Abstract
Indagine delle fonti classiche e volgari della lettera di Machiavelli a Vettori del 10 dicembre 1513, tra modelli umanistici, cultura municipale e mentalità borghese.
Study of the classical and vernacular sources of Machiavelli’s letter to Vettori of 10 December 1513, between humanistic models, municipal culture and bourgeois mentality.
Parole chiave
Keywords
cum antiquis loquitur qui legit,et cum posteris qui scribit.(Petrarca, De remediis, II, 97)
Non è davvero il caso di ripetere ancora che la descrizione della giornata-tipo dell’ex Segretario a Sant’Andrea in Percussina compresa nella sua lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 capovolge ironicamente e polemicamente, punto per punto, quella della giornata romana dell’amico ambasciatore (contenuta nella sua epistola a Machiavelli del precedente 23 novembre), e che dietro questo gioco delle parti si intravedono i remoti precedenti oraziani della satira I, 6 e dell’epistola I, 141. Mette conto invece insistere, forse, sul fatto che Machiavelli vi attua una sistematica confutazione dell’idillica e pacifica rappresentazione della vita campestre condotta sia da Orazio e Tibullo, sia da Petrarca e Boccaccio (in quell’epistola consolatoria a Pino de’ Rossi che è una tra le “fonti” principali dell’epistola al Vettori)2: confutazione che prende di mira i due topoi della serena vita di campagna e della libera e lieta povertà, l’una e l’altra tradizionalmente considerate quali salutari antidoti all’innaturale esistenza, alle fatiche e ai fastidi che affliggono i “cittadini”, e tra questi, in particolare, gli “indaffarati”, coloro cioè che sono dediti alle professioni e alla politica.
La campagna di Niccolò è tutt’altro: è l’esilio del perseguitato, l’inazione dell’escluso, lo sconforto e l’abiezione dell’emarginato. Non offre riposo né consolazione: i rapporti con i rozzi abitatori del luogo (i taglialegna, i mugnai, beccai e fornaciai frequentatori dell’osteria) sono umanamente insoddisfacenti, le uniche attività praticabili sono vili e volgari (la caccia ai tordi, il gioco all’osteria) o frustranti (il commercio della legna, perché persino gli amici cui la vende cercano di imbrogliarlo, e ne nascono litigi e risse). Il contesto è degradato e degradante sotto tutti gli aspetti; poveri la dimora e il cibo; della famiglia non si parla mai, salvo un fugace accenno al momento del pranzo («viene in questo mentre l’ora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta»). È l’autoritratto di un esule o di un confinato3: come se non fosse in casa sua, come se non avesse attorno a sé moglie e figli, come se fosse Dante o Ovidio4.
Restano le sole consolazioni del colloquio con i libri e della scrittura, cui sono dedicate righe celebri, tra le più celebri e le più frequentate – anche a livello scolastico, almeno in passato – di tutta la nostra letteratura, non solo epistolare:
Venuta la sera, mi ritorno in casa e entro nel mio scrittoio, e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli delle ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono, e non sento per 4 ore di tempo alcuna noia5, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
Anche qui è necessario tenere di fronte la lettera del Vettori, dove pure questo momento trova spazio, e parimenti alla fine della giornata:
Dopo mangiare giucherei, se avessi con chi, ma non avendo, passeggio pella chiesa e per l’orto; poi cavalco un pochetto fuori di Roma, quando sono belli tempi; a notte torno in casa. E ho ordinato d’avere istorie assai, massime de’ Romani, come dire Livio con lo epitoma di Lucio Floro, Sallustio, Plutarco, Appiano Alessandrino, Cornelio Tacito, Svetonio, Lampridio e Sparziano e quelli altri che scrivono delli imperatori, Erodiano, Ammiano Marcellino e Procopio, e con essi mi passo tempo; e considero che imperatori ha sopportati questa misera Roma che già fece tremare il mondo, e che non è suta maraviglia abbi ancora tollerati dua pontefici6 della qualità sono suti e’ passati.
Niente, qui, della sacralità con cui Machiavelli ammanta la descrizione delle sue ore serali di studio: l’ambasciatore, che a Roma conduce la vita annoiata ed elegante di chi svolge un incarico prestigioso e ben remunerato, ma di scarso rilievo e quasi di pura rappresentanza, ostenta con qualche snobismo la ricchezza della sua biblioteca (mentre Niccolò, si badi, non menziona alcun autore) e il proprio amore per la lettura7: ma la lettura è per lui solo un passatempo, al pari del gioco o delle passeggiate a cavallo (tanto che Vettori, dopo cena, ai libri preferirebbe il gioco delle carte, se avesse con chi giocare), e dà spunto solo a generiche considerazioni moralistiche sulla corruzione e la decadenza di Roma, con il banale parallelismo tra gli imperatori antichi e i papi moderni.
