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Rolling words: un’idea dell’espressione oratoria e dell’ispirazione poetica fra Antichità e Rinascimento

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 21/12/2021
  • Data accettazione: 03/02/2022
  • Data pubblicazione: 08/03/2022

Abstract

Abstract


L’articolo intende portare nuovi contributi all’interpretazione di un luogo famoso dell’Ars poetica di Orazio (323 ore rotundo...loqui) in cui il poeta esprime apprezzamento e ammirazione nei confronti dei Greci per le loro nobili attitudini e le eccellenti realizzazioni sul piano artistico e linguistico-letterario. Qual è il preciso significato nel contesto oraziano? Quali sono i precedenti greci e/o latini di una formula destinata, come tante altre incisive espressioni del poeta, ad assumere valore di proverbio? Quale ne è stato l'impiego nella significativa ricezione umanistica e quali eventuali slittamenti di senso ha comportato? In particolare ci si sofferma su aspetti trascurati della terminologia retorica e critico-letteraria come volubilis/volubilitas, in relazione all’asianesimo e alla poetica dell’ispirazione divina.


This paper intends to make new contributions to the interpretation of a famous passage in Horace's Ars poetica (323 ore rotundo...loqui) in which the poet expresses his appreciation and admiration of the Greeks for their noble attitudes and excellent achievements in the artistic and linguistic-literary spheres. What is the precise meaning in the Horatian context? What are the Greek and/or Latin precedents of a formula destined, like so many other incisive expressions of the poet, to take on the value of a proverb? What was its use in the significant humanistic reception and what shifts in meaning did it entail? In particular, we focus on neglected aspects of rhetorical and critical-literary terminology such as volubilis/volubilitas, in relation to Asianism and the poetics of divine inspiration.



Parole chiave
Keywords

Dopo la celebre formula che identifica nell’insufficiente impegno nella cura e nella paziente rifinitura della forma (limae labor et mora) la principale mancanza che ha impedito alla poesia latina di raggiungere quell’eccellenza che Roma detiene indiscutibilmente come potenza politico-militare, Orazio maestro dell’Ars poetica esorta all’incontentabile fatica della correzione i suoi compatrioti, attraverso un’apostrofe ai destinatari, i Pisones:

Hor. Ars poet. 289-94

nec virtute foret clarisve potentius armis

quam lingua Latium, si non offenderet unum

quemque poetarum limae labor et mora. vos, o

Pompilius sanguis, carmen reprehendite, quod non

multa dies et multa litura coercuit atque

praesectum deciens non castigavit ad unguem.

La solennità dell’apostrofe ai Calpurnii Pisones come Pompilius sanguis risponde, come già i commentatori antichi osservavano, alle ragioni di un omaggio erudito-antiquario alla famiglia che vantava la propria discendenza da Numa Pompilio1, ma suggerisce anche l’idea che la comunità romana, perfettamente compiuta come discendenza del fondatore Romolo, il re guerriero da cui hanno origine le istituzioni politico-militari, è invece almeno parzialmente carente nelle arti che venivano ricondotte al secondo fondatore di Roma, l’eroe civilizzatore Numa Pompilio, auctor delle istituzioni religiose e, più in generale, delle arti della pace e della raffinatezza civile2. Tocca dunque alla sua stirpe assumere un ruolo propulsivo per garantire finalmente a Roma quel progresso nelle realizzazioni linguistico-letterarie che può essere ottenuto solo attraverso un severo e inflessibile controllo della perfezione formale.

L’inferiorità artistico-letteraria da cui Roma stenta ancora ad emanciparsi (è questo il grande compito della generazione dei poeti moderni, chiamati a sostituire il canone dei poeti arcaici, ormai avvertiti come inadeguati dal punto di vista dell’eccellenza formale3) risalta ancora più chiaramente da una synkrisis tra i Greci e i Romani in cui si rimarca come il gap ancora chiaramente avvertibile tra i due sistemi letterari affonda le sue radici in una profonda differenza culturale, per non dire antropologica:

Hor. Ars poet. 323-32

Grais ingenium, Grais dedit ore rotundo

Musa loqui, praeter laudem nullius avaris.

Romani pueri longis rationibus assem

discunt in partis centum diducere. 'dicat

filius Albini: si de quincunce remota est

uncia, quid superat? poteras dixisse.' 'triens.' 'eu,

rem poteris servare tuam. redit uncia, quid fit?'

'semis.' an, haec animos aerugo et cura peculi

cum semel imbuerit, speremus carmina fingi

posse linenda cedro et levi servanda cupresso?

I Greci hanno ricevuto dalla Musa il dono del talento e della parola che fluisce dalla bocca senza intoppi, in maniera formalmente perfetta, rapida, abbondante e scorrevole, grazie al fatto che l’aspirazione alla gloria intellettuale e letteraria costituisce il loro desiderio più intenso, anzi la loro unica avidità. I Romani, invece, come dimostra un sistema educativo attento a inculcare nei bambini le tecniche e la capacità del far di conto, sono dominati da interessi di natura pratica ed economica: consumati come sono dall’avaritia, che attraverso la cura peculi fin dall’infanzia ha profondamente imbevuto il loro animo, difficilmente si può sperare che dedichino le loro migliori energie alla letteratura e alla composizione di una poesia di alta qualità che possa portarli al livello dei Greci.

