| Articolo sottoposto a Peer Review

Sul testo del finale della Lisistrata e sul "canto tradizionale" di congedo

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 22/09/2023
  • Data accettazione: 26/10/2023
  • Data pubblicazione: 14/11/2023

Abstract

Il confronto col finale degli Acarnesi, dei Cavalieri, delle Rane e del Pluto non incoraggia, diversamente da quanto a volte si afferma, a ritenere integro quello della Lisistrata. Nella lacuna deve essere andata perduta non una lunga parte lirica, ma una breve formula di congedo sì.

 

A comparison with the final scenes of Acharnians, Knights, Frogs, and Plutus does not suggest – as some scholars indeed assume – that Lysistrata’s one is complete. Some words must be missing: probably just a brief conclusive statement, not a long lyric sequence.


Parole chiave
Keywords

L’importanza dei tre brani lirici che concludono la Lisistrata (cantati da uno Spartano ai vv. 1247-72, da personaggi ateniesi1 a 1279-94 e di nuovo dallo Spartano a 1296-1321) è giustamente segnalata nei commenti recenti, ed è stata ribadita da ultimo da Luca Bettarini in un lavoro ampio e molto ben argomentato2. Su ciò non ho nulla da aggiungere: ritengo invece che sul problema testuale degli ultimi versi tramandati possa essere utile qualche ulteriore riflessione. Questo il testo di 1320-213:

καὶ τὰν σιὰν δ᾿ αὖ τὰν κρατίσταν
1320
     Χαλκίοικον ὕμνη
1321a
τὰν παμμάχον...
1321b

1320-21b καὶ τὰν κρατίσταν παμμάχον, τὰν Χαλκίοικον ὕμνη van Leeuwen, qui etiam vv. 1295-1321 ante 1273 transposuit : τὰν δ᾿ αὖ σιὰν τὰν π., τὰν Χ. ὕ. Henderson     1321a ὕμνη Burges : ὕμνει codd.     1321b παμμάχον R p : πρόμαχον B : τὰν παμμάχον del. Dindorf     post 1321b aliquid excidisse putant vv. dd. complures

 

Si è perso qualcosa alla fine? Vari studiosi lo credono, e io sono tra questi: l’affermazione di Wilamowitz, «è ovvia l’inverosimiglianza che il canto e soprattutto il dramma terminassero con τὰν παμμάχον»4, mi pare del tutto condivisibile. Di rimuovere l’imbarazzante παμμάχον non si vede il modo5; anticiparlo alla quartultima posizione, espungendo come glossa vuoi τὰν σιάν con van Leeuwen (καὶ τὰν κρατίσταν παμμάχον, τὰν Χαλκίοικον ὕμνη: lo seguono Coulon e Cantarella)6, vuoi τὰν κρατίσταν con Henderson (τὰν δ᾿ αὖ σιὰν τὰν παμμάχον, τὰν Χαλκίοικον ὕμνη: con lui Sommerstein e Mastromarco)7, rende meno vistoso il paradosso ma certo non lo elimina.

Questo problema (a mio avviso reale) si intreccia in certa misura con un altro (secondo me solo apparente, ma la questione è discussa), di natura più propriamente strutturale: l’assenza, nel testo, di quell’inno ad Atena che i vv. 1320-21 sembrerebbero annunciare, col risultato di una chiusa piuttosto brusca, mentre i vv. 1291-94 (ἀλαλαλαί, ἰὴ παιών· / αἴρεσθ᾿ ἄνω, ἰαί, / ὡς ἐπὶ νίκῃ, ἰαί, / εὐοῖ εὐοῖ, εὐαῖ εὐαῖ, nel canto ateniese) suonerebbero molto più adatti come finale di commedia. Wilamowitz pensava che alla fine si fosse perduto un ulteriore brano lirico ateniese, in responsione con quello dei vv. 1247-728. Invece van Leeuwen proponeva di trasporre i vv. 1295-1321 prima di 1273, ponendo così le due monodie spartane l’una di seguito all’altra e lasciando l’ultima parola al Coro: questa proposta fu sviluppata da Srebrny, considerata con interesse da Paduano, e di recente sostenuta da un ottimo conoscitore di Aristofane come Maurizio Sonnino9. Ciò risolverebbe automaticamente, com’è ovvio, anche il problema di τὰν παμμάχον. Non nego che la trasposizione mi tenti, e certo essa avrebbe i suoi vantaggi: tuttavia continuano a sembrarmi cogenti sia le articolate obiezioni di Henderson, sulla coerenza drammaturgica dell’intera sezione 1273-1321, sia quelle più recenti di Bettarini, che mostra molto bene come la seconda monodia laconica, con la rappresentazione di una Sparta irenica e idealizzata, sia del tutto funzionale alla conclusione della commedia10.

