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Trasformazioni della materia e moti celesti.

Qualche sondaggio attraverso il vocabolario scientifico di Dante e dei suoi commentatori

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 10/12/2021
  • Data accettazione: 21/02/2022
  • Data pubblicazione: 28/03/2022

Abstract

Abstract


Il contributo prende in esame alcuni tecnicismi propri della filosofia naturale medievale che risultano attestati in volgare per la prima volta proprio grazie al poema dantesco (come denso, esalazione ecc.). Un'attenzione particolare è dedicata anche al ruolo svolto dai più antichi esegeti della Commedia nell'introduzione e nella diffusione di tale lessico.


The essay focuses on some technicalities typical of medieval natural philosophy that are documented in the ancient italian for the first time through the Divine Comedy (such as densoesalazione etc.). Particular attention is also dedicated to the role played by the commentaries of the 14th century in the dissemination of this lexicon.


Parole chiave
Keywords

Nel Proemio al canto II del Paradiso – il celebre canto delle macchie lunari –, Iacomo della Lana, impegnato a guidare la «piccioletta barca» dei «desiderosi d’ascoltar» attraverso acque mai solcate1 e sempre più perigliose, avverte: «A la prima cosa si è da saver che a voler perfettamente intender la presente Comedia fa besogno [allo] intendetore esser instituto in molte scientie, imperçò che l’autore ne fa molte exclusioni, multi argumenti e multi exempi, prendendo per principii ta’ cose e sì diverse che cença scientia aquistada non sen porave aver perfetta cognitione»2. La materia trattata dal poeta nella terza cantica, infatti, si sta facendo via via più complessa; il moltiplicarsi dei riferimenti a problemi teologici, filosofici e scientifici, unitamente all’innalzarsi dello stile, accresce il ricorso a tessere lessicali preziose e rare, spesso costituite da elementi tecnici e altamente specializzati che richiamano concetti fondamentali della fisica, della metafisica, dell’etica. Di conseguenza, anche lo sforzo esegetico si adegua e il commentatore fa appello a tutte le sue risorse intellettive.

Non è certamente un fatto nuovo che la Commedia sia un’opera fittamente intessuta di richiami alle fonti del sapere scientifico e filosofico del tempo (tanto da indurre i primi esegeti a leggere e a illustrare l’opera come una vera e propria enciclopedia); tali richiami, com’è stato sottolineato da voci illustri della storia della filosofia – basti il nome di Bruno Nardi –, fondono filoni di pensiero appartenenti a diverse tradizioni: le dimostrazioni scientifiche aristoteliche si accostano così all’esegesi biblica, gli echi dei classici risuonano assieme a quelli delle tradizioni tardo medievali, anche di matrice popolare. Talvolta tali filoni risultano gerarchizzati, talvolta inestricabilmente sovrapposti. Ma, per dirla col poeta, non ci mettiamo in pelago e restiamo in liti ben più circoscritti.

Liti lessicologici, più precisamente: oggetto del nostro esame saranno infatti alcuni tecnicismi propri della trattatistica scientifica mediolatina che risultano attestati per la prima volta in volgare nella Commedia. In alcuni casi, si tratta di cultismi hapax della lingua di Dante che restano privi di seguito; in altri, di prestiti dal latino cui l’impiego dantesco ha dato un significativo impulso all’ingresso non soltanto nel linguaggio scientifico moderno, ma addirittura nell’uso comune. Anche gli antichi commentatori del poema dantesco svolgono un ruolo centrale per la traduzione in volgare di una certa parte del lessico tecnico-scientifico latino – un ruolo che, forse, non è stato ancora messo opportunamente in luce –: sollecitati dai riferimenti di cui sono intessute le terzine e incalzati dall’esigenza esegetica, essi talora inseriscono ampie digressioni di filosofia naturale con puntuali richiami alla Fisica o ai Meteorologica aristotelici, alle interpretazioni averroistiche o avicennizzanti trasmesse dai testi tomistici e albertini. In tal modo i commentatori offrono, di fatto, precoci attestazioni volgari di termini scientifici relativi, per esempio, ai campi della cinematica o della dinamica, all’astronomia o alle alterazioni della materia.

Soffermiamoci, dunque, su qualche caso esemplare. Tra i cultismi rari del poema spicca senz’altro l’hapax alo ‘alone’, latinismo (sul nominativo halos o sull’accusativo halo) d’origine greca3. Il termine, cui Dante ricorre nel XXVIII del Paradiso (v. 23), non vale però semplicemente ‘alone’ nel senso a noi oggi più familiare: alo rappresenta una voce marcatamente tecnica che individua un preciso fenomeno atmosferico descritto da Aristotele nel Libro III dei Meteorologica (capp. 2-3); più esattamente, esso definisce quella corona luminosa che si forma attorno al sole o alla luna per rifrazione dei raggi nel vapore atmosferico. Il ricorso al termine corona non è casuale: si tratta dell’equivalente indigeno che talvolta, nella trattatistica latina, concorre col grecismo. Così Seneca, per esempio, nelle Naturales quaestiones: «Hunc Graeci halo vocant, nos dicere coronam aptissime possumus» (ivi, I 2 1)4. L’equivalenza delle due forme è ripresa anche nel commento ai Meteorologica di Alberto Magno, il quale arricchisce la serie del corrispettivo arabo: «De circulo qui apparet circa luminaria et stellas, qui Graece halo, Arabice aleleti, Latine corona vocatur» (ivi, III 4 3)5.

Dante ricorre dunque a una voce dotata di una valenza spiccatamente tecnica, prelevata dalla trattatistica scientifica latina del tempo, e la inserisce in una complessa similitudine intesa a rappresentare l’infinita piccolezza di quel punto – immisurabile e indivisibile, come il punto matematico – che è l’immagine di Dio, e da cui s’irradia una luce di straordinaria intensità, insostenibile all’occhio umano. Per rendere la sovrannaturale potenza della radiazione divina il poeta ricorre a un altro latinismo, acume, anch’esso attestato per la prima volta nel poema6: lo sforzo stilistico richiesto dall’altezza della materia è evidentemente massimo.

un punto vidi che raggiava lume


acuto sì, ch ’l viso ch’elli affoca


chiuder conviensi per lo forte acume;


e quel stella par quinci più poca,


parrebbe luna, locata con esso


come stella con stella si colloca.


Forse cotanto quanto pare appresso


alo cigner la luce che ’l dipigne


quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,


distante intorno al punto un cerchio d’igne


si girava sì ratto, ch’avria vinto

quel moto che più tosto il mondo cigne [...]. (Paradiso XXVIII 16-27)


La ricercatezza del cultismo e la difficoltà del passo hanno dato luogo a molti fraintendimenti di cui sono testimonianza le lezioni al cigner, ad lo cigner, il cigner, recate già da codici di metà Trecento. La lezione alo è tuttavia confermata, oltre che da codici della vulgata attribuiti a rami diversi della tradizione (Ash, La, Vat), anche dai primi commentatori; già Iacomo della Lana recepisce la valenza scientifica del termine, precisandone la fonte: «quel cercolo de vapore che depinge la luxe, çoè lo sole, al tempo che l’aere è alquanto piorno [...]; et è appellà tale circulatione dal Filosofo in libro Metaurorum, alo»7. Fuori del circuito dell’esegesi, la voce dantesca resta, come già detto, priva di seguito: l’ingresso in italiano e nel linguaggio scientifico di alone, derivato da una forma latina volgare *halonem, si deve soprattutto all’uso di Galileo, il quale vi ricorrerà largamente nel Saggiatore o nel Discorso delle comete8.