Se l’apprezzamento e l’ammirazione che Orazio esprime nei confronti dei Greci per le loro nobili attitudini e le eccellenti realizzazioni sul piano artistico e linguistico-letterario sono stati generalmente riconosciuti, solo recentemente si è indagato più a fondo sull’espressione icastica con cui il poeta riconosce loro la perfezione nell'eloquio: a quali aspetti e a quali concetti fa riferimento una frase come ore rotundo...loqui?4 Quale ne è il preciso significato nel contesto oraziano? Quali sono i precedenti greci e/o latini di una formula destinata, come tante altre incisive espressioni del poeta, ad assumere valore di proverbio? Quale ne è stato l'impiego nella significativa ricezione umanistica e quali eventuali slittamenti di senso ha comportato?

Prima di procedere, è tuttavia opportuno fare un passo indietro, per ricordare quali considerazioni Orazio inserisca tra il riconoscimento della inadeguatezza dei Latini nella rifinitura formale dei loro prodotti letterari e la synkrisis che permette di cogliere le profonde differenze culturali e antropologiche tra i due popoli.

La congenita renitenza dei Romani alle pazienti fatiche del labor limae viene infatti ironicamente connessa dal poeta alla dilagante adesione, decisa quanto superficiale, dei suoi contemporanei a quella concezione democritea della poesia5 che, assegnando assoluta preminenza alle benedizioni dell'ingenium rispetto al penoso impegno nell'ars, ha avvalorato il cliché del poeta invasato che identifica nei tratti più esteriori dell'insania e dell'ἐνθουσιασμός (sporcizia, trasandatezza, asocialità) il marchio più facilmente riconoscibile della vera poesia:

Hor. Ars poet. 295-301

ingenium misera quia fortunatius arte

credit et excludit sanos Helicone poetas

Democritus, bona pars non unguis ponere curat,

non barbam, secreta petit loca, balnea vitat.

nanciscetur enim pretium nomenque poetae,

si tribus Anticyris caput insanabile numquam

tonsori Licino conmiserit.

Orazio si rammarica sarcasticamente della diligente abitudine terapeutica che ogni primavera lo induce a sottoporsi a una efficace profilassi contro i disturbi mentali, terapia che però avrebbe lo spiacevole ‘effetto collaterale’ di negargli l'ambizione di essere lui poeta, lasciandogli solo la possibilità di esercitare la più modesta funzione di maestro dell'ars poetica, di insegnare agli altri quel che lui, escluso dal furor poetico, non sarebbe in grado di realizzare:

Hor. Ars poet. 301-6

o ego laevus,

qui purgor bilem sub verni temporis horam

non alius faceret meliora poemata; verum

nil tanti est. ergo fungar vice cotis, acutum

reddere quae ferrum valet exsors ipsa secandi;

munus et officium, nil scribens ipse, docebo.

Invece che corrispondere alle aspettative del lettore che ha seguito fin qui il filo dell’argomentazione, il maestro non inaugura il suo specifico programma didascalico (da dove il poeta debba attingere le sue risorse, che cosa alimenti e modelli il suo ruolo, che cosa sia conveniente o sconveniente per il poeta, quale sia un percorso virtuoso e quale invece un percorso erroneo) con indicazioni relative alla forma, cioè al miglioramento dell’espressione linguistica e stilistica riguardo alla quale i suoi compatrioti si sono dimostrati particolarmente carenti, ma parte dall’assunto che elemento determinante è invece il contenuto (res), mentre la buona resa formale non è che la conseguenza di un contenuto moralmente pregevole e filosoficamente solido, come quello che si può ottenere dalla frequentazione delle Socraticae chartae6:

Hor. Ars poet. 307-11

unde parentur opes, quid alat formetque poetam,

quid deceat, quid non, quo virtus, quo ferat error.

scribendi recte sapere est et principium et fons.

rem tibi Socraticae poterunt ostendere chartae

verbaque provisam rem non invita sequentur.

La preminenza, in letteratura, dei contenuti morali sarebbe dimostrata dal fatto che, per il poeta drammatico, una fabula che può farsi valere per l’efficace e coerente rappresentazione dei caratteri piacerà al pubblico anche se non è dotata di attrattive formali particolarmente accattivanti, a differenza della scarsa presa sul pubblico di una poesia vuota di contenuti e ricca soltanto di piacevoli quanto futili sonorità:

Hor. Ars poet. 319-22

interdum speciosa locis morataque recte

fabula nullius veneris, sine pondere et arte,

valdius oblectat populum meliusque moratur

quam versus inopes rerum nugaeque canorae.

È a questo punto che viene introdotta la synkrisis tra Greci e Romani che riconosce l’eccellenza dei primi in quanto detentori di un equilibrato possesso delle componenti fondamentali che concorrono a produrre poesia di qualità: contenuti e forma, ispirazione e rifinitura, talento e tecnica. Come tutti ricordano, la risposta di Orazio a una quaestio che egli stesso presenta come lungamente dibattuta sarà quella di considerare necessarie e inseparabili ambedue queste componenti:

Hor. Ars poet. 408-11

natura fieret laudabile carmen an arte,

quaesitum est: ego nec studium sine divite vena

nec rude quid prosit video ingenium: alterius sic

altera poscit opem res et coniurat amice.