Era inevitabile che presso i moderni la scena dello «scrittoio» aprisse le cateratte della retorica “umanistica”, e dall’altro innescasse anacronistiche letture “retoriche” o psico-sociologiche. Le risonanze classiche che vi si colgono – legate in particolare alla presentazione di sé stesso come un moderno Cincinnato8 – sono state proiettate dagli interpreti soprattutto sul motivo del dialogo con i libri, anche se non è stato forse osservato come Machiavelli affermi di intrattenere colloquio non, propriamente, con gli scrittori, ma con i grandi uomini di cui essi narrano: gli «antiqui uomini» sono infatti con tutta evidenza politici, sovrani, condottieri, cittadini illustri dell’antichità (altrimenti non potrebbe «domandarli delle ragione delle loro azioni»), e i libri che Machiavelli legge sono dunque – come quelli prediletti dall’amico Vettori – libri di storia e biografie9. Cosa naturale, del resto, per chi ha dichiarato che al fondamento dei propri scritti politici sta, accanto a una «lunga esperienza delle cose moderne», una «continua lezione delle antiche»10.
In ogni modo, il topos del dialogo con i libri e con i loro autori, se può vantare illustri precedenti antichi (in Seneca) e umanistici (nel Petrarca, nell’Alberti, in Poggio Bracciolini), era diffuso anche nella letteratura volgare trecentesca (in Boccaccio, quello del Trattatello in laude di Dante e ancora quello dell’epistola a Pino de’ Rossi) e quattrocentesca (negli albertiani Theogenius e De iciarchia), e compare inoltre in testi non letterari quali le prediche di san Bernardino e i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli11. Un catalogo, questo, che potrebbe essere facilmente integrato12: ad esempio, con la parte finale del De commodis litterarum atque incommodis (dove i libri prendono la parola e si rivolgono al giovane letterato per esortarlo a perseverare negli studi e per rivendicare il proprio decisivo contributo al conseguimento della sapienza e della virtù)13 e con la lettera di dedica della prima redazione dell’ ‘intercenale’ Uxoria (in cui l’autore, ritiratosi a vivere in campagna e in solitudine, afferma come a dire il vero quella «non sia da considerare neppure una solitudine», avendo egli con sé «ogni giorno con chi conversare assai piacevolmente di cose varie e diverse», cioè i suoi libri)14; e soprattutto, uscendo dai confini di Firenze, con il capitolo ternario Chi semina fatiche e vòl quiete di Niccolò da Correggio, dove il colloquio con i libri è parte essenziale della vita sobria e ritirata di colui che ha deciso di abbandonare la corte, con i suoi intrighi e le sue falsità:
D’ogni passato affecto io mi son privo,
e qui in dolce ocio stommi, e lego e trovo
quel che m’insegna ciò che qui ti scrivo.
Parlo con morti, e a lor dubio non movo
che non mi solvano, e col lor iudicio
questa mia nova vita ognor più aprovo15.
Il dialogo con i libri sembra dunque caratterizzare in modo particolare due tipologie di testi (spesso, peraltro, sovrapponibili e coincidenti), come, da una parte, quelli in lode della vita solitaria e campestre, e dall’altra le consolatorie e le auto-consolatorie: tipologie nelle quali rientra la gran parte degli scritti finora citati16. Tra gli scritti consolatori e auto-consolatori che fanno proprio il topos merita di essere ricordata anche la Consolatio ad Polybium di Seneca (VIII):
Monstrabo etiamnunc non quidem firmius remedium sed familiarius. Si quando te domum receperis, tunc erit tibi metuenda tristitia: nam quam diu numen tuum intueberis, nullum illa ad te inveniet accessum, omnia in te Caesar tenebit; cum ab illo discesseris, tunc velut occasione data insidiabitur solitudini tuae dolor et requiescenti animo tuo paulatim inrepet. Itaque non est quod ullum tempus vacare patiaris a studiis: tunc tibi litterae tuae tam diu ac tam fideliter amatae gratiam referrant, tunc te illae antistitem et cultorem suum vindicent, tunc Homerus et Vergilius tam bene de humano genere meriti, quam tu et de illis et de omnibus meruisti, quos pluribus notos esse voluisti quam scripserant, multum tecum morentur: tutum id erit omne tempus, quod illis tuendum commiseris17.
Immediatamente dopo, Seneca suggerisce a Polibio, per alleviare il dolore causatogli dalla morte di un fratello, di far seguire alle conversazioni con i libri la composizione letteraria, secondo la medesima trafila che caratterizza la lettera machiavelliana («E perché Dante dice che "non fa scienza, sanza lo ritener, lo avere inteso" [Par., V, 41-42], io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opusculo De principatibus»):
Tunc Caesaris tui opera, ut per omnia saecula domestico narrentur praeconio, quantum potes, compone: nam ipse tibi optime formandi condendique res gestas et materiam dabit et exemplum. Non audeo te eo usque producere, ut fabellas quoque et Aesopeos logos, intemptatum Romanis ingeniis opus, solita tibi venustate connectas. Difficile est quidem, ut ad haec hilariora studia tam vehementer perculsus animus tam cito possit accedere: hoc tamen argumentum habeto iam conroborati eius et redditi sibi, si poterit a severioribus scriptis ad haec solutiora procedere18.