Un altro esempio può essere offerto dal verbo coruscare e della sua famiglia lessicale. Secondo la dottrina aristotelica, tutte le alterazioni meteorologiche, ossia le perturbazioni atmosferiche, sono dovute a vapori: quelli umidi, risalenti dalle acque, provocano le precipitazioni; quelli secchi e densi, esalati dalla terra, invece, i venti, i terremoti, i lampi. Puntuali riferimenti a questa teoria, che si trova espressa compiutamente ancora nei Meteorologica (II 8), sono disseminati in più luoghi del poema9 e concorrono senz’altro a costruire il realismo della geografia dantesca e la potenza delle sue immagini. Due sono tuttavia i passi in cui il richiamo a tale teoria assume il rilievo di una spiegazione dottrinale; in entrambi i casi, quest’ultima scaturisce dall’esigenza di agganciare l’eccezionalità dei fenomeni fisici osservati alla solennità del messaggio teologico. Il primo passo s’incontra nel canto XXI del Purgatorio. Interrogata sulle origini dei «crolli», cioè dei terremoti, che «diè dianzi ’l monte» (vv. 34-35), l’ombra di Stazio spiega come il luogo sia in realtà immune da tutte le perturbazioni meteorologiche cui è soggetta la terra.

Libero è qui da ogne alterazione:

di quel che ’l ciel da sé in sé riceve

esser ci puote, e non d’altro, cagione.

Per che non pioggia, non grando, non neve,

non rugiada, non brina più sù cade

che la scaletta di tre gradi breve;

nuvole spesse non paion né rade,

né coruscar, né figlia di Taumante,

che di là cangia sovente contrade;

secco vapor non surge più avante

ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,

dov’ha ’l vicario di Pietro le piante.

Trema forse più giù poco o assai;

ma per vento che ’n terra si nasconda,

non so come, qua su non tremò mai. (Purgatorio XXI 43-57)


Nell’argomentazione dell’anima purgante si sovrappongono puntuali tecnicismi, come «secco vapor» o «nuvole spesse» e «rade», e perifrasi d’ispirazione mitologica, come «figlia di Taumante» per ‘arcobaleno’. Tra i tecnicismi, senza dubbio emerge il ricorso ai latinismi alterazione e coruscare: il primo è un termine chiave della filosofia naturale antica, attestato per la prima volta in volgare nella Composizione del mondo di Restoro d’Arezzo e largamente impiegato da Dante nel Convivio10; invece coruscare vale, come ben intendono i primi commentatori, «lampeggiare e saettare»11, e ricorre per la prima volta nel poema assieme all’aggettivo corusco ‘scintillante, che manda bagliori molto forti’12. Il ventaglio delle derivazioni morfologiche volgari messo in campo da Dante si accresce anche dell’astratto coruscazione13, impiegato però solo nel Convivio e con valore figurato. L’immagine evocata è di una tale vivezza che merita la citazione del passo:

E che è ridere se non una corruscazione della dilettazione dell’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro? (Convivio III 8 11)14

Il ricorso al termine coruscatio è frequente nella trattatistica scientifica latina e segnatamente nei commenti ai Meteorologica in corrispondenza dei passi dedicati alla generazione delle perturbazioni atmosferiche. Qualche esempio:

Quomodo generentur tonitruum et coruscatio. Postquam Philosophus determinavit de his quae generantur ex exhalatione sicca circa terram et in terra, sicut de ventis et terraemotu, hic determinat de his quae generantur ex eadem in nube. Et circa hoc duo facit: primo praemittit intentionem suam, et dicit quod determinato de vento et terraemotu restat consequenter dicendum de coruscatione et tonitruo, et de typhone, idest de vento circulari expulso ex nube, et de incensionibus et fulminibus, et simul de omnibus, quia omnium est idem principium, scilicet exhalatio sicca, et omnia etiam sunt substantialiter exhalatio, quae differt secundum motus et passiones diversas. (Tommaso d’Aquino, Super meteora II 9 16)15

De ostensione insufficientiae dictorum Antiquorum in causa tonitrui et fulguris, et quare coruscatio magis apparet in nocte quam in die. (Alberto Magno, De meteoris III 3 8)

Come spesso accade, i versi danteschi danno al commentatore la possibilità di offrire una sintesi delle proprie conoscenze. Le parole di Stazio, in particolare, sollecitano l’autore dell’Ottimo commento a introdurre un ampio excursus dottrinale che va ben oltre ciò che è immediatamente richiesto dalle terzine dantesche e che viene a fornire al lettore una sorta di compendio delle principali teorie scientifiche dell’epoca in materia meteorologica: alla base teorica aristotelica si sovrappongono così citazioni da fonti di provenienza diversa, come Beda o Isidoro. L’autore non esita a mettere in evidenza anche le discrepanze di un sistema scientifico complesso: a proposito della generazione della neve, per esempio, pone a diretto confronto la spiegazione offerta dal filosofo inglese e quella, più dettagliata, di Aristotele, in un modo che ricorda da vicino l’impianto della quaestio scolastica16.

L’esposizione si sofferma poi sul fenomeno della coruscazione; il linguaggio è fortemente tecnico e si avvale di espressioni (come «ricevitiva delle impressioni de’ fumi») che ricalcano le formule latine impiegate dalla trattatistica scientifica del tempo. Si noti, tuttavia, come al latinismo coruscazione si affianchi, in dittologia, il più chiaro baleno. Nella seconda parte della spiegazione scientifica – in cui non è evidentemente più necessaria l’aderenza al testo dantesco – quest’ultimo finisce addirittura col prevalere:

La nuvola naturalmente è concava e cavernosa a modo di spugna; e però è ricevitiva delle impressioni de’ fumi. Corruscazione s’ingenera per combattimento di nuvoli, e strefinamento di venti nella nuvola; onde l’aere fa fuoco, e fa corru[sca]zione e baleno. Secondo Aristotile, baleno non è altro che il vapore, che per lo calore del Sole [st]a racolto nella nuvola; il quale per vicendevole sfregamento e forte movimento s’afuoca: ed avvegna che ’l baleno sia di virtù di fuoco, niente meno è parte di vapore grosso e terresto, per la cui gravitade si muove alla ingiuso. Adunque baleno non è altro che subito inflamamento d’aere, che prorompe ed esce fuori per vicendevole stropicciamento. (Ottimo commento, Purgatorio XXI 46)

Veniamo ora al secondo passo del poema in cui è rilevabile un chiaro riferimento alle teorie scientifiche sulle alterazioni meteorologiche. Nel soddisfare la curiosità dei due pellegrini, Stazio arriva fin dove sa17; al resto provvede Matelda nel XXVIII del Purgatorio. Siamo nella «divina foresta»18, un luogo sospeso tra «il temporal foco»19 e la beatitudine eterna: un luogo che non può che trovarsi qui, al limite fra le due cantiche. La donna, assumendo le funzioni didattiche già di Virgilio e poi di Stazio, illustra al pellegrino le condizioni privilegiate di quel luogo creato da Dio per la felicità dell’uomo (il quale, però, vi dimorò poco «per sua difalta», v. 94).

Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,

fé l’uom buono e a bene, e questo loco

diede per arr’ a lui d’etterna pace.

Per sua difalta qui dimorò poco;

per sua difalta in pianto e in affanno

cambiò onesto riso e dolce gioco.

Perché ’l turbar che sotto da sé fanno

l’essalazion de l’acqua e de la terra,

che quanto posson dietro al calor vanno,

a l’uomo non facesse alcuna guerra,

questo monte salìo verso ’l ciel tanto,

e libero n’è d’indi ove si serra. (Purgatorio XXVIII 91-102)


L’Eden si trova nell’aere sereno purissimo20, in cui, secondo la filosofia naturale del tempo, era impossibile lo sviluppo di perturbazioni atmosferiche. L’altezza e il rigore dell’esposizione di Matelda impongono il ricorso a termini specifici, come quell’«essalazion» (‘esalazioni’), altro tecnicismo latino che risulta attestato per la prima volta in volgare proprio nel poema. Sul piano teorico, l’espressione «l’essalazion de l’acqua e de la terra» condensa la fondamentale distinzione tra vapori umidi e vapori secchi, responsabili, secondo il sistema naturale aristotelico, di fenomeni fisici diversi.