Se dunque non si traspongono i vv. 1295-1321, la difficoltà di τὰν παμμάχον torna a proporsi. Tra gli editori recenti che non ricorrono alla trasposizione, Wilson, Landfester e Perusino ammettono una lacuna finale11; Henderson e Sommerstein invece no, sostenendo che un inno conclusivo doveva esservi stato, ma un inno “tradizionale”, di origine più antica, non composto dal poeta e quindi non tramandato nei manoscritti aristofanei:

The actual exit-hymn was not preserved because it was traditional and not composed by Ar. This is usual, cf. Ach. 1233-4, Eq. (the chorus, departing to a feast, must have done so in traditional symposiac song), Ra. 1524-7 (songs from Aischylos), Pl. 1209. When Ar. composed special exit-songs they are preserved (Ve., Pax, Av.). Thus we need not assume that anything has been lost after 132112. 

È proprio su quest’ultimo punto che vorrei soffermarmi (sinora, beninteso, ho espresso le mie opinioni ma non ho detto niente di sostanzialmente nuovo), nel tentativo di fare chiarezza su come siffatti “canti tradizionali” potessero integrarsi col testo aristofaneo vero e proprio. Quante problematiche emergano dallo studio delle scene finali di Aristofane, la ricerca recente l’ha mostrato assai bene13. Qui il mio proposito è molto più circoscritto, e si può riassumere in una domanda banale: quali sono le ultime battute che il Coro o altri personaggi pronunciano nella chiusa della commedia, e cosa implicano? Senza obliterare la specificità di ciascun dramma, credo che possiamo isolare alcune tipologie.

(I) «Abbiamo fatto abbastanza». È il caso delle Nuvole e delle Tesmoforiazuse. In Th. 1226-31 il Coro, dopo aver mandato al diavolo l’angosciato arciere scita, conclude:

ἀλλὰ πέπαισται μετρίως ἡμῖν·
ὥσθ᾿ ὥρα δή ᾿στι βαδίζειν
οἴκαδ᾿ ἑκάστῃ. τὼ Θεσμοφόρω δ᾿
ἡμῖν ἀγαθήν
τούτων χάριν ἀνταποδοῖτον,

«Ma abbiamo scherzato a sufficienza: è ora che ciascuna se ne vada a casa. E le due dee Tesmofore ci concedano, in cambio di tutto ciò, la grazia del successo». Il breve congedo anapestico sembra improntato a «una tecnica usuale nelle scene finali di Sofocle e di Euripide»14. Ancor più brusca – e tuttavia inequivocabile – la chiusa di Nub. 1510-11, ove il Coro, dopo la vendetta di Strepsiade ai danni di Socrate e della sua scuola (che si chiudeva al v. 1509 con una condanna morale lapidaria e definitiva: μάλιστα δ᾿ εἰδὼς τοὺς θεοὺς ὡς ἠδίκουν, «soprattutto perché, lo sai, hanno oltraggiato gli dèi»15), pone un sigillo di soli due dimetri anapestici: ἡγεῖσθ᾿ ἔξω· κεχόρευται γὰρ / μετρίως τό γε τήμερον ἡμῖν, «Lasciateci uscire: per oggi abbiamo danzato a sufficienza». Un finale che «is little more than the verbal equivalent of dropping the curtain [...] but is peculiar in being entirely colourless»16. C’era, in queste due commedie, un qualche ulteriore effetto acustico all’uscita del Coro? Impossibile dirlo; che però vi fosse un canto, è a mio avviso piuttosto improbabile. Forse l’esodo avveniva rapidamente, con solo un accompagnamento musicale.