Più nello specifico, dunque, il dialogo con i libri e con i loro autori sembra motivo ricorrente della letteratura consolatoria e auto-consolatoria dell’esilio (testi siffatti sono l’epistola di Boccaccio, che mentre consola l’amico consola sé stesso, auto-confinatosi a Certaldo dopo il fallito colpo di stato fiorentino del 1° gennaio 1361, nel quale erano stati coinvolti uomini a lui vicini19; e la consolatio di Seneca, che quando intorno al 44 d.C. scrive a Polibio, liberto dell’imperatore, si trova in esilio in Corsica); categoria nella quale rientra a pieno titolo anche l’epistola dell’ex Segretario al Vettori, benché si tratti certo di una auto-consolatoria sui generis, che si rivela come tale solo quando fa posto alla grande scena dello scrittoio. Ma il colloquio con i libri è al tempo stesso un topos “mercantile”. Già Pasquini e Bec citavano i Ricordi del Morelli (1371-1444), che al figlio dà questo ammonimento:
E di poi hai apparato, fa che ogni in dì, un’ora il meno, tu istudi Vergilio, Boezio, Senaca o altri autori, come si legge in iscuola. Di questo ti seguirà gran virtù nel tuo intelletto: conoscerai, ispeculando gli ammaestramenti degli autori, quello hai a seguire nella presente vita e sì in salute dell’anima e sì in utilità e onore del corpo. […] La scienza fia quella che ti farà venire a’ sommi e onorati gradi: la virtù e ’l senno tuo vi ti tirerà, o vogli tu o non. Tu arai in tua libertà tutti i valentri uomini: tu potrai istarti nel tuo istudio con Vergilio quel tempo che ti piacerà, e non ti dirà mai di no e ti risponderà di ciò lo domanderai, e ti consiglierà e ’nsegnerà senza prezzo niuno di denari o d’altro, e ti trarrà maninconia e pensiero del capo e daratti piacere e consolazione. Tu ti potrai istare con Boezio, con Dante e cogli altri poeti, con Tulio che t’insegnerà parlare perfettamente, con Aristotile che ti insegnerà filosofia: conoscerai la ragione delle cose, e, se non e in tutto, ogni piccola parte ti darà sommo piacere20.
Al Morelli possiamo accostare un altro mercante fiorentino, Luigi Peruzzi (1410-1484), che, esule in Francia, scrive «nella vecchiezza» all’amico e collega Gentile de’ Bardi, a sua volta esule a Rodi, un’epistola poi inclusa (senza data) nel suo Libro, verso l’inizio della quale si legge:
Tre parti cotidiane mi sono state e sono davanti agl’occhi de la mente. La prima raquardativa quanto alla consolatione de l’anima, degl’ordinati ufici e ministration del culto divino. […] La seconda mi raquarda alla dilectatione e sanità del corpo, de’ diporti e spassi, delle splendide e bellissime magioni, dilecto e strenuo et bene coltivato paese. […] La terza è percossa dal mio assetato e debole intelecto, bramoso di pascersi de’ gloriosi facti antichi e moderni, de’ quali la nostra pulitica e novella monarchia, in ogni facultà gentile, da la natura e dall’arte è dotata e piena, e d’inumerabili libri latini e vulgari è copiosa e piena, maxime vulgari, co’ quali solo mi parlo, non passando più avanti. Questo utimo contento non mi sare’ meno a grado di tutti gli altri, per lo piacere, oltre al fructo, sugato n’arei21.
Il Bardi aveva chiesto all’amico lontano notizie della sua vita: e la lettera di risposta del Peruzzi a lui è, nuovamente, insieme consolatoria, auto-consolatoria (anche il Peruzzi, autodidatta ma uomo di non spregevole cultura letteraria volgare, appassionato e profondo conoscitore di Dante e di Petrarca, ha qui ben presente l’epistola boccacciana a Pino de’ Rossi) e auto-apologetica, e, pur nella ovvia diversità dei personaggi e delle situazioni, mostra non poche e non banali analogie con l’epistola di Machiavelli a Vettori del 10 dicembre 1513. Anche il Peruzzi, nelle prime pagine del suo Libro, stringe insieme i due momenti della lettura e della scrittura, affermando di aver deciso di allestire, per mettere a frutto ciò che ha imparato dai libri, una raccolta di proverbi:
Et quello che più m’agrieva, non m’essere trovato ad abitare in luogo agia potuto notitia avere de’ nostri libri vulgari, che se nel mio bello ovile o in quelle regioni io abitato fussi, come quelle abundante ne sono, tanto arei rivolto e lecto qualche sugo sugato arei del nostro bene e virtuoso vivere. Tucta volta in quel poco n’ò visto e dal mio debole ingegno da mme compreso, ò ritracto e ricolte alchune doctrine e sententie decte e confermate da huomini famosi e sani, utili e necessarie al nostro vivere temperato e modesto. […] Pertanto ò avisato una parte del mio dire porre in stile di proverbi […]22.