Il contesto dei vv. 323-4 sembra dunque richiedere che ore rotundo...loqui si riferisca alla sfera dell'ars come complementare a quella dell'ingenium7 e dunque esprima un apprezzamento decisamente positivo. Così del resto si intende nella nota ad l. dello pseudo-Acrone: rotundo id est perfecto; così i commentatori moderni a partire da Lambino8 e da Ernesti9. Il duplice dono offerto dalla Musa ai Greci, dono garantito da una disposizione d’animo sempre tesa al nobile conseguimento della gloria piuttosto che alla più concreta avaritia delle attività acquisitive, prevede che, anche grazie all’ispirazione e al talento (ingenium), dalle loro labbra fluisca un eloquio ricco e scorrevole, senza asperità e intoppi, attraverso una levigatezza formale capace di dare la sensazione di una naturale e abbondante fluidità. L’equivalente di rotundus nel lessico della retorica e della critica letteraria greca è stato da tempo riconosciuto nell’aggettivo στρογγύλος, che in senso concreto si applica a tutto ciò che è rotondo, sferico o comunque smussato, e in senso figurato, riferito a parole o ad espressioni o a ritmiche sequenze di membri sintattici, vale “tornito” “perfettamente arrotondato”, “rifinito con eleganza”:

«In un discorso arrotondato, le parole sono accostate con tanta cura che l'oratore può pronunciarle in modo fluente senza interrompere o spezzare il loro flusso ritmico. La "rotondità" è spesso una caratteristica specifica dei periodi in cui le clausole o i cola si susseguono così strettamente che la frase "torna su se stessa" (la metafora con cui viene chiamata "periodo") in modo "arrotondato" (cioè compatto o terso)»10.

In questa accezione στρογγύλος è usato in un passo della Retorica di Aristotele11 e poi comunemente nei trattati di storia della retorica di Dionigi di Alicarnasso12; come equivalente dell’aggettivo, rotundus viene introdotto, con giri di frase che fanno pensare a un’innovazione linguistica, nel lessico retorico latino da Cicerone: Brut. 272 verborum...apta et quasi rotunda constructio; Or. 40 praefractior nec satis, ut ita dicam, rotundus.

L’attento esame critico cui G. Bolonyai ha sottoposto le occorrenze di στρογγύλος (e termini correlati) ha tuttavia permesso di precisare molto meglio le diverse connotazioni con cui la parola e la metafora sono usate nelle attestazioni greche più antiche rispetto a questa vulgata retorica e di valutare in una luce parzialmente nuova la formula oraziana destinata a passare in proverbio. Bolonyai ha fatto giustamente notare che la storia greca della metafora non giustifica l’assunto che il termine rotundus abbia un significato univocamente positivo. In Aristoph. Ach. 684 στρογγύλος caratterizza, dal punto di vista del coro degli anziani, le aggressive (anche se efficaci) capacità oratorie, nelle aule di tribunale, della giovane generazione, che scaglia raffiche di parole arrotondate come proiettili contro gli avversari: «l'enfasi è chiaramente sull'abilità e la perfezione tecnica, ma anche sull'ambiguità di questa sofisticazione che comporta un'attività dubbia»13. Anche in un noto passo di Platone (Phaedr. 234e) l’aggettivo non ha connotazioni positive: è infatti usato ironicamente da Socrate a proposito del discorso di Lisia, in cui ogni singola parola è perfettamente e magistralmente lavorata, ma che tuttavia, poiché in seguito si dimostra privo di qualsiasi comprensione della natura dell'amore, sarà da considerare fallimentare (dunque con una opposizione tra perfezione della forma e carenza di contenuti). Anche l’aggettivo εὔτροχος (da collocare in un campo metaforico, quello della ruota, affine a στρογγύλος) viene usato negativamente in Euripide (Bacch. 269), in riferimento a Penteo che ha una «lingua agile e scorrevole», ma non dimostra senno e capacità di ragionamento. Lo stesso aggettivo viene riferito alla bocca in un frammento dell’Ippolito velato (439 Kannicht), dove probabilmente la nutrice lamenta il potere ingannevole del discorso.

La conclusione che Bolonyai trae da questa analisi è sostanzialmente plausibile, anche se fondata su una documentazione, come vedremo, lacunosa:

«Sulla base degli usi umoristici, ironici e quasi sarcastici della parola da parte di Aristofane, Euripide e Platone mi sembra possibile che ci sia un accenno di distanza e ironia nell'ammirazione apparentemente senza riserve di Orazio per i Greci, così come c'è autoironia nella sua esageratamente bassa (auto)stima dei Romani. Questa impressione può trovare sostegno nel verso che precede immediatamente il nostro brano (v. 322), in cui viene menzionato lo stesso contrasto che fa da contesto agli aggettivi euripidei e platonici: il contrasto tra parole dal bel suono ma vuote: versus inopes rerum nugaeque canorae»14.

La callida iunctura oraziana ore rotundo, attribuendo metonimicamente alla bocca la rotondità che comunemente appartiene alle parole e alle frasi che la bocca produce ed emette, non serve soltanto a sottolineare che la perfezione tecnica, diventata quasi, nei Greci, una caratteristica fisica, è così profondamente interiorizzata da funzionare naturalmente e istintivamente, ma contiene anche un tratto quasi mimico: attraverso l’insistita sequenza di ‘o’ siamo chiamati a vedere la bocca che le pronuncia atteggiarsi a quella forma circolare da cui non può che uscire un prodotto rotondo o sferico, adatto a rotolare scorrevolmente, rapidamente e senza intoppi, un prodotto cui il ripercuotersi delle sillabe consecutive ‘–re’ ‘ro-’ conferisce una sonorità vistosa e alquanto roboante. Dire che questa sottolineatura mimica suggerisca un effetto caricaturale sarebbe sicuramente eccessivo, ma forse non si può negare che contribuisca a una leggera ironia che tinge di qualche ambiguità l’ammirazione sincera ma non incondizionata per i Greci.