(II) «Evviva, evviva!». Così terminano le Ecclesiazuse (commedia ambigua più di ogni altra: ma non è questa la sede per occuparsene). Il Coro aveva annunciato al v. 1153 di voler intonare un «canto di preludio al banchetto» (μέλος τι μελλοδειπνικόν), che dopo l’appello al pubblico in tetrametri trocaici catalettici dei vv. 1155-6217 si concretizzerà nei fantasmagorici composti di stile iper-ditirambico che descrivono il menu ai vv. 1169-78. Come che sia, la commedia termina con una breve ma entusiastica esortazione generale, vv. 1180-83: αἴρεσθ᾿ ἄνω, ἰαί, εὐαί, / δειπνήσομεν, εὐοῖ, εὐαί, / εὐαί, ὡς ἐπὶ νίκῃ18. / εὐαί, εὐαί, εὐαί, εὐαί, «Saltate su, evviva evviva, / si andrà a banchetto, evviva evviva, / evviva, per la vittoria: / evviva evviva evviva evviva!»19. Anche in questo caso la conclusione è netta, e non si vede proprio come potesse esservi un’ulteriore parte cantata (e infatti, a quanto mi risulta, nessuno ha mai ipotizzato che vi fosse).

(III) Canti ampi e (variamente) originali. Quelli composti da Aristofane: è il caso sicuramente di Vespe e Uccelli, in sostanza anche della Pace. Spassoso e letterariamente elaborato quello delle Vespe (vv. 1518-37), che è allo stesso tempo uno scherzo sul poeta tragico Carcino e i suoi figli, una parodia dello stile solenne20 e un esplicito congedo unito alla rivendicazione della propria originalità (vv. 1535-7, i tre finali: ἀλλ᾿ ἐξάγετ᾿, εἴ τι φιλεῖτ᾿, ὀρχούμενοι θύραζε / ἡμᾶς ταχύ· τοῦτο γὰρ οὐδείς πω πάρος δέδρακεν, / ὀρχούμενος ὅστις ἀπήλλαξεν χορὸν τρυγῳδῶν, «ma, se ciò vi piace, danzando fateci uscire rapidamente: questo infatti nessuno l’ha mai fatto prima, congedare un coro comico a passo di danza»). Non meno significativo quello degli Uccelli (vv. 1720-54, 1763-5), che celebra il successo definitivo di Pisetero e le sue nozze con Basileia21 acclamando lo scaltro uomo-uccello come nuovo Zeus e addirittura, nell’ultimo verso, δαιμόνων ὑπέρτατε, «sommo tra gli dèi» – questo al di là di come si intenda la commedia, utopica o distopica, e di come si ritenga che Aristofane volesse caratterizzare il nuovo τύραννος (v. 1708)22. Meno originale è il canto finale della Pace (vv. 1329-59), pronunciato in parte dal Coro e in parte dal protagonista Trigeo23, un imeneo dai toni salaci piuttosto ovvio nei suoi contenuti: comunque, anche qui la conclusione è ben marcata, ὦ χαίρετε χαίρετ᾿ ἄν-/-δρες· κἂν ξυνέπησθέ μοι, / πλακοῦντας ἔδεσθε, «addio, brava gente, addio: e se mi seguirete, mangerete delle torte»24 (vv. 1357-9). In tutti e tre i casi, il pubblico di Aristofane non doveva aver dubbi sul fatto che i versi finali – quelli che la tradizione medievale ci ha conservato come tali – erano davvero la fine del canto di congedo.