Il richiamo a questi precedenti è meno “esterno” di quanto possa sembrare. Nel discutere dell’“umanesimo” di Machiavelli, nell’attribuire con enfasi una tonalità e un’impostazione schiettamente “umanistiche” al suo colloquio serale con i libri, si è trascurato di osservare come la giornata di Niccolò non presenti realmente i connotati della giornata di un letterato e di uno studioso. Essa infatti, a differenza di quanto accade nei precedenti umanistici di descrizione della propria giornata, come, ad esempio, quelli di Petrarca, Ermolao Barbaro, Poliziano e Bartolomeo Fonzio23, non verte interamente sullo studio (alternato tutt’al più a qualche momento di svago e di ricreazione fisica): allo studio, pur avendo moltissimo tempo a disposizione, l’ex Segretario dedica solo quattro ore, e solo alla fine del giorno, spendendone il resto nelle più diverse attività. La giornata di Machiavelli non è quella di chi si è votato con tutto sé stesso all’otium letterario, ma somiglia piuttosto a quella di chi è dedito alla vita attiva, come il mercante o il politico o l’uomo impegnato nell’amministrazione pubblica, che sta fuori casa tutto il giorno a sbrigare le sue faccende e poi, a sera, si ritira nel suo scrittoio24. Come nella Clizia faceva Nicomaco – secondo quanto racconta, preoccupata, la moglie Sofronia – prima del suo innamoramento senile, che ha sconvolto le sue consuete e ordinate abitudini di vita:
Chi conobbe Nicomaco uno anno fa et lo pratica hora, ne debbe restare maravigliato, considerando la gran mutatione che gl’ha fatta, perch’e’ soleva essere uno huomo grave, resoluto, respettivo, dispensava il tempo suo honorevolmente: e’ si levava la mattina di buonhora, udiva la sua messa, provedeva al vitto del giorno; di poi, s’egli haveva faccenda in piaza, in mercato o a’ magistrati, e’ le faceva; quanto che no, o e’ si riduceva con qualche cittadini tra ragionamenti honorevoli, o e’ si ritirava in casa nello scrittoio, dove raguagliava suo scritture, riordinava suoi conti; di poi piacevolmente con la sua brigata desinava; et, desinato, ragionava con il figliuolo, admunivalo, davagli ad conoscere gl’huomini, et con qualche exemplo antico et moderno gl’insegnava vivere. Andava di poi fuora, consumava tutto il giorno o in faccende o in diporti gravi et onesti. Venuta la sera, sempre l’Avemaria lo trovava in casa; stavasi un poco con esso noi al fuoco, s’e’ gli era di verno; di poi se n’entrava nello scrittoio ad rivedere le faccende sue; alle tre hore si cenava allegramente. Questo ordine della sua vita era uno exemplo ad tutti gli altri di casa, et ciascuno si vergognava non lo imitare. Et così andavano le cose ordinate et liete. Ma di poi che gli entrò questa fantasia di costei, le faccende sue si stracurano; e poderi si guastano; e trafichi rovinano. [atto II, scena IV]25
Le soste nello scrittoio (una o al massimo due nell’arco della giornata) cadevano dunque nei momenti di pausa dal lavoro e dai traffici: prima del pranzo – ma solo se Nicomaco non aveva faccende – e, regolarmente, tra l’Avemaria e la cena: che è anche il momento dello studio machiavelliano, certamente non notturno (dato il freddo del periodo invernale, e in considerazione della sua sveglia all’alba), ma precedente appunto la cena. Niccolò rientra a casa «venuta la sera», cioè, essendo di dicembre, presumibilmente intorno alle 16.30 – che in quel periodo dell’anno è l’ora del tramonto – e si trattiene nello scrittoio fino circa alle 20.30; la famiglia di Nicomaco cena «alla tre ore», cioè all’ora terza dopo il tramonto, vale a dire – in inverno – intorno alle 19.30. Della cena, in effetti, nella lettera al Vettori non si fa parola, mentre si parla del desinare. Secondo Filippo Grazzini, si tratterebbe di un’omissione voluta, in quanto, a sera, l’idea del cibo materiale viene sostituita e per così dire riassorbita da quella del cibo spirituale «che solum è mio»26; l’ipotesi è suggestiva, e non escludo che colga nel segno, ma è anche possibile semplicemente che, attardandosi Machiavelli nello scrittoio, immerso nei suoi libri, la «brigata» cenasse prima e senza di lui (in campagna, d’inverno, a quell’epoca e fino ai giorni nostri ci si metteva a tavola certamente prima delle 20.30).