Non a caso, il successore di Orazio nel ‘genere minore’ della satira, Persio, esprimerà il suo rifiuto delle nugae pullatae, lo stile gonfio e vacuo in voga nella letteratura epico-tragica contemporanea, (come altrove la sua derisione del vuoto preziosismo delle mode neoterizzanti)15 con una rivisitazione di formule oraziane16: come la callida iunctura diventa scabrosa accortezza della iunctura acris, cosi la ‘rotondità’ dell’espressione perfezionata al tornio (teres), che Orazio fino a un certo punto apprezzava nei Greci, adotta esplicitamente un ‘correttivo’ (ore modico) che lo tiene lontano dalle sonorità del falso sublime e che va, seppure ben più radicalmente, nella stessa direzione dell’ironica diffidenza di Orazio stesso e della sua condanna delle nugae canorae:

Pers. 5, 7-20

grande locuturi nebulas Helicone legunto,

si quibus aut Procnes aut si quibus olla Thyestae

feruebit saepe insulso cenanda Glyconi.

tu neque anhelanti, coquitur dum massa camino,

folle premis uentos nec clauso murmure raucus

nescio quid tecum graue cornicaris inepte

nec scloppo tumidas intendis rumpere buccas.

uerba togae sequeris iunctura callidus acri,

ore teres modico, pallentis radere mores

doctus et ingenuo culpam defigere ludo.

hinc trahe quae dicis mensasque relinque Mycenis

cum capite et pedibus plebeiaque prandia noris.'

non equidem hoc studeo, pullatis ut mihi nugis

pagina turgescat dare pondus idonea fumo.

Per capire meglio il background di queste moderate riserve oraziane è importante tener presente non soltanto i passi di autori greci (autori certo familiari al Orazio) su cui Bolonyai fonda la sua analisi, ma ampliare lo sguardo a un’altra zona della terminologia retorica e critico-letteraria latina strettamente connessa allo stesso campo metaforico di rotundus. Mi pare infatti che sia rimasta completamente trascurata, fin qui, l’ampia presenza nel lessico retorico latino, prima e dopo Orazio, di un sinonimo come volubilis, anch’esso ottimo candidato a proporsi come equivalente di στρογγύλος nell’accezione di cui ci stiamo occupando.

Che volubilis e rotundus possano valere come coppia sinonimica si vede bene da una serie di passi ciceroniani che la propongono fuori dall’uso metaforico dei termini, a proposito della ‘sfericità’ del mondo e della divinità:

Cic. De nat. deor. 1, 18

mundum ipsum animo et sensibus praeditum rotundum ardentem volubilem deum


Cic. De nat. deor. 2, 46

dicat se non posse intellegere qualis sit volubilis et rotundus deus


Cic. De nat. deor. 2, 49

mundi volubilitas, quae nisi in globosa forma esse non posset, et stellarum rotundi ambitus cognoscuntur.


Cic. Tim. 35

cumque eum similem universi naturae efficere vellet, ad volubilitatem rotundavit.

Nelle opere retoriche di Cicerone volubilis e volubilitas sono menzionate come qualità apprezzabili dell’espressione oratoria, soprattutto in connessione alla scorrevolezza, abbondanza e rapidità dell’eloquio o alle sue qualità ritmiche:

Cic. Brut. 105

canorum oratorem et volubilem et satis acrem atque eundem et vehementem et valde dulcem et perfacetum fuisse dicebat.


Cic. Brut. 108

Appi Claudi volubilis sed paulo fervidior oratio.


Cic. Brut. 169

Rusticelius Bononiensis, is quidem et exercitatus et natura volubilis.


Cic. Brut. 203

incitata et volubilis nec ea redundans tamen nec circumfluens oratio.


Cic. Orat. 53

flumen aliis verborum volubilitasque cordi est, qui ponunt in orationis celeritate eloquentiam;


Cic. Orat. 210

saepe etiam in amplificanda re concessu omnium funditur numerose et volubiliter oratio.

Secondo la precettistica della Rhetorica. ad Herennium, quando l’oratore affronta la discussione con l’avversario ricorrendo a una sequenza ininterrotta di parole (continuatio) è opportuno accrescere il tono di voce e distorcere le sonorità e formare le parole rapidamente gridando, in modo che il ‘volume’ alto (vociferatio) possa conferire al discorso l’energia che ne rende scorrevole il flusso (vim volubilem):

Rhet. ad Her. 3, 25, 6

Cum autem contendere oportebit, quoniam id aut per continuationem aut per distributionem faciendumst, in continuatione, adaucto mediocriter sono vocis, verbis continuandis vocem quoque augere oportebit et torquere sonum et celeriter cum clamore verba conficere, ut vim volubilem orationis vociferatio consequi possit.

Ma la volubilitas non è certo una qualità incondizionatamente positiva. Come nel caso di στρογγύλος, assai più di rotundus, può esprimere l’idea di un facile fluire ininterrotto e rapido di parole sonore che però possono risultare prive di sostanza e vuote di contenuti:

Cic. De orat. 1, 17

Est enim et scientia comprehendenda rerum plurimarum, sine qua verborum volubilitas inanis atque inridenda est

Altrove Cicerone contrappone la linguae volubilitas, insieme ad altre abilità ‘tecniche’, alle qualità morali che invece dovrebbero essere determinanti nella scelta degli uomini che ambiscono alla funzione pubblica e al successo politico:

Cic. Planc. 61, 9

virtus, probitas, integritas in candidato, non linguae volubilitas, non ars, non scientia requiri solet.