(IV) Canti mancanti, ossia quelli di cui sopra, i presunti “canti tradizionali” riusati da Aristofane per l’uscita del Coro e non conservati nella tradizione manoscritta. Questo sarebbe il caso di Acarnesi, Rane, Pluto e forse Cavalieri, che metterà conto esaminare in dettaglio.

(a) In Ra. 1525-7 il Coro è espressamente invitato ad accompagnare Eschilo con canti tratti dalle sue tragedie: προπέμπετε / τοῖσιν τούτου τοῦτον μέλεσιν / καὶ μολπαῖσιν κελαδοῦντες, «scortatelo con melodie e canti, quelli di lui stesso». Questi non sono in realtà gli ultimi versi tramandati nella tradizione manoscritta delle Rane, poiché ad essi seguono, pronunciati dal Coro, sei esametri dattilici. Ciò non è un problema: da un lato, questi ultimi non sono opera di Eschilo, e quindi si capisce che il canto eschileo deve ancora arrivare25; dall’altro, gli esametri svolgono un’adeguata funzione conclusiva26, dichiarando che grazie al poeta redivivo si porrà fine alla guerra. I μέλη e le μολπαί di origine eschilea, in altre parole, sono un «di più», magari belli ed evocativi, ma drammaturgicamente non indispensabili.

(b) Lo stesso vale per gli Acarnesi, che terminano con l’annuncio ἀλλ᾿ ἑψόμεσθα σὴν χάριν / τήνελλα καλλίνικον ᾄ-/-δοντες σὲ καὶ τὸν ἀσκόν, «ti seguiremo, in tuo onore cantando ‘Evviva, vittoria!’ per te e per l’otre» (vv. 1232-4). Se il Coro dichiara che seguirà il protagonista cantando, probabilmente lo farà davvero, intonando – come i commentatori non mancano di rilevare – quel canto di vittoria per Eracle e Iolao che la tradizione antica attribuiva ad Archiloco (τήνελλα καλλίνικε etc.: fr. °°324 West2). Ma anche qui si tratta di un elemento ornamentale: il suo incipit è stato già preannunciato ai vv. 1227-8 e abbondantemente ripetuto ai vv. 1230-1 e 1233, mentre le ultime parole del Coro, σὲ καὶ τὸν ἀσκόν, opportunamente focalizzano l’attenzione su Diceopoli, il protagonista, e sull’otre di vino, segno tangibile della sua vittoria e della sua vita finalmente spensierata.

(c) Una dichiarazione simile è alla fine del Pluto, vv. 1208-9: οὐκ ἔτι τοίνυν εἰκὸς μέλλειν οὐδ᾿ ἡμᾶς, ἀλλ᾿ ἀναχωρεῖν / εἰς τοὔπισθεν· δεῖ γὰρ κατόπιν τούτοις ᾄδοντας ἕπεσθαι, «neanche a noi si conviene attardarci ancora: torniamo indietro, è il caso di seguire costoro che cantano». Anche qui il Coro annuncia un canto di uscita, e anche qui esso risulta accessorio: i due versi conclusivi, con l’affermazione che è ormai tempo di andare, sono un congedo efficace e assai simile a quello che abbiamo visto al punto (I) per Nuvole e Tesmoforiazuse.

(d) Infine, i Cavalieri. Qui il canto non è menzionato, così che la sua eventuale presenza è risultato di una deduzione. La commedia termina, insolitamente, con una lunga sequenza in recitativo; negli ultimi tre versi Demos dice al Salsicciaio:

ἕπου δὲ ταυτηνὶ λαβὼν τὴν βατραχίδα·
κἀκεῖνον ἐκφερέτω τις ὡς ἐπὶ τὴν τέχνην,
ἵν᾿ ἴδωσιν αὐτόν, οἷς ἐλωβᾶθ᾿, οἱ ξένοι,

