano care a (o protette da) Apollo. Tali parole però destano qualche perplessità dal momento che a pronunciarle è Capaneo, peraltro sul punto di avviare una requisitoria contro la divinità stessa e il suo sacerdote. Si potrebbe considerare l’epiteto come una nota sarcastica dell’eroe, ma tale lettura non mi sembra comunque pienamente convincente. L’aggettivo plebeius si ritrova invece spesso in Stazio per distinguere il popolo dai propri governanti (cfr. Theb. XII 738; silv. I 2, 234; 4, 66; III 4, 37; IV 6, 81 plebeia domus) e serve a rafforzare il concetto espresso da civis: Capaneo usa volontariamente un termine inappropriato per riferirsi a Anfiarao, il quale è a tutti gli effetti uno dei capi. Inoltre, definendo Anfiarao come un privato cittadino, Capaneo ne disconosce pubblicamente anche il ruolo sociale di vate e interprete del volere divino, mirando dunque a squalificarlo su due livelli, prima come condottiero e poi come sacerdote. Per queste ragioni mi sembra che la strategia retorica abbia un’efficacia maggiore se si presuppone la lezione plebeia.

  • 10

    Aesch. sept. 377-83 Τυδεὺς μὲν ἤδη πρὸς πύλαισι Προιτίσιν / βρέμει, πόρον δ' Ἰσμηνὸν οὐκ ἐᾷ περᾶν / ὁ μάντις· οὐ γὰρ σφάγια γίγνεται καλά. / Τυδεὺς δὲ μαργῶν καὶ μάχης λελιμμένος / μεσημβριναῖς κλαγγαῖσιν ὡς δράκων βοᾷ· / θείνει δ' ὀνείδει μάντιν Οἰκλείδην σοφόν, / σαίνειν μόρον τε καὶ μάχην ἀψυχίᾳ.

  • 11

    Cfr. ad esempio il motivo della fiaccola e delle minacce di incendiare la città, associati a Capaneo in Aesch. sept. 433-4; Soph. Ant. 134-5; OC 1318-9 e Stat. Theb. X 843 e 925-6; a Tideo in Eur. Phoen. 1120-2.

  • 12

    Invocare il dio con il nome corretto era ritenuto fondamentale per assicurarsene il favore; perciò, spesso si ricorreva a formule precauzionali che rendessero conto della difficoltà di carpire la vera natura della divinità e allo stesso tempo esprimessero l’atteggiamento umile del supplice. Tale aspetto rituale è espresso in Plat. Crat. 400d-e εἴπερ γε νοῦν ἔχοιμεν, ἕνα μὲν τὸν κάλλιστον τρόπον, ὅτι περὶ θεῶν οὐδὲν ἴσμεν, οὔτε περὶ αὐτῶν οὔτε περὶ τῶν ὀνομάτων, ἅττα ποτὲ ἑαυτοὺς καλοῦσιν· δῆλον γὰρ ὅτι ἐκεῖνοί γε τἀληθῆ καλοῦσι. δεύτερος δ' αὖ τρόπος ὀρθότητος, ὥσπερ ἐν ταῖς εὐχαῖς νόμος ἐστὶν ἡμῖν εὔχεσθαι, οἵτινές τε καὶ ὁπόθεν χαίρουσιν ὀνομαζόμενοι, ταῦτα καὶ ἡμᾶς αὐτοὺς καλεῖν, ὡς ἄλλο μηδὲν εἰδότας. Con un’invocazione del genere si apre ad esempio il celeberrimo “inno a Zeus” dell’Agamennone: cfr. Aesch. Ag. 160 Ζεύς, ὅστις ποτ' ἐστίν. Formulazioni simili si ritrovano anche in Euripide: cfr. Tro. 884-7 ὦ γῆς ὄχημα κἀπὶ γῆς ἔχων ἕδραν, / ὅστις ποτ' εἶ σύ, δυστόπαστος εἰδέναι, / Ζεύς, εἴτ' ἀνάγκη φύσεος εἴτε νοῦς βροτῶν, / προσηυξάμην σε; HF 1263 Ζεὺς δ', ὅστις ὁ Ζεύς e fr. 480 Ζεὺς ὅστις ὁ Ζεύς, οὐ γὰρ οἶδα πλὴν λόγῳ. Nelle intenzioni di Capaneo l’uso di questa formula mira a ottenere l’effetto opposto: non più un’umile ammissione di incapacità, né tantomeno una perifrasi di cortesia, bensì un’arrogante affermazione di tracotanza e incredulità.