Non stupirà dunque se troviamo la volubilitas verborum come caratteristica associata all’eloquenza abbondante, impetuosa, ma criticabile per la sua vacuità, dell’asianesimo. Secondo Svetonio, Augusto prediligeva uno stile elegante e temperato e respingeva tanto la leziosità e l’affettazione di Mecenate quanto la scabro arcaismo di Tiberio. Marco Antonio, che oscillava fra eccessi opposti, veniva da lui criticato in una allocuzione epistolare di cui il biografo riporta un brano significativo. All’ammirazione ‘nazionalistica’ per gli appassionati dello stile sallustiano-catoniano, viene contrapposta la moda esotica chi vorrebbe trasferire in latino la scorrevolezza verbale vuota di contenuti degli oratori ‘asiatici’:

Suet. Aug. 86, 2

Tuque dubitas, Cimberne Annius an Veranius Flaccus imitandi sint tibi, ita ut verbis, quae Crispus Sallustius excerpsit ex Originibus Catonis, utaris? an potius Asiaticorum oratorum inanis sententiis verborum volubilitas in nostrum sermonem transferenda?

Nel dare conto all’amico Cornelio Urso del suo successo oratorio nel processo intentato dai Bitini contro il proconsole Vareno Rufo, di cui aveva assunto la difesa, Plinio il Giovane si esprime in termini decisamente critici sulla replica della parte avversa, cui attribuisce una performance caratterizzata dal contrasto tra una verbosità fluente e impetuosa, addirittura torrenziale, e un’estrema povertà di contenuti. Questi difetti della retorica asiana sono ritenuti una caratteristica che accomuna «la maggior parte dei Greci», ai quali può essere riconosciuta la ‘parlantina’ ma non la vera eloquenza17:

Plin. epist. 5, 20, 4

Respondit mihi Fonteius Magnus, unus ex Bithynis, plurimis uerbis paucissimis rebus. Est plerisque Graecorum, ut illi, pro copia uolubilitas: tam longas tamque frigidas perihodos uno spiritu quasi torrente contorquent. Itaque Iulius Candidus non inuenuste solet dicere, aliud esse eloquentiam aliud loquentiam.

Cicerone stesso, che pure persegue una mediazione ‘rodiese’ lontana dall’asciuttezza degli atticisti, collegava il diffondersi della pratica oratoria al di fuori della Grecia verso l’Asia con uno snaturamento della purezza e della salubrità originaria a causa della contaminazione con costumi stranieri. Gli oratori Asiatici si distinguevano soprattutto per velocità e abbondanza dell’eloquio, ma peccavano di sobrietà e di senso della misura:

Cic. Brut. 51

nam ut semel e Piraeo eloquentia evecta est, omnis peragravit insulas atque ita peregrinata tota Asia est, ut se externis oblineret moribus omnemque illam salubritatem Atticae dictionis et quasi sanitatem perderet ac loqui paene dedisceret. Hinc Asiatici oratores non contemnendi quidem nec celeritate nec copia, sed parum pressi et nimis redundantes.

Nella discussione de causis corruptae eloquentiae che apre i nostri excerpta petroniani, Encolpio ripropone una tirata in cui si denuncia l’effetto pernicioso su Atene dell’invasione dall’Asia di un modello di eloquenza fatto di facilità di parola (loquacitas) smodata (enormis) e inconsistente (ventosa)18, lo stesso contrasto che abbiamo visto spesso associato alla metafora della volubilitas verborum.

Petr. 2, 7

nuper ventosa istaec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere afflavit, semelque corrupta eloquentiae regula…stetit et obmutuit.

La declinazione latina della metafora greca delle ‘parole rotolanti’ è dunque assai più complessa e variegata di quella che si realizza con il termine rotundus e in questo plesso metaforico giocano un ruolo importante anche altri termini del lessico retorico e critico-letterario come volubilis / volubilitas / volubiliter. Questa consapevolezza permette di allargare notevolmente il campo delle possibili concezioni della retorica e della poetica che si trovano a intrecciarsi e a convivere in questo campo, idee che non sempre sono convergenti, che a volte anzi possono risultare addirittura contrapposte: da una parte la perfezione formale come frutto dell’ars, della tecnica faticosa e incontentabile, dall’altra la facilità fluida e abbondante, frutto di una ispirazione che è un dono divino.

Possiamo forse capire meglio, a questo punto, quell’importante capitolo della ricezione della formula oraziana nell’umanesimo platonizzante del Quattrocento fiorentino (Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano, Naldo Naldi) su cui contiene pagine importanti l’articolo di Bolonyai da cui abbiamo preso le mosse (230-46). Non sto a ripeterne qui le analisi largamente convincenti, opportunamente corredate riferimenti alla bibliografia utile, se non per mettere in evidenza alcuni punti essenziali che hanno più stretta relazione con il nostro discorso.

L’impiego dell’espressione ore rotundo, soprattutto per impulso di Ficino, subisce un notevole slittamento rispetto al contesto originario e viene pienamente convertito nell’ambito della concezione platonica della poesia e delle sue modalità di espressione: «Ciò che viene sottolineato non è tanto (come nell'AP di Orazio) l'unità equilibrata di arte e natura…quanto piuttosto il processo naturale e senza sforzo della composizione orale sotto l'influenza divina». Questa concezione si collega alle immagini e alle metafore attraverso cui i poeti latini esprimevano gli effetti dell’ ἐνθουσιασμός «in termini di calore crescente o di eccitazione crescente, di elevazione o di volo verso l'alto, fiume in piena e di altre immagini simili». Per Ficino dunque «La bocca aperta con le labbra arrotondate non è tanto un segno di padronanza verbale (come suggerirebbe la metafora dello cesello o del tornio) quanto una manifestazione corporea di uno stato d'animo entusiasta che si concretizza nella scioltezza verbale». Questa concezione democriteo-platonica del furor divinus tende a mettere in secondo piano (anche se non ad escludere, né dal punto di vista teorico, né nella pratica poetica) l’idea oraziana del labor limae, per privilegiare piuttosto «la straordinaria facilità di parola che un poeta può possedere nella frenesia».