«Prendi questa veste qui, color verde rana, e seguimi: quanto a costui, qualcuno lo porti fuori a fare il suo mestiere, affinché lo vedano gli stranieri che era solito vessare» (vv. 1406-8). Alcuni editori ritengono che siano caduti dei versi dopo 140827; altri, tra cui Sommerstein, Zimmermann e il già citato Henderson, pensano invece che vi fosse uno dei suddetti “canti tradizionali”28. In effetti, quando gli attori e il Coro lasciavano la scena avevano bisogno di qualche forma di accompagnamento: poteva trattarsi semplicemente di applausi e di grida di giubilo, come proponeva a suo tempo van Leeuwen respingendo l’idea di una lacuna propriamente detta29, ma giustappunto il parallelo di Acarnesi, Rane e Pluto rende plausibile, a mio avviso, l’ipotesi del canto non-aristofaneo. Come che sia, canti o clamori erano, ancora una volta, qualcosa di aggiuntivo: la condanna del Paflagone ai vv. 1407-8 è il suggello perfetto per questa commedia, che proprio a tale obiettivo tendeva costantemente durante tutto il suo dipanarsi.

Traendo le fila, mi sembra che le varie tipologie di finali aristofanei che abbiamo passato in rassegna abbiano, al di là di diverse strategie drammatiche e di singole peculiarità, almeno un importante elemento in comune: la compiutezza concettuale. Che si tratti di congedarsi dal pubblico (Nub., Vesp., Thesm., Pl.), di celebrare il protagonista (Ach., Pax, Av.) o un’altra occasione festosa (Eccl.), di predire un futuro migliore (Ran.) o di sancire la punizione di Cleone (Eq.), quelli che la tradizione medievale ci ha conservato come gli ultimi versi di ciascuna commedia rappresentano effettivamente un finale adeguato: sono le parole con cui ci aspetteremmo che la vicenda (anche quelle intrinsecamente ambigue, quali i Cavalieri 30, gli Uccelli e le Ecclesiazuse) si concludesse, senza espressioni o concetti che destino perplessità – come è invece il caso di τὰν παμμάχον nella Lisistrata. Il “canto tradizionale” è un intrattenimento aggiuntivo che non ha nulla a che fare con tutto questo. Quando supponiamo – probabilmente a ragione – che esso ci fosse, la sua presenza la desumiamo dalle esigenze sceniche: quelle espressive e concettuali sono pienamente soddisfatte dal testo di Aristofane, che dice compiutamente tutto ciò che vuole dire al suo pubblico, non lasciando nulla in sospeso. Tranne, appunto, che in Lys. 1321.

In definitiva, la fine del testo tràdito della Lisistrata, diversa da quella delle altre dieci commedie aristofanee superstiti, non sembra proprio accettabile come conclusione del dramma – per meglio dire, del testo composto da Aristofane: il “canto tradizionale”, se c’era, non influisce sulla questione31. Non credo proprio che si sia perduto un brano lirico intero, come riteneva Wilamowitz32; verosimilmente la lacuna ci avrà privato di solo un verso o due (così Zieliński, e più di recente Landfester)33, in cui forse τὰν παμμάχον era parte di un’antitesi: «la dea guerriera, <che ora sia custode della pace e della nostra concordia> », o qualcosa del genere34. Questa sarebbe, credo, una conclusione adeguata. Chi rifiuti l’idea della lacuna, potrà sempre accogliere la trasposizione dei vv. 1295-1321 proposta da van Leeuwen. Ciò che mi pare assodato è che la commedia non poteva concludersi col v. 1321, e che l’eventuale presenza del “canto tradizionale” non costituisce un argomento per la difesa del testo tràdito così com’è35.

Note
  • 1

    Verosimilmente il Coro, benché non siano mancate attribuzioni alternative: vedi Perusino 2020, pp. 320-321, e Bettarini 2022, p. 86 e nn. 4-6.

  • 2

    Bettarini 2022 (che a p. 86 definisce, non a torto, questo passo come un «eccezionale epilogo scenico»).