  • 13

    Anche in questo caso è evidente il ricordo del Mezenzio virgiliano: Aen. X 773 dextra mihi deus et telum, quod missile libro. Capaneo pronuncerà altre due simili affermazioni blasfeme: Theb. IX 548-5 ades o mihi, dextera, tantum / tu praesens bellis et inevitabile numen, / te voco, te solam superum contemptor adoro; X 485-6 sunt et mihi provida dextrae / omina et horrendi stricto mucrone furores. Il motivo dell’onorare la propria destra e la propria arma, in spregio alle divinità canoniche, era già proprio di Partenopeo in Eschilo (Aesch. sept. 529-30) e di Ida in Apollonio Rodio (I 466-8), all’interno di una scena che funge da modello a Stazio (cfr. Fucecchi 2007; Stover 2009).

  • 14

    Il testo è sempre quello dell’edizione di Hall; le brevi notazioni sotto forma d’apparato sono mie. I sigla dei codici sono desunti dalla succitata edizione, con l’eccezione del recupero di ω (consensus omnium codicum praeter P et eos qui separatim laudantur) e Σ (in luogo di Schol. di Hall) per indicare il testo degli scolii attribuiti a Lattanzio Placido. Al v. 658, dove il testo degli scolii stampato nell’edizione di Sweeney 1997 è congetturale, ho preferito distinguere per dare un’idea più chiara della lezione dei codici: Σ indica dunque il testo tràdito, mentre Sweeney il testo stampato dall’editore.

  • 15

    Sempre nel terzo libro, nel dialogo tra Venere e Marte (Theb. III 260-323, in particolare 295-9), sono molto evidenti i ricordi del proemio del De rerum natura lucreziano. Tali reminiscenze probabilmente concorrono a inquadrare la scena della disputa tra Capaneo e Anfiarao all’interno di una cornice epicureo-lucreziana o quantomeno supportano l’ipotesi di uno stretto legame allusivo tra la Tebaide e il primo libro del poema di Lucrezio.

  • 16

    L’emistichio ricorre identico in Petron. fr. 28, 1. Sui problemi legati alla paternità petroniana del frammento e sul suo rapporto col passo di Stazio si veda il recente contributo di Zago 2021, nel quale vengono anche presentati nuovi argomenti a favore della datazione in età neroniana dei Satyrica.

  • 17

    Klotz 1908.

  • 18

    Mozley 1928.

  • 19

    Snijder 1968, p. 250.

  • 20

    Hill 1996.

  • 21

    Håkanson 1973.

  • 22

    Alton 1923.

  • 23

    Garrod 1906.

  • 24

    Shackleton Bailey 2003.

  • 25

    Sweeney 1997, p. 231.

  • 26

    Reitz 2017, ma cenni anche in Snijder 1968, pp. 250-251.

  • 27

    Conte 1966, p. 356, nota 43. Per la rappresentazione sublime di Capaneo, cfr. Leigh 2006; Lagière 2017.

  • 28

    Conte 1990, p. 9, nota 3. Capaneo dal canto suo è spesso paragonato a un gigante in Theb. VIII 75-77; X 849-852; XI 7-8; 12-17; a centauri e ciclopi in III 604-605. Per il paragone con titani e giganti, cfr. Fucecchi 2013.

  • 29

    L’analogia era già stata notata en passant da Chauduri 2014, p. 290; mentre non se ne trova esplicita menzione nel fondamentale lavoro di Lovatt 2013, pp. 108-111, che pure mette in relazione la teomachia di Capaneo e il De rerum natura.

  • 30

    Taisne 1999, p. 173, propone un cursorio raffronto tra i due episodi (senza però analizzare e discutere i testi), nel quale fa di Epicuro un «Capanée d’un nouveau genre», quasi un vendicatore dell’eroe argivo, e ipotizza dunque – se ben capisco – che Lucrezio abbia modellato il ritratto eroico del suo Epicuro, avendo in mente la vicenda di Capaneo. Tale ipotesi mi sembra però un po’ debole e, soprattutto, ricostruibile soltanto a posteriori, alla luce del trattamento del personaggio di Capaneo nella Tebaide di Stazio. Inoltre mi pare che si non tenga in debito conto il senso e l’originalità dell’operazione letteraria del poeta flavio.