Secondo Poliziano, questa scioltezza raggiunge la sua forma più pura e più alta nel momento dell'improvvisazione. La figura più emblematica per lui è Omero: pulcherrima illa carmina, quae iure aetas omnis mirata est, illaborata ipsi atque extemporanea fluebant, vivoque, ut ita dixerim, gurgite exundabant. Nel commento alle Silvae, illustrando il lemma subito calore della prefazione staziana, Poliziano faceva riferimento all’autorità di Quintiliano (inst. or. 10, 3, 17), per identificare lo stato di eccitazione di questo tipo di poesia (ἐνθουσιασμός e furor19) con la caratteristica fondamentale del genere silva, che è costituita appunto dall'improvvisazione:

SUBITO CALORE. Quasi χαρακτερισμός sylvae est. Nam ut dictum a Fabio est, qui sylvam componunt calorem atque impetum sequentes ex tempore scribunt. Calore. Ergo omnino videtur hic poeta concitatioris ingenii fervidiorisque fuisse et quod impetu magis ac celeritate polleret, quam robore et viribus; quapropter in his libellis vivit illa incitatio et eminet. Natura enim operi impar non erat fervorque ille animi ad finem usque perseverabat. …Verum nulla tanta ars est, quae afflationem illam mentis, quam ἐνθουσιασμόν Graeci dicunt, imitari possit, unde existit Platonis illa atque ante ipsum Democriti opinio: «poetam bonum neminem sine inflammatione animorum existere posse et sine quodam afflatu quasi furoris».

È quasi un paradosso che questo percorso umanistico della formula oraziana ore rotundo conduca proprio a quell’idea di poesia divinamente ispirata, che nel maestro dell’Ars poetica suscitava diffidenza o addirittura sarcasmo, se poteva essere sospettata di incoraggiare una produzione facile, abbondante, insofferente alle esigenze della incontentabile correzione e del faticoso miglioramento20. I luoghi salienti dell’opera hanno appena bisogno di essere ricordati21.

Hor. Ars poet. 295-98

ingenium misera quia fortunatius arte

credit et excludit sanos Helicone poetas

Democritus, bona pars non unguis ponere curat,

non barbam, secreta petit loca, balnea vitat.


Hor. Ars poet. 408-11

natura fieret laudabile carmen an arte,

quaesitum est: ego nec studium sine divite vena

nec rude quid prosit video ingenium: alterius sic

altera poscit opem res et coniurat amice.

Il modello che Orazio notoriamente propugna è un poeta che non si fida ciecamente delle risorse dell’ispirazione e del talento (che pure sono necessari alla poesia di qualità), ma che sa sottoporsi alle critiche di giudici competenti e inflessibili e ne recepisce volentieri i suggerimenti22. La feroce caricatura del poeta vesanus suggella l’opera e questa equilibrata concezione della poetica:

Hor. Ars poet. 453-60

ut mala quem scabies aut morbus regius urget

aut fanaticus error et iracunda Diana,

vesanum tetigisse timent fugiuntque poetam

qui sapiunt, agitant pueri incautique sequuntur.

hic, dum sublimis versus ructatur et errat,

si veluti merulis intentus decidit auceps

in puteum foveamve, licet 'succurrite' longum

clamet, 'io cives', non sit qui tollere curet.

L’interpretazione in senso democriteo-platonico della formula ore rotundo costituisce dunque una più o meno consapevole forzatura della metafora oraziana, ma affonda le radici nella complessità di funzioni che l’immagine delle “parole rotolanti” aveva avuto soprattutto nella sua resa latina, con il collegamento più deciso con la retorica asiana e con il cliché dei Greci facili nell’eloquio ma inconsistenti nei contenuti. La stessa ambiguità accompagnava del resto la considerazione della poesia estemporanea, che oscillava tra l’ammirazione e la critica:

Cic. Arch. 18

Quotiens ego hunc Archiam vidi, iudices…quotiens ego hunc vidi, cum litteram scripsisset nullam, magnum numerum optimorum versuum de eis ipsis rebus quae tum agerentur dicere ex tempore, quotiens revocatum eandem rem dicere commutatis verbis atque sententiis!... Hunc ego non diligam, non admirer, non omni ratione defendendum putem? Atque sic a summis hominibus eruditissimisque accepimus, ceterarum rerum studia ex doctrina et praeceptis et arte constare, poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino quodam spiritu inflari.


Quintil. I.O. 10, 3, 2

Scribendum ergo quam diligentissime et quam plurimum. Nam ut terra alte refossa generandis alendisque seminibus fecundior, sic profectus non a summo petitus studiorum fructus et fundit uberius et fidelius continet. Nam sine hac quidem constantia ipsa illa ex tempore dicendi facultas inanem modo loquacitatem dabit et uerba in labris nascentia.


Quintil. I.O. 10, 7, 13-14

Nec fortuiti sermonis contextum mirabor umquam, quem iurgantibus etiam mulierculis uideamus superfluere: cum eo quod, si calor ac spiritus tulit, frequenter accidit ut successum extemporalem consequi cura non possit. Deum tunc adfuisse cum id euenisset ueteres oratores, ut Cicero dicit, aiebant, sed ratio manifesta est. Nam bene concepti adfectus et recentes rerum imagines continuo impetu feruntur, quae nonnumquam mora stili refrigescunt et dilatae non reuertuntur.