Comunque sia di questo, qui interessa il fatto che la giornata di Machiavelli a Sant’Andrea riproduca nella sostanza e nei ritmi, ma in forma dimessa e degradata (come si addice alla situazione e allo stato d’animo di Niccolò «in villa»), quella che doveva essere stata a Firenze, fino ai primi di novembre dell’anno precedente, la sua giornata-tipo di cancelliere e di uomo di fiducia del gonfaloniere Piero Soderini: la giornata di un uomo fatto per i negotia, che sta tutto il giorno in ufficio27, o la giornata del legato e dell’oratore, che quando si trova in missione dedica molto del suo tempo a parlare con le persone del luogo o con i colleghi di altri stati, per ricavarne notizie e informazioni utili, proprio come Machiavelli fa a Sant’Andrea con i passanti e i viaggiatori (gli unici che, lettere degli amici a parte, possano tenerlo aggiornato su quel che accade in Italia e nel mondo). Abitudine, quest’ultima, contratta e consolidata durante le missioni diplomatiche, come emerge dai suoi dispacci; e nella cosiddetta Istruzione a Raffaello Girolami che andava ambasciatore in Spagna (autunno 1522), Niccolò raccomanda all’amico che, «perché sono sempre nelle corti di varie ragione faccendieri che stanno desti per intendere le cose che vanno attorno, è molto a proposito farsi amico di tutti per potere da ciascuno di loro intendere delle cose»28.
Il dibattito e le polemiche su Machiavelli “umanista” o “non umanista” ormai hanno ben poco senso: anche un testo come la lettera del 10 dicembre 1513 rivela nella formazione, nella cultura e nella stessa forma mentis dell’ex Segretario la compresenza inscindibile delle due anime. Niccolò comincia la giornata leggendo per diletto poeti come Ovidio e Tibullo, Dante (le rime o la Vita nuova, presumibilmente)29 e Petrarca; la conclude studiando gli storici antichi e servendosi di quelle letture per comporre un’opera in volgare sui principati. Anche il colloquio con i libri e la scrittura conservano – nei tempi, nei modi, nei fini – un forte legame con la sua vita precedente e con la politica attiva, perché quest’ultima, e non la letteratura, è il primo e vero orizzonte di Machiavelli ed è lo scopo a cui tende ogni suo sforzo, quello in vista del quale ha deciso (per soddisfare una prepotente “passione” e insieme per conseguire un suo immediato obiettivo personale) di por mano al Principe30. Come – per riprendere il titolo di un vecchio saggio di Gennaro Sasso – nel trattatello convivono in maniera inestricabile, e senza che si possa stabilire la precedenza di uno dei due momenti, “filosofia” e “scopo pratico”, così cultura classica e cultura volgare, approccio umanistico e mentalità borghese-municipale si sovrappongono fino a confondersi nelle righe della celebre epistola del 10 dicembre 1513.
È un fatto, d’altronde, che la lettera annoveri solo citazioni di autori moderni, o meglio, per essere più esatti, di poeti volgari e fiorentini: nell’ordine, i Trionfi di Petrarca, il cantare Geta e Birria di Ghigo Brunelleschi e Domenico da Prato, la Commedia dantesca (letta con il commento di Cristoforo Landino). Se a tutto questo aggiungiamo le chiare memorie boccacciane, emergono con evidenza i fondamenti e per così dire le travi portanti della cultura machiavelliana, ossia le “tre corone” e la letteratura fiorentina del Quattrocento31: perché se il cibo che solum è suo sono gli storici antichi e le gesta degli uomini illustri greci e romani, la lunga e quotidiana familiarità fa sì che a venirgli spontanee alla memoria e sotto la penna siano le parole e ancor più i versi dei grandi e meno grandi scrittori fiorentini, come d’altronde tutto il suo carteggio dimostra. Ma anche quella letteratura volgare era umanesimo; così come filosofia era anche quella di chi, come l’Alberti e come Machiavelli, non si limitava a imparare dai libri e a conversare con i dotti, ma amava altrettanto e forse ancor più mescolarsi agli uomini “pratici” e apprendere, nelle botteghe e nelle piazze, i segreti delle loro arti32.