  • 3

    L’apparato critico qui allestito si basa sui dati offerti dalle edizioni disponibili (da cui derivano anche i sigla: R = Ravennas 429, p = Vaticanus Pal. Gr. 67 + Hauniensis 1980, B = Parisinus Gr. 2715): la sua dimensione decisamente amplior rispetto a quelli usuali è finalizzata alla discussione che segue (ulteriori dettagli nell’utile repertorio di Henderson 1978, p. 119). Stampo il testo secondo la colometria di Perusino 2020, p. 337 (già in Perusino 1999 e 2016, pp. 87-88): 1320 ia + reiz, 1321a ith, 1321b probabile metron giambico con eventuale lacuna a seguire (vedi infra).

  • 4

    Wilamowitz 1927, p. 198: «Daß mit dem τὰν παμμάχον unmöglich das Lied und erst recht nicht das Drama schließen konnte, liegt auf der Hand». Secondo Paduano 1981, p. 185 n. 127, «Solo alla sensibilità moderna può apparire sconcertante che una commedia incentrata sull’ossessiva aspirazione alla pace si chiuda con l’invocazione rituale di una divinità bellicosa, e accentuandone i tratti militari»: credo in realtà che anche agli Ateniesi del 411 a.C., provati da una lunga guerra e memori del recente disastro in Sicilia, ciò avrebbe fatto un effetto non dissimile da quello che fa a noi. Nulla da dire sull’invocazione ad Atena, ma tra i tanti suoi epiteti Aristofane non era obbligato a scegliere proprio παμμάχος. La teoria di Anderson 2011-12, che vi vede un gioco anfibologico tra πάμμαχος come termine sportivo (la dea degli Spartani) e παμμάχος come epiteto guerresco (la protettrice degli Ateniesi), non risolve il problema della contraddizione pace/guerra.

  • 5

    «Τὰν παμμάχον ut glossema ad τὰν κρατίσταν adscriptum delendum censet et uncinis includit Dind. Minime probabiliter, opinor [...]. Quis enim τὰν κρατίσταν per τὰν παμμάχον explicuisse interpretem crediderit?» (Blaydes 1880, pp. 157-158, che aveva perfettamente ragione; peccato che poi nel commento a p. 315 egli virasse su un infelice «Reponendum forsan τὰν πρόμαχον», una lectio deterior su cui vd. Revermann 2006, p. 257 n. 50). Il riferimento è a Dindorf 1837, p. 818.

  • 6

    Vedi van Leeuwen 1903, p. 172; Coulon 1928, p. 177; Cantarella 1956, p. 392.

  • 7

    Henderson 1987, pp. 63 e 222; Sommerstein 1990, p. 152; Mastromarco - Totaro 2006, p. 432 (la Lisistrata è stata curata da Mastromarco).

  • 8

    Wilamowitz 1927, p. 199.

  • 9

    Dopo van Leeuwen 1903, pp. 170-174, vedi Srebrny 1961; Paduano 1981, p. 185 n. 127; Sonnino 2018, pp. 304-306 (che, per litteras, mi fa notare anche l’analogia con la nota chiusa euripidea di IT 1497-99 = Ph. 1764-66 = Or. 1691-93 = Hipp. 1466a-c Barrett ὦ μέγα σεμνὴ Νίκη, τὸν ἐμὸν / βίοτον κατέχοις / καὶ μὴ λήγοις στεφανοῦσα, benché essa sia da vari studiosi ritenuta spuria: per una discussione recente vedi Kyriakou 2006, pp. 467-468).

  • 10

    Henderson 1987, pp. 213-214 (cfr. Mastromarco - Totaro, p. 432 n. 245); Bettarini 2022, passim, specialmente pp. 87 e 96-98. Per questo rimango assai scettico sull’ipotesi, indubbiamente originale, di Taplin 1993, p. 58 n. 7, sviluppata da Revermann 2006, pp. 257-260, secondo cui il secondo canto spartano sarebbe un’aggiunta nata in occasione di una presunta replica della commedia in un ambiente dorico (perplesso anche Sonnino 2018, p. 305; cauta Di Bari 2013, p. 51 n. 16).