Et quia dixerat de vapore et exhalatione terrae, ostendit differentiam inter ea. [...]. Et dicit quod natura vaporis est esse humidum et calidum, natura autem exhalationis est esse calidum et siccum: et sic vapor, propter humiditatem, est quasi in potentia ad aquam; exhalatio autem, propter siccitatem, est quasi in potentia ut igniatur. (Tommaso d’Aquino, Super meteora I 3 4)21

Sul piano lessicale, l’uso dantesco risulta particolarmente significativo se rapportato al panorama linguistico volgare antico: come si evince dal TLIO22, il termine esalazione ricorre, oltre che nei commentatori della Commedia23, nella Metaura volgare e nella Cronaca volgare isidoriana: si tratta, appunto, di due volgarizzamenti e pertanto di testi in cui il ricorso a un latinismo è inevitabilmente condizionato dall’originale.

il principio di queste cose si è che quando la terra è riscaldata dal sole, è bisogno che nn’esca alcuna exalatione, cioè alcuna fummosità e alcuno vapore, imperciò che il caldo di sua natura si hae a trare ad sé [...]. E questa cotale exalatione non è d’uno modo, ma è di diversi modi, imperciò che alcuna volta è più vaporosa e più umida, alcuna volta è più spugnosa e più secca [...]. (Metaura I 9)24

Et subito apparse como una bocca de inferno et per la exalatione et refiato che ossia de la bocca predicta multi homini forono morti [...]. (Cronaca volgare isidoriana, p. 169)25

In entrambi i casi, inoltre, il volgarizzatore avverte la necessità di chiarire la parola esalazione affiancando a essa degli equivalenti più perspicui: «fummosità» e «vapore» nella Metaura, «refiato» nella Cronaca. Non soltanto in Dante si ha, dunque, la prima occorrenza volgare di esalazione, ma anche la prima occorrenza libera, cioè non immediatamente dipendente da un testo originale latino.

Il passaggio del termine in un circuito linguistico ben più ampio di quello delle cattedre universitarie è poi favorito dall’uso dei commentatori, i quali non soltanto recepiscono e glossano il termine ad locum, ma lo richiamano anche altrove, sotto l’influenza delle fonti disponibili26 oppure in modo del tutto autonomo, come avviene, per esempio, in Francesco da Buti e nel Boccaccio. Quest’ultimo, nelle Esposizioni sopra la Commedia, chiosa così il v. 30 del terzo canto infernale, «come la rena quando turbo spira»27:

Dimostra qui l’autore, per una brieve comparazione, il moto di quel tomulto, come di sopra dissi, essere circulare [...]; essendo la essalazion calda e secca, che dalla terra surge in alto, pervenuta alla freddeza d’alcun nuvolo e da quella a parte a parte cacciata, diviene vento, il quale, là dove si genera, prende moto circulare [...]. (Boccaccio, Esposizioni III 18)28

Ancora un altro esempio. All’impulso sinergico del poema e dei commentatori trecenteschi si deve anche la diffusione (e talora proprio l’ingresso) nell’italiano antico degli aggettivi denso e raro e della famiglia morfologica a essi connessa: dagli astratti densità e rarità, ai verbi rarefare e rarificare29; tecnicismi relativi, ancora una volta, al campo del cosiddetto lessico della materia.

Anzitutto, l’aggettivo denso, talora con valore sostantivato, occorre per ben tre volte nel canto II del Paradiso, sempre in opposizione a raro. La collocazione dei due attributi in dittologia antinomica appare immediatamente funzionale a precisarne e a rafforzarne il valore tecnico-scientifico: denso risulta così definito semanticamente e contrario da raro, e viceversa.

Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».

E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso

credo che fanno i corpi rari e densi». (Paradiso II 58-60)

Se raro e denso ciò facesser tanto,

una sola virtù sarebbe in tutti,

più e men distribuita e altrettanto. (ivi, 67-69)

Da essa vien ciò che da luce a luce

par differente, non da denso e raro;

essa è formal principio che produce,

conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro». (ivi, 145-148)


La coppia di opposti torna poi nel XXI della stessa cantica, ma con un evidente compito di richiamo al luogo precedente e alla complessa dissertazione scientifica ivi esposta:

Vidi la figlia di Latona incensa

sanza quell’ombra che mi fu cagione

per che già la credetti rara e densa. (Paradiso XXII 139-141)


Ma restiamo nel canto II. Giunto nel primo cielo, quello della Luna, Dante domanda a Beatrice l’origine di quei «segni bui» (v. 49), cioè delle macchie scure che si scorgono sulla superficie lunare. L’argomento è tutt’altro che banale – tutti i filosofi della natura dell’antichità vi si erano soffermati (e lo farà ancora, ma su basi del tutto nuove, il giovane Galileo) –, dal momento che la cosmologia aristotelica non ammetteva la possibilità di imperfezioni o di irregolarità nei corpi celesti. Dante presenta l’intera questione con particolare solennità anche perché intende correggere sé stesso, confutando la teoria che, anni prima, egli aveva accolto nel Convivio30. La risposta naturalistica data da Averroè nel De substantia orbis, che faceva leva su princìpi (come la densità e la rarità) puramente materiali, non appare a Dante più sufficiente a spiegare la diversità sostanziale («e nel quale e nel quanto», v. 65) del corpo lunare: le ragioni sono più complesse, e sono di ordine metafisico. La nuova opinione difesa dal poeta è quella neoplatonica, formulata da Giamblico, che Simplicio e poi San Tommaso riportano nel commento al De coelo; tuttavia, come nota Bruno Nardi, Dante ha bisogno che sia proprio Beatrice a rivelare la soluzione del problema di scienza naturale. Scrive lo studioso: «Dante accoglie tali e tanti elementi della filosofia arabica e neoplatonica, quanti forse nessuno dei teologi suoi contemporanei aveva osato accettarne; ma, nello stesso tempo, tutti questi elementi sono unificati in un pensiero superiore che l’investe e li disciplina: il pensiero di Beatrice, che sola può guidare la ragione umana là “dove chiave di senso non diserra”»31.

Sulla complessità e sulla bellezza di queste terzine sono state spese pagine importanti32; tenendo tuttavia fede al taglio lessicologico del nostro percorso, veniamo all’uso degli aggettivi denso e raro33. Da una ricerca condotta nei corpora dell’OVI e, in particolare, nel CLaVo (Corpus dei Classici Latini Volgarizzati), emerge che il latino densus è reso dai volgarizzatori trecenteschi per lo più con i traducenti spesso o fitto34. Con specifico riferimento alla materia e ai vapori, tuttavia, può trovarsi anche l’aggettivo grosso, come mostra ancora una volta la Metaura, un testo che, per gli argomenti trattati, è ovviamente d’importanza centrale nella nostra indagine. Si noti per esempio come, nel primo libro, dinanzi alla coppia di antonimi densus / rarus del testo di San Tommaso, l’anonimo volgarizzatore fiorentino traduca ricorrendo agli aggettivi grosso e sottile.