Note
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Vd. i cappelli introduttivi all’edizione delle due lettere da me curata in Bausi 2022, II, pp. 1053-55 e 1063-67 (edizione da cui sempre saranno citate in queste pagine le lettere di Machiavelli e di Vettori; i testi di quelle del 23 novembre e del 10 dicembre 1513 vi si trovano rispettivamente alle pp. 1055-62 e 1067-79). Rinuncio, per ovvie ragioni, a citare anche solo una parte dell’ingente bibliografia accumulatasi su queste epistole. Il tema di questo contributo è stato oggetto di due lezioni da me tenute nel 2023, l’una il 28 aprile nell’àmbito del Percorso di eccellenza del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, l’altra il 31 maggio presso il dottorato in «Storia, culture e saperi dell’Europa mediterranea dall’antichità all’età contemporanea» dell’Università della Basilicata (Potenza). Ringrazio, per gli utili suggerimenti, tutti coloro che in entrambe le circostanze intervennero nella discussione, e in particolare Luca Degl’Innocenti, Maria Pia Ellero e Michele Bandini.
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Per questo rimando ancora alla mia edizione (Bausi 2022, II, pp. 1064-65), dove anche si sottolineano, in particolare, le allusioni orazione e tibulliane reperibili nell’epistola machiavelliana.
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Mentre in realtà era stato solo colpito da un provvedimento di relegatio che gli vietava per un anno (dal novembre 1512 al novembre 1513) di uscire dallo stato fiorentino; gli era sì proibito di entrare nel Palazzo dei Signori, ma non era obbligato a risiedere fuori città (vd. Connell 2015, pp. 69-73). Tutta la prima parte della lettera, d’altronde, è caratterizzata da un’abile strategia retorica (anche la povertà nella quale Machiavelli dichiara di trovarsi non rispecchia affatto la sua reale situazione finanziaria) il cui fine è quello di prepararne il finale, con l’annuncio della composizione del Principe, il dubbio circa l’opportunità di dedicarlo a Giuliano (ed eventualmente di “mandarlo” o “portarlo”) e l’implicita richiesta all’amico di intercedere a suo favore presso i Medici.
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Con l’Ovidio dei Tristia, in particolare, i parallelismi sono evidenti e ricercati: l’ambiente inospitale, le rozze persone del luogo con le quali ogni vera comunicazione è impossibile, le lettere agli amici lontani – unico compenso all’isolamento e alla solitudine – affinché intercedano per lui presso i potenti.
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Qui nel senso di ‘sofferenza’, ‘pena’, ‘angoscia’.
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Alessandro VI e Giulio II, che a parere del Vettori furono «pontefici terribili […] avendo fatto morire cardinali, avendone incarcerati, et a quali avendo tolto la roba, e chi avendo avuto a fuggire, e chi stato in continuo sospetto»; e «tanto grandi, che più presto si potevano dire imperatori che pontefici» (Sommario della istoria d’Italia, in Niccolini 1972, pp. 148-49). Giudizio molto negativo su entrambi il Vettori pronuncia anche nel Sacco di Roma, ivi, pp. 294-95, dove del primo si dice che «chi essaminerà bene la vita di papa Alessandro, la troverrà simile a quelli imperatori romani che facevono ogni cosa per regnare», mentre il secondo è definito uomo «immerso ne’ vizi».
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Da lui dichiarato anche altrove, in particolare nella lettera a Machiavelli del 12 luglio 1513: «perché avete a pensare che la maggior faccenda che io abbi è lo starmi, perché il leggere m’è venuto in fastidio, ch’ho letto, poi ci sono, tutti e’ libri aveva un cartolaio ben grosso, che me li ha prestati a uno per volta» (in Bausi 2022, II, p. 992).
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Vd. per questo Bausi 2003, pp. 117-19.
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Il fatto che dietro questo passo sia presente la memoria dell’episodio di Cincinnato conferma come Machiavelli pensi a un dialogo con uomini d’azione, non con filosofi o letterati.
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Così nella dedica del Principe (§ 2, in Inglese 2013, p. 4); e analogamente in quella dei Discorsi: «io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo» (Bausi 2001, II, p. 789).
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Tutti autori (ad eccezione di Seneca, per il quale vd. qui poco più avanti, a testo) citati, oltre che nel classico saggio di Bec 1981, in Pasquini 1974, pp. 241-42 e 365-67, e in Cardini 2005, p. 22.
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Vd. in primo luogo i testi medievali e umanistici segnalati da Garin 1982 e Feo 1998, pp. 249-254, dove tuttavia il topos ricorre spesso in forma solo embrionale, o nella variante dei libri come “persone”.
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Regoliosi 2021, I, pp. 244-46.
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In Cardini 2022, I, p. 396.
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In Tissoni Benvenuti 1969, p. 364 (Rime, 368, vv. 130-35).
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Per la natura e la finalità auto-consolatorie del Theogenius albertiano (esplicitamente sottolineate dallo stesso autore nella lettera di dedica a Leonello d’Este) vd. Cardini 2008, pp. LI e LXVII. Così anche può dirsi per certe epistole poggiane, nelle quali l’umanista esalta il suo buen retiro di Terranuova e la piccola biblioteca che lì ha fatto costruire nella sua casa: vd. in particolare la lettera a Francesco da Lignamine del 26 ottobre 1438 (in Harth 1984, II, p. 329, segnalata da Cardini 2005, p. 22).