  • 11

    Wilson 2007, II p. 65; Landfester 2019, pp. 243 e 247; Perusino 2020, p. 148 (ma con qualche incertezza nel commento a p. 330). Così anche Parker 1997, p. 395: «the MS text as it stands [...] is not unmetrical, but merely truncated».

  • 12

    Henderson 1987, p. 214; similmente Sommerstein 1990, p. 224 («these words, like the concluding words of Acharnians (1233-4) and Wealth (1209) as transmitted, are evidently designed to introduce an exit-song for the chorus which, as in those two plays, does not appear in the book-text and presumably never did. Probably in all three cases the exit-songs were omitted from the texts because their words (and no doubt their music too) were traditional and neither composed nor adapted by the dramatist»). L’idea del “canto tradizionale” è condivisa anche dalla Perusino (2020, p. 330), che tuttavia segna lacuna nel testo.

  • 13

    Basti citare il ricco volume di Di Bari 2013 (con la recensione di Napolitano 2015b) e le lucide panoramiche di Napolitano 2015a e 2017, ai quali si rimanda per ulteriore bibliografia.

  • 14

    Prato 2001, p. 341. Similmente Austin - Olson 2004, p. 350; Di Bari 2013, p. 443 e n. 132.

  • 15

    Sulla questione, qui ininfluente, dell’attribuzione del v. 1509 basti rimandare a Di Bari 2013, pp. 297-299.

  • 16

    Dover 1968, p. 268 (come dargli torto?). Cfr. anche Di Bari 2013, pp. 327-328.

  • 17

    «Una delle testimonianze più note di modifica dell’ultim’ora di un testo teatrale» (Vetta 1989, p. 274, che illustra bene la genesi di questi versi).

  • 18

    «εὐαί post νίκῃ traicere malit Sommerstein» (Wilson 2007, II p. 265).

  • 19

    Salta agli occhi la stretta somiglianza coi già citati versi di Lys. 1291-94, quelli che costituirebbero la fine della commedia se si accettasse la trasposizione postulata da van Leeuwen.

  • 20

    Cfr. i vv. 1518-22 ἄγ᾿, ὦ μεγαλώνυμα τέκνα τοῦ θαλασσίοιο, / πηδᾶτε παρὰ ψάμαθον / καὶ θῖν᾿ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο, καρίδων ἀδελφοί, con Biles - Olson 2015, pp. 511-512. Ovviamente, «some of the dancing may have been accompanied by music without words, and so the passage may have lasted longer than the time it would take to sing the words straight through» (MacDowell 1971, p. 330; comunque resta il dubbio se si trattasse di danza o eventualmente di ua sorta di pantomimo, come argomentò in uno studio importante Rossi 1978).

  • 21

    Aristofane rielabora qui motivi di due suoi finali precedenti, quello degli Acarnesi e quello della Pace: vedi soprattutto Perusino 1966 (qualche osservazione anche in Magnelli 2007, pp. 120-121).

  • 22

    Come io legga gli Uccelli, l’ho argomentato in Magnelli 2007 e 2017, pp. 397-401; mi conforta il consenso di Napolitano 2015a, p. 90 n. 25 ~ 2017, p. 331 n. 25 (sui toni macabri dell’ultima parte della commedia insiste giustamente anche Lomiento 2007, pp. 316-317). Per una prospettiva diversa, più carnevalesca e non distopica, vedi da ultimo Grilli 2021, pp. 63-77 e 169-187 (sulle cui affermazioni, purtroppo in più di un caso errate, mi riprometto di tornare in futuro).

  • 23

    La divisione delle battute è tutt’altro che chiara: vedi Platnauer 1964, pp. 173-174; Olson 1996, p. 34; Pirrotta 2016, p. 51; Lomiento 2022, pp. 207-208 e nn. 25-26.