Et dicit quod album coniunctum nigro multas facit differentias colorum; sicut apparet de flamma in fumo, quae facit diversos colores, secundum quod fumus fuerit densior vel rarior. (Tommaso d’Aquino, Super meteora I 5 8)

E il colore bianco congiunto col nero fae apparire diversi colori, come adiviene della fiamma ch’è congiunta col fummo, la quale pare di diversi colori, secondo che ’l fummo è più grosso o più sottile, o più chiaro o più obscuro. (Metaura I 11 59-62)


Del resto lo stesso Dante, nel Convivio così come nella Commedia, fa ampio uso degli aggettivi spesso, grosso o sottile in relazione ai vapori, all’aria o ai fumi. Bastino pochi esempi:

Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di secco in umido, per li vapori della terra che continuamente salgono... (Convivio III 9 12)

Come quando la nebbia si dissipa,

lo sguardo a poco a poco raffigura

ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,

così forando l’aura grossa e scura,

più e più appressando ver’ la sponda,

fuggiemi errore e cresciemi paura... (Inferno XXXI 34-39)

per li grossi vapor Marte rosseggia (Purgatorio II 14)

come, quando i vapori umidi e spessi

a diradar cominciansi [...] (Purgatorio XVII 4-5)


Alla luce dei dati raccolti, il latinismo denso si qualifica come un lessema dotato di uno spiccato potenziale espressivo o, per richiamare la terminologia proposta da Burgassi e Guadagnini, di un elevato quoziente connotativo35: la parola occupa infatti una posizione estremamente periferica nel sistema linguistico del volgare trecentesco. Il ricorso all’aggettivo denso nel II del Paradiso appare insomma come una precisa scelta stilistica che intende corrispondere all’altezza dell’argomento sul piano lessicale e, al contempo, dare all’intera esposizione una maggior evidenza scientifica: rispetto al latinismo, infatti, i corrispondenti onomasiologici volgari (spesso, grosso) coprono uno spettro semantico molto più ampio; denso possiede invece una marca tecnica fortissima, una specificità intatta, almeno a quest’altezza cronologica. Oggi – probabilmente proprio grazie all’uso dantesco – denso è entrato nel nostro vocabolario di base36, subendo un inevitabile depotenziamento della sua carica tecnico-scientifica; ne è la prova anche il fatto che l’aggettivo sviluppi usi figurati registrati dai lessici sincronici: normalmente, sintomo della vitalità di un termine nella sfera dell’uso comune.

Merita qualche rilievo anche l’altro aggettivo, raro. Nello stesso canto, la forma dotta non dissimilata è garantita, almeno in un caso (Paradiso II 146), dalla rima con chiaro:

Da essa vien ciò che da luce a luce

par differente, non da denso e raro;

essa è formal principio che produce,

conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro». (Paradiso II 145-148)


È questa la conclusione perentoria di Beatrice, che pone fine al canto ma anche all’intero problema sollevato da Dante: ogni differenza dell’universo è riconducibile a un principio formale che è racchiuso nelle intelligenze angeliche. La novità della parola impiegata da Dante, questa volta, è di tipo semantico: mentre il significato temporale di ‘sporadico, che si verifica, che accade con scarsa frequenza’ e quello di ‘poco comune, che è difficilmente reperibile’ risultano diffusi nell’italiano antico, l’accezione prettamente scientifica di raro (cioè ‘che consta di particelle incoerenti, rarefatto’) sembra trovarsi per la prima volta proprio nel poema. Nella prima trattatistica scientifica in volgare (per esempio nella Composizione del mondo di Restoro), tale accezione è per lo più espressa attraverso l’allotropo popolare rado o, come già visto, con l’equivalente sottile. Quest’ultimo risulta il traducente privilegiato dal volgarizzatore della Metaura non soltanto in corrispondenza di un originale latino subtilis, cui la trattatistica mediolatina pure ricorre, ma anche dinanzi a rarus. Nella stessa direzione va anche la traduzione di rarefacere con i verbi assottigliare o sottigliare37 e con le perifrasi diventare rado, risolversi o convertirsi in aere. Qualche esempio:

Primo assignat causam propter quam a corporibus caelestibus non calidis existentibus, calor in istis inferioribus generatur. Et dicit quod sensibiliter videmus quod motus, quia potest disgregare aerem et rarefacere, potest etiam eum ignire: nam raritas et igneitas se consequuntur, sicut frigiditas et spissitudo [...]. (Tommaso d’Aquino, Super meteora I 3 5)

Risponde Aristotile a la quistione ch’è mossa, e dice che la cagione che i corpi celestiali riscaldano i corpi disotto si è il loro movimento, ché noi veggiamo manofestamente che il movimento puote assottigliare e infiammare [scil. l’aire], come si puote vedere nelle cose che corrono velocemente. (Metaura I 8 27)

Licet ergo calor continue elevet et rarificet: et quanto magis rarificat, tanto magis figuram corrumpit [...]. Unde etiam continue vapor ascendens novas acquirit figuras: quapropter tam elevans continue rarificatur [...]. (Alberto Magno, De meteoris I 4 8)

E così avegna che il caldo continuamente lievi in alto il vapore e continuamente il faccia rado, e quanto più lo fa rado, più consuma il suo freddo essentiale che ’l mantiene e più li tolle la sua figura [...]. Onde il vapore saliendo in su acquista tuttavia nuove figure, imperciò che il caldo che ’l lieva continuamente il fae rado [...]. (Metaura I 19 138)

A tal proposito, sembra degno di rilievo che le prime attestazioni volgari delle forme verbali rarefare e rarificare si trovino proprio nei commentatori danteschi: tecnicismi rarissimi nella lingua italiana delle origini38 ma che diverranno, nei secoli successivi, le uniche soluzioni ammesse dal nostro vocabolario tecnico-scientifico.

Qui sentendo Dante lo dicto vento marraveglòsse Dante, cum çò sia cosa ch’ell’era in lo centro del mundo, nel quale logo non potea d’altro logo assendere vapore e lìe rarefarse e generar vento, sì come nel secundo della Metaura tratta lo Philosopho della generatione d’i vènti: che vapor apreso a certa regione d’aere e lìe per calore o per moto se converte e genera vento [...]. (Iacomo della Lana, Inferno XXXIII 104)

[...] l’umido del legno per lo calore del fuoco si rarifica, e diviene aere; il quale aere volendosi tornare al naturale luogo, impignesi per uscire fuori, e venendo si truova innanzi umido, non rarificato; bisognali più largo luogo, sì che esce con un impeto fuori pi[n]gendo quello, e ingenerasene quello cigolare, sì come dice Aristotile nella Methaura. (Ottimo commento, Inferno III 40)

gli vapori sagliono dal basso della terra all’aere: e così quivi non vi si puote rarefare tale vapore, e per conseguente né generare vento, sì come nel secondo della Metaura tratta il Filosofo della generazione de’ venti. (ivi, Inferno XXXIII 105)

Si noti che nell’Ottimo commento è impiegato anche l’aggettivo rarificato.

Le chiose di Iacomo della Lana, del Lancia, dell’Ottimo o di Francesco da Buti, infine, fanno largo impiego degli astratti spessezza, grossezza o sottilità / sottigliezza39, termini che negli usi colti del medioevo acquisiscono anche profondi significati metaforici40. Negli stessi testi esegetici e in concorrenza con tali sostantivi, tuttavia, s’insinuano anche i latinismi densità e rarità, di cui i commentatori trecenteschi offrono la più antica attestazione volgare41. Qualche esempio:

Altri fo che tenneno che tale diversitade venisse da raritade e densitade in questo modo, che quella parte del corpo della luna è denso, sì receve lo radio del sole et super ipsa superfitie multiplica, et per consequens è lucido e chiaro; e quella parte del corpo della luna, ch’è raro, perché no pò multiplicare li radii solari in quella superfitie, no è lucido né chiaro, e per consequens è scuro e nubroso [...]. (Iacomo della Lana, Paradiso II, proemio)