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‘Ti indicherò un altro rimedio, non più valido ma più alla mano. Ogni volta che tornerai a casa, allora dovrai temere la tristezza. Finché terrai lo sguardo sul tuo dio, non avrà alcun modo di raggiungerti, tutto in te sarà occupato da Cesare. Ma quando sarai lontano, allora, colta l’occasione, il dolore insidierà la tua solitudine e si infiltrerà a poco a poco nella calma del tuo cuore. Non stare perciò un minuto senza far nulla: allora i tuoi studi letterari ricambino il tuo amore così lungo e fedele, allora ti reclamino come loro cultore e sacerdote, allora Omero e Virgilio, tanto benemeriti del genere umano quanto tu lo sei di tutti e di loro, che hai voluto far conoscere a un pubblico più vasto di quello per cui avevano scritto, passino molto tempo con te: sarai al sicuro tutto il tempo che affiderai alle loro cure’ (trad. di Alfonso Traina, in Traina 1990, p. 211).
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‘Racconta allora meglio che puoi i fatti del tuo Cesare, perché tutti i secoli li ascoltino dalla voce di un suo familiare: lui stesso ti darà la materia e il modello di una grande opera storica. Non ho il coraggio di indurti a comporre con l’eleganza che ti è propria favole ed apologhi esopiani, genere mai tentato nella letteratura latina. Certo, è difficile per un animo così violentemente percosso poter così presto por mano a tali studi ridenti, ma prendilo come segno di recuperato vigore se potrà passare da opere severe a queste distensive’ (ibidem).
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Per l’epistola a Pino de’ Rossi, per le circostanze nelle quali fu composta e per le finalità anche personali che Boccaccio probabilmente le attribuiva cfr. Filosa 2014 e Filosa 2022, pp. 175-204. Il testo si legge da ultimo, a cura di Giuseppe Chiecchi, in Branca 1998, pp. 615-87.
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In Branca 1986, pp. 199-200.
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In Ferrante 2016, pp. 319-21. Il Libro, interamente scritto in esilio – Luigi Peruzzi, esiliato da Cosimo de’ Medici con tutta la sua famiglia nel 1434, non rimise mai più piede a Firenze, e trascorse il resto della sua vita tra le Marche e la Provenza, dove morì nel 1484 ad Avignone – sembra databile agli anni 1470-1475, ed è una sorta di zibaldone che alterna scritti devozionali e scritti letterari in prosa e in versi, dai quali soprattutto emerge la passione dell’autore per la poesia e in modo particolare per Dante e Petrarca.
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Ferrante 2016, pp. 225 e 227.
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Si tratta, nell’ordine, dell’epystola metrica I, 6 di Petrarca, a Giacomo Colonna; della lettera di Ermolao Barbaro a Galeazzo Pontico Faccino dell’8 luglio 1484; di un’elegia di Fonzio a Poliziano (1473); e della coeva, celebre elegia con cui quest’ultimo rispose a quella fonziana (per questi e altri testi, che appartengono allo stesso genere della lettera vettoriana del 23 novembre e di quella machiavelliana del 10 dicembre 1513, vd. Larosa 2003).
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In quest’ottica, potrebbe avere qualche significato il ricorso di Machiavelli a una metafora di origine mercantile come fare capitale, nel senso di ‘far fruttare’, ‘trarre profitto’, ‘ricavare un interesse e un guadagno’ (dal denaro investito), attestata in senso proprio fin dal Trecento (vd. TLIO, s.v., 2.1, dove la locuzione è però glossata soltanto come ‘accantonare un bene per il futuro, arricchirsi’), mentre in senso figurato il GDLI (s.v., 5) registra come primi esempi un luogo del Principe (XIV, 16: «Questi simili modi deve osservare uno principe savio: e mai ne’ tempi pacifici stare ozioso, ma con industria farne capitale»: Inglese 2013, p. 108) e uno dei Ricordi di Guicciardini (C 145: «a chi sa fare capitale del tempo e non lo consumare vanamente, avanza tempo assai»: Masi 1994, p. 111; e già nelle precedenti redazioni, A 73 e B 98: «uno ingegno capace e che sa fare capitale del tempo»). Numerosi gli esempi anche nel carteggio machiavelliano, soprattutto nelle lettere di Biagio Buonaccorsi (vd. Bausi 2022, I, pp. 498 e 505; II, p. 807) Nella lettera del 10 dicembre, la locuzione fare capitale segue la citazione dantesca relativa all’importanza di tenere a mente quanto si è appreso, e dunque l’intero passo, qui sopra citato, allude alla memorizzazione di quanto Machiavelli ha letto, seguita da una assidua meditazione e da una personale rielaborazione che sono poi sfociate nella stesura del Principe.