  • 24

    Sulle varie sfumature e i vari destinatari di questo «seguitemi» vedi Olson 1998, p. 318; quanto a χαίρετε, Leonardo Fiorentini (per litteras) mi fa notare che esso «ha un valore che rimanda alla sfera religiosa sul piano lessicale anche se qui quasi del tutto desacralizzata. Questo a me pare un argomento importante: se Aristofane introduce un genere diverso lo adatta alla commedia». Per un’analisi complessiva del finale della Pace è tuttora importante Cassio 1985, pp. 139-147; sulle implicazioni della struttura metrica, cfr. Lomiento 2007, p. 326.

  • 25

    «This is not itself an Aeschylean song [...]. It may be that it is sung while the whole chorus is still in the orchestra and that the song is followed, as they leave, by a song which Aristophanes did not compose but took from an Aeschylean play» (Dover 1993, pp. 383-384). Se si trattasse di esametri recitati o lirici, è questione che non ci riguarda in questa sede (vedi Marcucci 2020, p. 237).

  • 26

    Per cui cfr. Cratin. fr. 255 K.-A., un esametro che a quanto attesta Elio Aristide veniva dal finale dei Chironi e potrebbe addirittura esserne il verso conclusivo: vedi Marcucci 2020, p. 117-119, e Fiorentini 2022, pp. 132-137.

  • 27

    Così p. es. Dindorf 1837, p. 365; di recente Wilson 2007, I p. 128. Accurata documentazione e discussione in Di Bari 2013, pp. 51-58; ottime ragioni per l’assenza di un esplicito intervento finale del Coro adduce ora Lomiento (c.d.s.).

  • 28

    Henderson 1987, p. 214 (cit. supra); Zimmermann 1985, pp. 78-79; così anche Sommerstein 1981, p. 220 e 1990, p. 224, pur con una certa prudenza (altrettanto prudente Di Bari 2013, pp. 60-61).

  • 29

    Argomentava van Leeuwen 1900, p. 239: «In fine aliquot versus Chori (Coryphaei) excidisse statuit Bergk; Demi ultima verba mutila esse totumque adeo fabulae exitum periisse Kirchhoffii est opinio. Unus certe versus sufficiebat, qualis in exitu Nubium legitur; sed neque ille tetrameter necessarius erat ad fabulam explendam neque nostro loco desiderari quidquam censeo equidem. Motu et gestu et clamoribus, non verbis ultima transiguntur» (per altre ipotesi affini cfr. Di Bari 2013, pp. 59-60).

  • 30

    Il cui finale, sul piano ideologico, suscita più di una perplessità: vd. almeno Di Bari 2013, pp. 44-49, con ampia bibliografia; Napolitano 2015a, p. 90, e soprattutto 2015b, pp. 564-567; Pirrotta 2016, pp. 36-45.

  • 31

    Concordo pienamente con Bettarini 2022, p. 98, quando afferma che «esso non avrebbe alcuna vera funzione drammaturgica rispetto allo svolgimento della commedia».

  • 32

    Vedi supra, n. 8; adeguate obiezioni in Revermann 2006, p. 257 e n. 51, in Perusino 2007, p. 295, e da ultimo in Bettarini 2022, pp. 97-98 (che giustamente esclude una lacuna ampia; il mio solo disaccordo con lui riguarda la possibilità di una assai breve).

  • 33

    Zieliński 1885, p. 189; Landfester 2019, p. 243.

  • 34

    Mi astengo dal proporne una ricostruzione nell’originale, onde evitare che un lusus venga preso per una proposta concreta fruttandomi l’accusa di voler fabbricare brutti versi greci.

  • 35

    Ringrazio i due anonimi referees della Rivista e gli amici Leonardo Fiorentini, Liana Lomiento, Michele Napolitano e Maurizio Sonnino, che hanno letto in anteprima questa breve nota migliorandola coi loro suggerimenti; e i miei studenti neo-immatricolati all’Università di Firenze nell’a.a. 2022-’23, che hanno reso il corso di letteratura greca sulla Lisistrata particolarmente piacevole e interessante.

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Informazioni
Cita come: Enrico Magnelli, Sul testo del finale della Lisistrata e sul "canto tradizionale" di congedo in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 3 (2023), pp. 23-35. 10.35948/DILEF/2024.4336
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