La terza oppinione filosofica disputa l’Autore nel presente capitolo, mettendo sè argomentatore, e Beatrice ad asolvere. Ed in prima argomenta, che non è raritade quella obscuritade, però che nello eclissi del Sole mai non si eclisserebbe tutto per interposizione della Luna tra noi e ’l Sole, imperciò che lli raggi solari pure passerebbono quella parte rara [...]. (Ottimo commento, Paradiso II, proemio)

Altri furono [...] che tennoro che tale diversitade venisse da spessezza e da radezza del corpo lunare in questo modo: che la parte spessa riceva il raggio del sole, il quale raggio in su essa superficialmente multiplichi e per consequente quella parte sia lucida e chiara, e l’altra ch’è rara sia oscura, per la cui raritade passando li raggi non possono multiplicare nella superficie. (Andrea Lancia, Paradiso II 46-51)

quando l’acqua bolle, leva ora in uno luogo, ora in un altro, e sciala l’umido vapore per la sua rarità, e disfassi la bolla; ma nella pece e nella pegola si lieva tutta, et in quello levare sciala, e però risiede poi. (Francesco da Buti, Inferno XXI 19-36)

Se raro; cioè se la rarità de’ corpi, e denso; cioè e la densità dei corpi celesti, facesser ciò; cioè che appare quassù diverso, tanto; cioè solamente, e non altra cagione che la rarità e densità fusse cagione delle diversità de le virtù ch’ànno li corpi celesti ad influere quaggiù a noi, seguiterebbe questo [...]. (Id., Paradiso II 64-72)

Il primo, densità, è senz’altro destinato a scalzare i precedenti nella prosa scientifica moderna. Il secondo, affievolito nella sua carica tecnica dalla potenza degli altri livelli semantici42, finirà invece con l’essere sostituito dal deverbale rarefazione, per il quale bisognerà però attendere Leonardo da Vinci43.

Nell’opera esegetica che gravita attorno al poema viene dunque a depositarsi, già entro la fine del Trecento, una parte significativa di quella terminologia specialistica che, fino a quel momento, era stata esclusiva o quasi della produzione scientifica latina. E questo è tanto più evidente quanto più si stringe l’obiettivo su settori assai specifici del sapere tecnico-scientifico, come quello relativo allo studio del moto. Con le leggi della fisica aristotelica si misurano i movimenti dell’ultraterreno dantesco non meno di quelli del terreno, e i commentatori, nel dar conto delle applicazioni e delle eventuali infrazioni operate dal racconto nei confronti di tali princìpi, assimilano riferimenti ai concetti di levità e gravità, alla confricazione, cioè all’attrito, alle varie tipologie di moto locale sviluppate nel mondo sublunare (a partire dalla distinzione tra moto naturale e moto violento) o alla sublime perfezione dei moti celesti. Anche il linguaggio impiegato dai commentatori si assesta su quello più tecnico fissato dalla cinematica aristotelica, venendo di fatto ad assorbire, ma in forma volgare, i termini altamente specialistici della trattatistica latina. Si osservi, anche in questo caso, almeno un esempio significativo.

Secondo il pensiero aristotelico, il primo motore immobile imprime alla prima sfera celeste un moto unico, uniforme e invariabile; principio che Beatrice condenserà, nel XXVIII del Paradiso, nei versi «Da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv. 41-42). L'unico moto dotato di queste caratteristiche è, secondo il pensiero scientifico del tempo, il moto circolare: il solo che può essere a velocità costante, privo di accelerazioni e di decelerazioni, eterno e perfetto (così come il principio che lo ha generato). A tale teoria accenna, sia pur brevemente, Iacomo della Lana in un excursus dottrinale contenuto nella nota proemiale al canto VI del Paradiso: sulla scorta delle solenni parole di Giustiniano, il commentatore argomenta le ragioni per cui nessun difetto può venire da Dio, artefice di tutte le cose, agganciando infine l’intera riflessione metafisica a una conclusione fisica:

Simelmente la materia piacente no porave produre alcuna nova forma in sì stessa, imperçò ch'ell' è passiva, e cussì s'alcuno defetto se trova è da imputarlo solo a materia piacente, imperçò ch'è 'l preditto artifico, çoè Deo, summo bene, et in lui né in soa operatione no pò essere defetto. Ancora lo celo si è perfecto instrumento et ubidisse continuo al so artifico: sì come dixe lo Philosopho nel libro Celi et mundi el consiste ex tota sua materia, e per consequens non ha alcuna imperfetione. Ancora lo suo moto è uniforme, né augmentativo, né remisivo. Ancora è cerculare sì che anche a quello instrumento no se pò imputare lo defetto. (Iacomo della Lana, Paradiso VI, proemio, 7-8)

Il passo torna, con lievissime differenze, nell'Ottimo commento, il quale, com’è noto, è sovente debitore al testo lanèo44. Si osservino, in quest’ultimo, gli aggettivi aumentativo e remissivo: se riferiti al moto, essi rappresentano due attributi dotati di una spiccata valenza tecnica: nella prosa scientifica mediolatina, infatti, i termini augmentum (o augmentatio) e remissio indicano, rispettivamente, proprio l’accelerazione e la decelerazione.

Consimiliter respondeatur ad tertiam: quia tarditas est diminutio motus, velocitas autem augmentatio; et ideo licet tarditas posset ire in infintum, non tamen velocitas. (Alberto di Sassonia, Quaest. in Aristotelis De coelo I 7)

Caelum movetur cum resistentia; ergo caelum movetur cum fatigatione et poena. Consequentia tenet, quia resistentia est causa fatigationis et remissionis potentiae motivae. (ivi, II 9)

Dei due termini si serve ancora l'insegnamento impartito nelle Scuole nella seconda metà del XVI secolo, tanto che augmentum e remissio compaiono negli appunti universitari del giovane Galileo. In ambito volgare, la definizione dell'accelerazione mediante il termine aumento riaffiora, a distanza di secoli, negli autografi del già ricordato Leonardo da Vinci. L’esperienza maturata da questo artista-ingegnere mostra indubbiamente un’attenzione nuova ai problemi di meccanica teorica e, in particolare, allo studio dei moti con velocità difforme45. Tra questi sono anche i moti che aumentano progressivamente d’intensità e che Leonardo definisce, nel codice di Madrid I (f. 114r), proprio attraverso l’espressione moti aumentativi: «Qui si dimanda, di questi 6 moti, detti moti aume(n)tativi, quale è migliore e p(er)ché» (Codice di Madrid I, c. 114r)46. Sul piano teorico, fra l’attestazione di Iacomo e quella vinciana c’è indubbiamente una distanza notevole. Nella tradizione scientifica recepita dai commentatori danteschi, infatti, l’aumento è visto come un fattore di corruzione, che sancisce il limite fra la suprema perfezione dei movimenti celesti e l’irregolarità di quelli sublunari. Così scrive, ad esempio, il doctor universalis nel commento al De coelo:

[...] quod coelum neque factum est, neque generatum est de aliquo alio corpore, et non cadit sub corruptione, ita quod corrumpatur in aliud corpus, neque recipit augmentum, neque diminutionem [...]. (Alberto Magno, De caelo et mundo I 1 8).


Nella riflessione leonardiana, invece, l'aumento costituisce ormai un’energia positiva, che può essere controllata ed essere vantaggiosamente messa a frutto in un sistema meccanico. L’accelerazione non è dunque un elemento che destabilizza uno schema ideale e puramente geometrico (l’unico ammesso dalle indagini della cinematica universitaria medievale); essa si traduce piuttosto in un problema concreto di cui tener conto per il calcolo della gittata di una bombarda o nella progettazione di un carro47.

Se tale è la distanza delle due posizioni teoriche, sul piano puramente lessicale esiste invece una sorta di filo rosso che connette – in questo, ma anche in altri casi48 – Dante e la sua tradizione esegetica alla riflessione tecnico-scientifica dell’ingegnere di Vinci: nel mezzo c’è, ragionevolmente, un sommerso che si alimenta dal contatto ininterrotto con il grande serbatoio della lingua latina.