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In Inglese 1997, p. 135. Non sfuggano certi palesi contatti testuali di questo passo con la lettera del 10 dicembre: e’ si levava la mattina di buonhora, con la sua brigata desinava, di poi se n’entrava nello scrittoio; né di dimentichi il carattere palesemente autobiografico – fin dal nome – del personaggio di Nicomaco. Le affinità tra la giornata di Nicomaco e quella di Niccolò all’Albergaccio sono sottolineate già da Stoppelli 2017, pp. 244-45; anche se è chiaro che le «scritture» di Nicomaco non saranno scritti letterari, ma libri contabili o comunque scritture relative ai suoi affari o all’amministrazione della casa e del patrimonio.
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Così nel suo intervento in occasione della presentazione dell’edizione critica delle Lettere tenutasi presso l’Università di Roma “La Sapienza” il 7 dicembre 2022 e organizzata da Gaetano Lettieri, alla quale ha preso parte anche Giorgio Inglese. L’idea della lettura come “cibo” è già nella sopra ricordata “metrica” I, 6 di Petrarca (vv. 211-14: «Sobria turba [scil. quella dei suoi libri] coit proprio contenta suasque / que mecum partitur opes fessum ve cubili / solatur roseo et mensa dignatur egenum / atque cibis reficit sacris et nectare dulci»: Schönberger 2004, p. 80; mio il corsivo), testo al quale, però, ritengo difficile che Machiavelli potesse accedere.
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Da una lettera di Biagio Buonaccorsi a Machiavelli (che allora si trovava in missione a Imola) del 3 novembre 1502 si apprende che il neo-eletto gonfaloniere perpetuo Piero Soderini imponeva ai dipendenti della cancelleria orari “lunghi”: dopo la pausa pranzo di mezzogiorno, alla sera si lasciava il lavoro solo alle otto, se non più tardi (vd. Bausi 2022, I, p. 191).
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In Marchand 2001, p. 658 (il titolo completo del breve testo, tràdito solo da una copia cinquecentesca, è Istruzione d’uno che vada imbasciadore in qualche luogo, e risulta apposto da una mano più tarda).
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Giacché nell’epistola del 10 dicembre, a proposito della sua lettura di questi poeti, Machiavelli scrive: «leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero» (parole che male si addicono alla Commedia, come già osservò Martelli 1985-1986, pp. 308-9).
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Sotto questo aspetto, è bene ribadire, sgombrando il campo da un equivoco che ancora alligna presso vari commentatori e studiosi, che dietro la celebre espressione «voltolare un sasso» adoperata da Machiavelli nella parte finale della lettera («el desiderio arei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso») non si cela un riferimento al mito di Sisifo e alla sua rivisitazione lucreziana in chiave politica (De rer. nat., III, 995-1002, dove Sisifo è figura di chi «petere a populo fasces saevasque secures / imbibit, et semper victus tristisque recedit» [vv. 996-97: ‘si affanna per ottenere dal popolo i fasci e le scuri crudeli, ma poi sempre vinto ed afflitto si ritira’]), giacché qui l’ex Segretario semplicemente si dice disposto a svolgere anche la più umile mansione che i Medici vorranno affidargli. Né, d’altronde, mai risulta che egli abbia considerato l’attività politica e diplomatica una vana fatica di Sisifo.
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Per l’individuazione delle citazioni e in genere delle fonti dell’epistola rimando al mio commento (Bausi 2022, II, pp. 1067-79). Per il peso della tradizione culturale fiorentina e toscana nella formazione e nell’opera del Segretario vd. Bausi 1998.
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Per l’Alberti si veda la sua autobiografia (Leonis Baptistae de Albertis vita), in Chines-Severi 2012, p. 78: «Cum appulisse doctum quendam audisset, illico sese in illius familiaritatem insinuabat, et a quocumque queque ignorasset ediscebat. A fabris, ab architectis, a naviculariis, ab ipsis sutoribus et sartoribus sciscibatur, si quidnam forte rarum sua in arte et reconditum quasi peculiare servarent» (‘Quando sentiva che nelle vicinanze c’era qualche uomo dotto, subito cercava di conoscerlo, e voleva apprendere da chiunque tutto ciò che ancora ignorava. Tentava di carpire a fabbri, architetti, costruttori di navi, persino a calzolai e sarti se mai custodissero qualcosa di raro e di recondito, come di peculiare, nella loro arte’: trad. di Loredana Chines e Andrea Severi). Così lo stesso Alberti dice anche di Socrate nel terzo libro del Momus (Furlan-Martelli 2007, p. 238).
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Informazioni
Cita come: Francesco Bausi, Umanesimo e anti-umanesimo nella "giornata" di Niccolò Machiavelli in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 3 (2023), pp. 1-14. 10.35948/DILEF/2024.4347
- Data ricezione: 01/11/2023
- Data accettazione: 07/12/2023
- Data pubblicazione: 03/01/2024
- DOI: 10.35948/DILEF/2024.4347
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