In un brano dei Satyrica di Petronio che si cominciò a conoscere attorno alla metà del ‘400, in seguito alle scoperte di Poggio23, il poeta Eumolpo premetteva alla declamazione del suo poema sulla guerra civile un’Ars poetica in miniatura24, in cui la concezione oraziana della collaborazione armonica fra ispirazione e letterarietà, ingenium e ars, è come ‘estremizzata’ in una specie di ossimoro, perché l’ispirazione è decisamente rappresentata in termini democriteo-platonici, come furor, vaticinatio, impetus e anche l’impegno e lo studio difficile richiesto dalla composizione poetica consiste non tanto in una rifinitura formale dello stile attraverso il paziente labor limae, quanto nell’acquisizione preliminare dell’ingens flumen litterarum da cui il poeta deve lasciarsi inondare prima di accingersi a un ingens opus come il poema epico, che poi può essere composto quasi di getto, abbandonandosi all’impeto dell’ispirazione, e proposto senza bisogno di attendere l’ultima manus:

Petr. 118, 1-3

'multos', inquit Eumolpus 'o iuvenes, carmen decepit. nam ut quisque versum pedibus instruxit sensumque teneriore verborum ambitu intexuit, putavit se continuo in Heliconem venisse. sic forensibus ministeriis exercitati frequenter ad carminis tranquillitatem tamquam ad portum feliciorem refugerunt, credentes facilius poema extrui posse quam controversiam sententiolis vibrantibus pictam. ceterum neque generosior spiritus sanitatem25 amat, neque concipere aut edere partum mens potest nisi ingenti flumine litterarum inundata.


Petr. 118. 6

ecce belli civilis ingens opus quisquis attigerit nisi plenus litteris, sub onere labetur. non enim res gestae versibus comprehendendae sunt, quod longe melius historici faciunt, sed per ambages deorumque ministeria et fabulosum sententiarum †tormentum† praecipitandus est liber spiritus, ut potius furentis animi vaticinatio appareat quam religiosae orationis sub testibus fides: tamquam, si placet, hic impetus, etiam si nondum recepit ultimam manum'

I nostri dotti umanisti avrebbero probabilmente trovato interessante questa lettura forzata in direzione del sublime della precettistica oraziana e avrebbero potuto verificare che la metafora delle “parole rotolanti” aveva in sè questa possibilità espressiva, se è vero che la voce ironica del narratore Encolpio caratterizza proprio con la formula volubilitas verborum l’esibizione poetica di Eumolpo:

Petr. 124, 2

cum haec Eumolpos ingenti volubilitate verborum effudisset, tandem Crotona intravimus.

Note
  • 1

    Porph. ad l.: quia Calpus filius est Numae, a quo Calpurnii Pisones traxerunt nomen.

  • 2

    Sul ruolo di Numa come re fondatore in opposizione a Romolo, si veda soprattutto, fra gli altri, Hinds 1992; Littlewood 2002.

  • 3

    Cfr. Citroni 2001, soprattutto pp. 298-304. Sui canoni letterari latini vedi anche Citroni 2006, sopr. pp. 211-27.

  • 4

    Un lavoro recente che pone in maniera efficace i termini del problema e offre molti spunti interessanti e ragionevoli è quello di Bolonyai 2014, cui faremo più volte riferimento.

  • 5

    Cfr. Murray 1981.

  • 6

    Cfr. Brink, 1971, pp. 338-347.

  • 7

    Brink 1971, p. 348.

  • 8

    Lambinus 1561, ad Hor. serm. 2, 7, 83: rotundum valet idem quod cultum, politum, perfectum.

  • 9

    Ernesti 1795, p. 320.

  • 10

    Bolonyai 2014, p. 225.

  • 11

    Ar. Rhet. 1394 b 34.

  • 12

    Ad es. Dion. Hal. Lys. 9, 15 ἡ συστρέφουσα τὰ νοήματα καὶ στρογγύλως ἐκφέρουσα λέξις,; Demost, 43,74-5 τῶν δὲ περιόδων αἳ μέν εἰσιν εὐκόρυφοι καὶ στρογγύλαι ὥσπερ ἀπὸ τόρνου; 24, 35 νῦν μὲν γὰρ δυσὶ περιλαμβανομένη κώλοις σύμμετρός ἐστι καὶ ἐναρμόνιος καὶ στρογγύλη καὶ βάσιν εἴληφεν ἀσφαλῆ. Cfr. anche Demetr. Rhet. Interpr. 20.

  • 13

    Bolonyai 2014, p. 225.

  • 14

    Bolonyai 2014, p. 228.

  • 15

    Bellandi 1988 (ma già 1972), pp. 33-71; La Penna 1981, pp. 12-14.

  • 16

    I riferimenti utili e un’ampia discussione nell’ottimo commento di Kissel 1990 ad l., pp. 589-90 (il confronto con Hor. Ars poet. 323 era già di Jahn e di Conington).

  • 17

    Cfr. Guillemin 1929, p. 106.

  • 18

    Cfr. Kissel 1978, pp. 314-5.

  • 19

    Viene richiamata la famosa definizione di Cicerone (de orat. 2, 194).

  • 20

    Una apertura alla poetica dell’ ἐνθουσιασμός, nella ‘versione’ dell’estasi dionisiaca, è legata all’attrazione di Orazio poeta lirico per il sublime e per l’emulazione ‘pericolosa’ di Pindaro. Si veda soprattutto La Penna 1971.