Note
  • 1

    Cfr. Paradiso II 7: «L'acqua che io prendo già mai non si corse». Tutte le citazioni dal poema s'intendono tratte dall'edizione Petrocchi (cfr. Alighieri/Petrocchi 1994), testo disponibile in versione informatizzata nel Corpus OVI (banca dati dei testi italiani antichi raccolta dall'Opera del Vocabolario Italiano, consultabile in rete all'indirizzo http://www.ovi.cnr.it/ e interrogabile attraverso il software GATTO). Su tale edizione sono di fatto elaborate le voci del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (d'ora in poi TLIO) e quelle del Vocabolario Dantesco (d’ora in poi VD). I risultati qui presentati si avvalgono del lavoro svolto proprio nell’ambito della redazione di quest’ultimo, consultabile in rete all’indirizzo http://www.vocabolariodantesco.it. Per una descrizione sintetica del progetto, avviato nel settembre del 2015 grazie alla collaborazione fra l’Accademia della Crusca e l’Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano (OVI), rinvio alle pagine introduttive dello stesso sito. Nella sezione Il progetto > Pubblicazioni e interventi è disponibile anche una rassegna completa e costantemente aggiornata di tutti i contributi relativi all’impresa lessicografica o scaturiti dall’attività redazionale. Per un’illustrazione più approfondita del Vocabolario e delle sue potenzialità, nonché per una discussione dei suoi criteri metodologici, è ora imprescindibile il riferimento ai contributi raccolti negli atti della giornata di presentazione del VD tenutasi all’Accademia della Crusca il 1° ottobre 2018 (cfr. Manni 2020). Qui, in particolare, sull’apertura alla variantistica – tra le principali novità di tale progetto lessicografico –, cfr. Coluccia 2020 e De Blasi-Fanini-Lorenzi Biondi-Ricotta 2020, § 4 (Il trattamento delle varianti nel VD). Sullo stesso tema si vedano anche Verlato 2016 e Coluccia 2019.

  • 2

    Per le citazioni del commentatore bolognese mi avvalgo dell'edizione curata da Mirko Volpi (cfr. Iacomo della Lana/Volpi 2009); il testo è dato sempre secondo la lezione del manoscritto Rb. In generale, per tutte le opere esegetiche antiche richiamate di seguito si fa riferimento alle più recenti edizioni nazionali dei commenti danteschi pubblicate per i tipi della Salerno e via via acquisite dal Corpus OVI. Se non diversamente indicato, a quest'ultimo rimando anche per i riferimenti bibliografici delle altre opere volgari citate.

  • 3

    Cfr. Librandi 2013, p. 85.

  • 4

    Cfr. Seneca/Parroni 2008, p. 24. Del resto, l'accostamento alone-corona è evocato anche nell'immagine di Paradiso X 64-69: «Io vidi più folgór vivi e vincenti / far di noi centro e di sé far corona, / più dolci in voce che in vista lucenti: / così cinger la figlia di Latona / vedem talvolta, quando l'aere è pregno, / sì che ritenga il fil che fa la zona».

  • 5

    Tutte le citazioni del commento albertino s'intendono tratte dall'edizione allestita da Hossfeld (cfr. Alberto Magno/Hossfeld 1987-1993).

  • 6

    Su tale cultismo mi sia consentito il rinvio a Fanini 2019. Cfr. anche VD, s.v. acume.

  • 7

    Ad locum. Lo stesso commentatore chiosa, a Purgatorio XXIX 73: «[...] la centura de Delia, çà della luna, la quale è appellada Allo, come apare nel secundo della Metaura». Il tecnicismo è colto anche da alcune chiose successive: cfr., per esempio, Chiose cassinesi (1350-1375 ca.), ad locum: «Halo est ille vapor qui cingit lunam in modum circuli»; Chiose ambrosiane (1355 ca.): «Depigne - Sol actrahit vapores sursum suo calore et ex eis, quando per radios penetrat, circulum inducit qui vocatur halo»; Benvenuto da Imola (1375-1380): «quanto pare appresso alo, scilicet, unus circulus, scilicet, halo» ecc. Per una ricerca attraverso le principali opere esegetiche della Commedia (incluse quelle in latino, naturalmente escluse dal Corpus OVI) è senz'altro utile la banca dati digitale del Dartmouth Dante Project (d'ora in poi DDP), consultabile in rete all'indirizzo https://dante.dartmouth.edu. L'archivio, realizzato dal Dartmouth College in collaborazione con la Princeton University, raccoglie il testo integrale del poema e oltre 70 commenti e studi successivi, da Jacopo Alighieri a oggi.

  • 8

    Per esempio: «Ei vuole nel presente suo argomento provar che quando la cometa fusse una nuda apparenza, ella dovrebbe dimostrarsi in figura di cerchio o di parte di cerchio, perché così avviene dell'iride, dell'alone, della corona e dell'altre varie immagini [...]» (Il saggiatore 25; cfr. Galilei/Favaro et al. 1929-1939, VI, p. 299). Come si nota, nell'opera dello scienziato pisano ricorre anche il termine corona, per il quale, tuttavia, si profila ormai un uso ben differenziato da alone: mentre quest'ultimo viene a identificare quei fenomeni luminosi (cerchi, globi e archi di vario aspetto) che si generano attorno al sole o alla luna per la rifrazione della luce (dovuta ai minuti cristalli di ghiaccio presenti nelle nubi alte), il termine corona si specializza nella definizione dello strato più esterno dell'atmosfera solare, invisibile a occhio nudo tranne che durante le eclissi totali di sole, e che oggi sappiamo essere costituito da plasma, elettroni e atomi estremamente ionizzati.

  • 9

    Per esempio: «La terra lagrimosa diede vento, / che balenò una luce vermiglia / la qual mi vinse ciascun sentimento» (Inferno III 133-135): dal vento si sprigiona un lampo così forte da far perdere i sensi a Dante; il lampo deriva, secondo Aristotele, dall'incendiarsi dei vapori aridi (cfr. ED, s.v. lampo).

  • 10

    Cfr. TLIO, s.v. alterazione §§ 1, 1.1 e 2.

  • 11

    Francesco da Buti, ad locum.

  • 12

    Cfr. VD, s.vv. coruscare e corusco. Si adottano le forme scempie in linea con Alighieri/Petrocchi 1994, I, p. 447 (§ 40.a). Dante ricorre a coruscare anche nella prosa latina, ma con valore figurato: «Saturabuntur omnes qui esuriunt et sitiunt [iustitiam] in lumine radiorum eius, et confundentur qui diligunt iniquitatem a facie coruscantis» (Epist. V 1 3; cito da Alighieri/Mazzoni-Pistelli 2012, p. 580).

  • 13

    La prima attestazione si rileva nelle Questioni filosofiche di fine Duecento: cfr. TLIO, s.v. corruscazione.

  • 14

    Cito dall'edizione curata da Franca Brambilla Ageno (cfr. Alighieri/Ageno 1995), acquisita in versione digitale interrogabile dal Corpus OVI. Per la corrispondenza fra passioni dell'anima e loro manifestazione esterna, con particolare riferimento alla correlazione riso-luce, così frequente nel poema (per esempio: «lo bel pianeto che d'amar conforta / faceva tutto rider l'orïente» Purgatorio I 19-20), si vedano almeno Emilio Pasquini in ED, s.v. riso; Stella 2000; Spagnolo 2007; Villa 2009. Si noti, infine, che il termine ricorre anche con il valore proprio di 'bagliore, lampo', ma solo nella prosa latina, nell'epistola a Moroello Malaspina: «Nam sicut diurnis coruscationibus illico succedunt tonitrua [...]» (Epist. IV 2 3; cfr. Alighieri/Mazzoni-Pistelli 2012, p. 579).