  • 31

    Cfr. Theb. I 26-8 taedet saevire corusco / fulmine, iam pridem Cyclopum operosa fatiscunt / bracchia et Aeoliis desunt incudibus ignes, nel quale si descrive un Giove stanco di punire l’umanità. Questa caratterizzazione strizza l’occhio al Giove vendicativo e molto attivo delle Metamorfosi di Ovidio.

  • 32

    Reitz 2017, pp. 323-330.

  • 33

    Pontiggia 2018.

  • 34

    Al contrario nel bosco di Nemea, Giove aveva chiesto personalmente i fulmini per colpire Capaneo, reo di aver ucciso il serpente a lui consacrato (Theb. V 583-4 ipse etiam e summa iam tela poposcerat aethra / Iuppiter), e solo dopo le nubi si erano radunate (Theb. V 584 et dudum nimbique hiemesque coibant). Si può ipotizzare che l’azione spontanea delle nuvole sia dovuta proprio al ricordo della quasi folgorazione del quinto libro (esse anticiperebbero dunque il volere di Giove), ma si può anche pensare che esse si muovano senza espliciti ordini perché, come gli altri dèi, temono che il segnale possa giungere troppo tardi.

  • 35

    Per una disamina accurata di questa scena e del rapporto tra la folgore del Giove staziano rispetto a quello ovidiano, cfr. il già citato Pontiggia 2018, pp. 167-176.

  • 36

    Solo Chaudhuri 2014, pp. 284-285, lo cita, ma per evidenziare l’eco dell’episodio ovidiano di Licaone attraverso l’uso di experiar e mettere dunque in relazione l’empia incredulità dei due personaggi: cfr. Ov. met. I 220-3 Signa dedi venisse deum, vulgusque precari / coeperat: inridet primo pia vota Lycaon, / mox ait “experiar, deus hic, discrimine aperto, / an sit mortalis; nec erit dubitabile verum”.

  • 37

    L’attributo ardua usato da Capaneo per descrivere la propria stessa virtus mi sembra possa nascondere un richiamo al furor arduus che Stazio attribuisce al “dotto Lucrezio” in Silv. II 7, 76 (docti furor arduus Lucreti).

  • 38

    Da notare anche la suggestiva omonimia tra il figlio di Creonte e Meneceo, destinatario di una delle lettere di Epicuro. Non è da escludere che, nel proprio raffinato gioco letterario, Stazio potesse invitare il lettore a sorridere dell’allusione.

  • 39

    Lucr. I 102-9 Tutemet a nobis iam quovis tempore vatum / terriloquis victus dictis desciscere quaeres. / quippe etenim quam multa tibi iam fingere possunt / somnia, quae vitae rationes vertere possint / fortunasque tuas omnis turbare timore! / et merito; nam si certam finem esse viderent / aerumnarum homines, aliqua ratione valerent / religionibus atque minis obsistere vatum.

  • 40

    Un’analisi del suicidio di Meneceo si trova in Heinrich 1999, il quale però si concentra per lo più sul ruolo dell’episodio all’interno della struttura e del ‘sistema di valori’ della Tebaide. In quest’ottica viene fatto qualche rapido cenno al confronto con Capaneo: nel presente lavoro, tuttavia, sono presi in esame passi differenti, così come diversa è l’impostazione del discorso.

  • 41

    Nelle Fenicie di Euripide, il suicidio del giovane sembra precedere lo scontro armato tra le due fazioni, cfr. Eur. Phoen. 986-1018.

  • 42

    Sulle parole di Capaneo probabilmente agisce anche la memoria di un’altra celeberrima scena oracolare, quella della Sibilla: Verg. Aen. VI 99 horrendas canit ambages antroque remugit.

  • 43

    Theb. IX 562-5 “accipe” ait “simul hostiles, dux magne, tuasque / exuvias, veniet cineri decus et suus ordo / manibus; interea iustos dum reddimus ignes, / hoc ultor Capaneus operit tua membra sepulcro”.

  • 44

     Cfr. ad esempio Theb. I 324-8; 717-20; III 482-9; VII 809-16; XII 420-3.

Bibliografia
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  • Vessey 1970 = D.W.T. Vessey, Statius and Antimachus: a Review of Evidence, «Philologus» 114, 1970, pp. 118-143.

  • Zago 2021 = G. Zago, Appunti petroniani. Testo, fonti, datazione, fortuna, «MD» 87, 2021, pp. 281-298.

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Informazioni
Cita come: Lorenzo Colle, Capaneo nella Tebaide di Stazio: appunti per un’analisi del personaggio in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 2 (2023), pp. 10-27. 10.35948/DILEF/2023.4317