  • 21

    Un’ottima trattazione della questione in Brink 1971 pp. 329-31, 394-400. Per ulteriori indicazioni bibliografiche vedi anche Longo 2004-5.

  • 22

    Sul ‘modello di Aristarco’ cfr. Delvigo 1990, pp. 101-10.

  • 23

    Cfr. Rini 1937. Sulla tradizione del testo di Petronio la migliore trattazione sintetica è quella di Vannini 2010, pp. 39-61

  • 24

    Oltre alle analisi di Stubbe 1933, pp. 50-67 e Soverini 1985, pp. 1746-50, un’ampia e complessivamente equilibrata trattazione in Habermehl 2020, pp. 765-70.

  • 25

    Preferisco qui la lezione tràdita sanitatem alla congettura di Pithou vanitatem, accolta nel testo da Bücheler (che in apparato proporrebbe dubitativamente inanitatem e da Müller (a partire dalla 3° edizione) e ora anche da Habermehl 2020, pp. 778-9, cui rimando per una illustrazione delle diverse argomentazioni.

Bibliografia
  • Bellandi 1988 = F. Bellandi, Persio. Dai «verba togae» al solipsismo stilistico, Bologna 1988.

  • Bellandi 1972 = F. Bellandi, Persio e la poetica del semipaganus, «Maia» 24, 1972, pp. 317-341.

  • Bolonyai 2014 = G. Bolonyai, Ore rotundo: a phrase reborn in the Renaissance, «MD» 72, 2014, pp. 223-46.

  • Brink 1971 = Ch. O. Brink, Horace on Poetry II. The ‘Ars Poetica’, Cambridge 1971.

  • Citroni 2001 = M. Citroni, Affermazioni di priorità e coscienza di progresso artistico nei poeti latiini, in «L’histoire littéraire immanente dans la poésie latine», Entretiens sur l’antiquité classique, Fondation Hardt, Vandoeuvres Genève, vol. 47, 2001, pp. 267-314.

  • Citroni 2006 = M. Citroni, The Concept of the Classical and the Canons of Model Authors in Roman Literature, in J. I. Porter (ed.) «Classical Pasts. The Classical Traditions of Greece and Rome», Princeton-Oxford 2006, pp. 203-234.

  • Delvigo 1990 = M. L. Delvigo. L'emendatio del filologo, del critico, dell’autore: tre modi di correggere il testo?, «MD» 24, 1990, pp. 71-110.

  • Ernesti 1795 = J. C. G. Ernesti, Lexicon technologiae graecorum rhetoricae, Leipzig 1795.

  • Guillemin 1929 = A. M. Guillemin , Pline et la vie littéraire de son temps, Paris 1929.

  • Habermehl 2020 = P. Habermehl, Petronius, Satyrica 79-141, Band 2: Sat. 111-118, Berlin-New York 2020.

  • Hinds 1992 = S. Hinds, "Arma" in Ovid’s "Fasti" Part 1: Genre and Mannerism, «Arethusa» 25, 1992, pp. 81-112; "Arma" in Ovid’s "Fasti" Part 2:Genre, Romulean Rome and Augustan Ideology, ibid. pp. 113-153.

  • Kissel 1978 = W. Kissel, Petrons Kritik der Rhetorik (Sat. 1-5), «RhM» 121, 1978, pp. 311-28.

  • Kissel 1990 = W. Kissel, Aules Persius Flaccus, Satiren, hrsg. übers. u. komm. v. W. K., Heidelberg 1990.

  • La Penna 1979 = A. La Penna, Persio e le vie nuove della satira latina, intr. a Persio, Satire, Milano 1979, pp. 5-78.

  • La Penna 1993 = A. La Penna, Estasi dionisiaca e poetica callimachea, in «Studi in onore di Vittorio De Falco» Napoli 1971, pp. 227-237 = Saggi e studi su Orazio, Firenze 1993, pp. 325-339.

  • Lambinus 1561 = D. Lambinus, Q. Horatius Flaccus opera, Lyon 1561.

  • Littlewood 2002 = R. J. Littlewood, «Imperii pignora certa». The Role of Numa in Ovid’s «Fasti», in G. Herbert-Brown (ed.), Ovid’s «Fasti». Historical Readings at Its Bimillennium, Oxford 2002, pp. 175-197.

  • Longo 2004-5 = A. Longo, Concezioni e immagini dell'ispirazione poetica in Orazio, «Incontri triestini di filologia classica» 4, 2004-2005, pp. 429-478.

  • Lucarini 2015 = C. Lucarini, I due stili asiani (Cic. "Br." 325; "P. Artemid") e l'origine dell'Atticismo letterario, «ZPE» 193, 2015, pp. 11-24.

  • Murray 1981 = P. Murray, Poetic Inspiration in Early Greece, «JHS» 101, 1981, pp . 87–100.

  • Rini 1937 = A. Rini, Petronius in Italy from the Thirteenth Century to the Present Time, New York, 1937.

  • Soverini 1985 = P. Soverini, Il problema delle teorie retoriche e poetiche di Petronio, «ANRW» 32.3, Bologna, 1985, pp. 1706-1779.

  • Stubbe 1933 = H. Stubbe, Die Verseinlagen im Petron, Leipzig 1933.

  • Vannini 2010 = G. Vannini, Petronii Arbitri «Satyricon» 100-115. Edizione critica e Commento, Berlin-New York 2010.

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Informazioni
Cita come: Mario Labate, Rolling words: un’idea dell’espressione oratoria e dell’ispirazione poetica fra Antichità e Rinascimento in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 1 (2022), pp. 17-35. 10.35948/DILEF/2022.3297
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