  • 15

    Tutte le citazioni del commento tomistico sono date secondo l'Editio Leonina (Opera omnia, III [1886], In Aristotelis libros De caelo, De generatione et Meteorologicorum), integralmente accessibile in versione digitale all'interno della banca dati Corpus Thomisticum (d'ora in poi CT).

  • 16

    «Neve, del vapore dell'acque non ancora ristretto in gocciole togliendo il freddo, si forma e costrigne, secondo Beda; ma, secondo Aristotile, la generazione della neve si fa di vapore ch'è di sotto dalla nuvola, e non si genera la frigida sustanzia della neve nella nuvola, sì come la sustanzia della grandine: e di questo fa fede la morbidezza della neve, però che lla caldeza mescolata alle nuvole non lascia spessare, né fortemente accogliersi, per la molta freddezza signoreggiante nel vapore della neve; sì si imbianca» (Ottimo commento, Purgatorio XXI 46).

  • 17

    Si veda la terzina già ricordata: «Trema forse più giù poco o assai; / ma per vento che 'n terra si nasconda, / non so come, qua su non tremò mai» (Purgatorio XXI 55-57).

  • 18

    Purgatorio XXI 2.

  • 19

    Purgatorio XXVII 127.

  • 20

    Per l'ubicazione del Paradiso terrestre nella geografia dantesca è ancora imprescindibile Bruno Nardi, Il mito dell'Eden, in Nardi 1967, pp. 311-340.

  • 21

    Cfr. anche l'esempio cit. supra, tratto dal cap. II 9 16.

  • 22

    Cfr. ivi, s.v. esalazione. La novità e la specificità tecnica del termine – che oggi è comune nel linguaggio scientifico – sono forse da porre all'origine dell'ampia diffusione, nella tradizione manoscritta del poema, della lezione esaltazione, ammissibile metricamente, molto affine sul piano grafico e, forse, semanticamente attratta dalla generale tensione verticale o, meglio, "ascensionale" del passo (cfr. v. 99: «dietro al calor vanno», quindi verso l'alto; v. 101: «questo monte salìo verso 'l ciel»). Nelle note all'apparato, Petrocchi avvisa: «esaltazion potrebbe essere ammessa al vaglio in un suo raro significato di 'fermentazione' ovvero di 'depurazione'», registrato dal TB in un Compendio all'Antico Testamento attribuibile alla seconda metà del Trecento (per la possibile datazione, cfr. Ragazzi 1984, pp. 304-305). Ancor più calzante risulterebbe un richiamo all'accezione prettamente chimica dello stesso termine ('aumento oltre la norma delle proprietà di alcune sostanze; sublimazione, aerificazione, volatilizzazione'), di cui, però, mancano testimonianze nella lingua antica; cfr. GDLI, s.v. esaltazione § 7 (la prima occorrenza registrata dal dizionario ci riconduce tuttavia ancora a Dante, e in particolare al Commento edito e inedito sopra la Divina Commedia di Giovambattista Gelli: «è generata questa alterazione del sonno negli animali da quelle esaltazioni e da quelle fumosità calde e umide che escono dal cibo e dal nutrimento, quando il calor naturale lo cuoce nella digestione», ivi, Lezione Quarta; il termine è poi impiegato in autori di testi scientifici, come Lorenzo Magalotti o Antonio Cocchi). Esaltazione si offre certamente come una lezione non priva d'interesse, dunque, ma «di adozione [...] quanto mai sconsigliabile», per dirla con Petrocchi. La sua notevole fortuna nella tradizione, con testimoni dal ramo α al ramo β, resta quantomeno indicativa del grado di difficoltà posto dalla lezione originale. Sulla validità di esalazione, recata dai codici Mad, Mart e Triv, del resto, garantiscono le fonti latine e i commentatori (vedi oltre).

  • 23

    Per esempio, Iacomo della Lana, Lancia, Francesco da Buti, Boccaccio (cfr. Corpus OVI; DDP e oltre).

  • 24

    Cfr. Corpus OVI. L'originale latino: «Et dicit quod principium praedictarum passionum et multarum aliarum, tam activum quam materiale, est quod dicetur. Cum enim terra calefacta fuerit per motum solis, oportet aliquam exhalationem resolvi a terra. Quae non est uniusmodi, ut quidam putant, sed est duplex: quaedam enim est magis vaporosa et humida, quaedam vero est magis spumosa et sicca [...]» (Tommaso d'Aquino, Super meteora I 3 6).

  • 25

    Cfr. Corpus OVI. Il testo, di area abruzzese, si colloca sul finire del sec. XIV.

  • 26

    Nelle Chiose del Lancia, per esempio, il tecnicismo risulta impiegato nel canto V del Purgatorio, laddove Dante paragona la velocità e l'impeto con cui le anime gli si accalcano attorno alle stelle cadenti e ai baleni estivi, due fenomeni che la scienza medievale attribuiva alla medesima causa, cioè all'accensione dei vapori («Vapori accesi non vid'io sì tosto / di prima notte mai fender sereno, / né, sol calando, nuvole d'agosto, / che color non tornassero suso in meno» Purgatorio V 37-40). In questo caso il commentatore preleva l'intera spiegazione dalla Metaura (per il passo, cfr. supra, cap. I 9): «Qui fa sua comparatione a quelli vapori che si levano dalla terra e affuocano ne l'aere, che 'l vulgo dice che sono stelle. Delli quali vapori scrive Aristotile nella Metaura, dove dice: il principio della generatione di questi vapori accesi che paiono stelle e di molti altri che appariscono ne l'aere si è quando la terra è riscaldata dal sole, onde esce exalatione, cioè alcuno vapore, che non è tuttavia d'uno modo, ma alcuna volta è più vaporosa, alcuna volta più fumosa. E questa cotale vaporatione si è materia d'incendio e accendesi leggermente come uno fummo; e se questa materia è lunga e lata pare che sia una grande fiamma accesa ne l'aere, e s'ella è lunga e non lata pare che sia tizone, e quando non è continua pare che sia stella che voli. La cagione d'esse si è il caldo del sole attrattivo e li vapori fummosi attratti etc.» (Andrea Lancia, ad locum; cito da Lancia/Azzetta 2012, I, p. 540).

  • 27

    Lo stesso impiega il termine anche in un contesto decisamente non tecnico: «È il sospiro una essalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato, il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori [...]» (ivi, IV 26; cfr. TLIO, s.v. esalazione § 1.2).

  • 28

    Cfr. Corpus OVI.

  • 29

    Anche condensare si trova nei commentatori, ma il verbo è già in Cecco d'Ascoli (cfr. TLIO, s.v. condensare § 1), mentre l'aggettivo condensato risulta impiegato a partire dalle Chiose al volgarizzamento del Trattato della Spera (post 1314; cfr. ancora TLIO, s.v. condensato § 1).

  • 30

    Cfr. ivi, II 13 9: «[...] se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa propie, che non si veggiono nell'altre stelle. L'una si è l'ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, alla quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come nell'altre parti».

  • 31

    Bruno Nardi, La dottrina delle macchie lunari nel II canto del Paradiso, in Nardi 1967, p. 39.

  • 32

    Si vedano, oltre al saggio di Nardi ricordato alla nota precedente, almeno Vasoli 1992; Boyde 1995; Inglese 2008; Pastore Stocchi 2013.

  • 33

    Le osservazioni che seguono si fondano sugli strumenti e i metodi d'indagine messi a punto, per i latinismi dell'italiano antico, da Cosimo Burgassi ed Elisa Guadagnini (a partire da Burgassi-Guadagnini 2014) e scaturiti dall'esperienza DiVo - Dizionario dei Volgarizzamenti, un progetto legato all'OVI. Derivo da tali studi anche la terminologia adottata (come quoziente connotativo o posizione periferica del latinismo). Su tale metodo di lavoro è fondamentale la recente monografia La tradizione delle parole. Sondaggi di lessicologia storica (cfr. Burgassi-Guadagnini 2017), che dedica proprio al lessema denso un intero capitolo (cfr. ivi, pp. 113-165).

  • 34

    Per esempio: Ciampolo di Meo Ugurgieri, Eneide volgarizzata VI 592 (ante 1340, senese): «Ma il padre onnipotente lanciò la folgore fra le spesse nuvile» (nell'originale latino: «at pater omnipotens densa inter nubila telum / contorsit»); Palladio volgarizzato III 18 3 (1330-1340 ca., toscano): «sabbion grasso, ovvero terra di natura spessa, e umida» (nell'originale latino: «[...] aut pinguem sabulonem aut terram naturae densioris et umidae»); Deca terza di Tito Livio volgarizzata VI 17 (metà sec. XIV, fiorentino): «quando in sul fare del dì una folta nebbia tutto il salto e i campi d'attorno coperse» (nell'originale latino: «cum prima luce densa nebula saltum omnem camposque circa intexit»).

  • 35

    Cfr. supra, nota 33.

  • 36

    Nel GRADIT denso è marcato come di «alto uso».

  • 37

    Cfr. Librandi 1995, I, Introduzione, pp. 63-64. Del resto una tendenza simile si può riscontrare in altri volgarizzamenti trecenteschi; cfr. per esempio la traduzione delle Metamorfosi del Simintendi, XV 245 (ante 1333, toscano): «e asottigliasi l'acqua nell'aria; e all'aria è tolto via lo peso; la sottilissima aria vae ne' fuochi di sopra» (nell'originale latino: «in liquidas rarescit aquas, tenuatus in auras / aeraque umor abit, dempto quoque pondere rursus / in superos aer tenuissimus emicat ignes»; cfr. Corpus CLaVo).

  • 38

    Al di fuori del circuito lessicale che gravita attorno al poema, è possibile rintracciare un'attestazione del verbo rarificare nel volgarizzamento anonimo del Trattato d'agricoltura di Pietro de' Crescenzi (sec. XIV, fiorentino): «se si arrostiscono [scil. le castagne], sì si rarifica il loro corpo» (ivi, V 6; cfr. Corpus OVI).

  • 39

    Qualche esempio: Iacomo della Lana, Inferno XXII 16: «alcuni vapuri humidi e sutili [...] per lo gran caldo sì s'acendeno, e per la loro sutilità si è tosto cunsumà quel humido che s'açende»; Ottimo commento, Paradiso XXIII, proemio: «non per vaporale sottigliezza, ma per ghiacciesca fermezza»; Francesco da Buti, Inferno XI 19-36: «come fa la pece quando bolle per la sua grossezza: imperò che l'umido vapor che v'è non può esalare come fa nell'acqua che è rara».

  • 40

    Sull'argomento resta imprescindibile il riferimento a Bruni 1978.

  • 41

    Rarità, nell'accezione in esame, è attestato per la prima volta nel Convivio (nella forma raritade; cfr. supra, nota n. 30). Oltre che nei commenti danteschi, il tecnicismo risulta impiegato nel già citato volgarizzamento del Trattato d'agricoltura di Pietro de' Crescenzi (cfr. Corpus OVI). La prima attestazione di densità si rileva invece proprio in Iacomo della Lana; il tecnicismo ricorre poi nell'Ottimo commento e in Francesco da Buti. Con accezioni lievemente differenti, densità è anche nella Cronica dell'Anonimo romano (sec. XIV) e in un volgarizzamento toscano della Bibbia (secc. XIV-XV): cfr. TLIO, s.v. densità §§ 1.1 e 2.

  • 42

    Rarità è senza dubbio oggi più comune nelle accezioni di 'singolarità o eccezionalità' (di un evento), 'l'essere prezioso, di difficile reperibilità' (in riferimento a un oggetto o a una persona). Al significato di 'scarsa densità, spec. di un fluido, un gas e sim.', il GRADIT assegna invece la marca «letterario», apportando l'esempio dantesco del Convivio (cfr. nota precedente).

  • 43

    Cfr. GDLI, s.v. rarefazione § 1. Per l'uso del termine negli autografi vinciani, mi sia consentito il rinvio a Fanini 2012-2015, s.v. rarefazione.

  • 44

    Cfr. Malato-Mazzucchi 2011, I, p. 385.

  • 45

    Cfr. Fanini 2018, pp. 334-337.

  • 46

    Cito il testo vinciano direttamente dall'autografo (consultabile in riproduzione digitale in e-Leo), adottando i criteri di trascrizione fissati da Manni-Biffi 2011, pp. XXXI-XXXII.

  • 47

    L'atteggiamento molto pragmatico di Leonardo nei confronti dell'accelerazione, del resto, è confermato dal fatto che l'ingegnere definisca rota dell'aumento (o dell'aumentazione) quel dispositivo che ha la funzione di regolarizzare e di agevolare il movimento rotatorio accumulando quantità di moto (cfr. Manni 2008, p. 27; Manni-Biffi 2011, s.v. rota dell'aumento / rota d'aumento / rota dell'aumentazione).

  • 48

    Sui rapporti tra l'opera dantesca e gli scritti vinciani esiste una bibliografia piuttosto estesa. Una rassegna ricca e aggiornata si ricava da Pegoretti 2018, mentre per un quadro più sintetico possono essere utili i riferimenti raccolti nelle schede redatte da Annalisa Cipollone per Vecce 2021, pp. 196-201. Si soffermano su alcune puntuali connessioni lessicali, in particolare, oltre al già citato contributo di Anna Pegoretti, gli studi recenti di Maffeis 2016 e Parenti 2020. Mi sia consentito anche un rinvio a De Blasi-Fanini-Lorenzi Biondi-Ricotta 2020, pp. 51-53.

Bibliografia
  • Alberto Magno/Hossfeld 1987-1993 = Alberti Magni ordinis fratrum praedicatorum Meteora, edidit Paulus Hossfeld, Monasterii Westfalorum, in aedibus Aschendorff.
  • Alighieri/Ageno 1995 = Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Ageno, Edizione Nazionale delle opere di Dante, Firenze, Le Lettere, 3 voll.
  • Alighieri/Mazzoni-Pistelli 2012 = Dante Alighieri, Epistole, a cura di Francesco Mazzoni ed Ermenegildo Pistelli, in Le opere di Dante Alighieri, a cura della Società Dantesca Italiana, Firenze, Polistampa, pp. 573-607.
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  • GDLI = Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da Salvatore Battaglia, poi diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, UTET, 1961-2002, 21 voll.
  • GRADIT = Grande Dizionario Italiano dell’Uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro, Torino, UTET, 2000, 5 voll.
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  • Inglese 2008 = Giorgio Inglese, Beatrice e la luna. Lettura di Paradiso II, in «La Cultura. Rivista trimestrale di filosofia letteratura e storia», 46, I, pp. 137-145.
  • Lancia/Azzetta 2012 = Andrea Lancia, Chiose alla ‘Commedia’, a cura di Luca Azzetta, Roma, Salerno Editrice, 2 voll.
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  • Malato-Mazzucchi 2011 = Enrico Malato - Andrea Mazzucchi (a cura di), Censimento dei commenti danteschi, I. I commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), Roma, Salerno Editrice, 2 voll.
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Informazioni
Cita come: Barbara Fanini, Trasformazioni della materia e moti celesti. Qualche sondaggio attraverso il vocabolario scientifico di Dante e dei suoi commentatori in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 1 (2021), pp. 124-146. 10.35948/DILEF/2022.3281
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