Abstract
Note esegetiche e stilistiche al quarto libro delle Argonautiche di Apollonio, vv. 604 (con un possibile intervento testuale), 725, 1094, 1285.
Exegetical notes and stylistic observations on the fourth book of Apollonius’ Argonautica, vv. 604 (with a possible textual emendation), 725, 1094, 1285.
Parole chiave
Keywords
4.603-6 (la palude dove cadde Fetonte, lungo l’Eridano)
ἀμφὶ δὲ κοῦραι | |
Ἡλιάδες ταναῇσιν †ἀείμεναι† αἰγείροισιν | |
μύρονται κινυρὸν μέλεαι γόον, ἐκ δὲ φαεινάς | 605 |
ἠλέκτρου λιβάδας βλεφάρων προχέουσιν ἔραζε. | |
Intorno, le giovani | |
Eliadi, infelici, mutate negli alti pioppi, | |
effondono tristi lamenti, e dai loro occhi | |
versano al suolo le gocce d’ambra splendente1. |
Al v. 604, tanto ἀείμεναι di L (il celebre Laur. 32.9, non certo infallibile ma pur sempre optimus) quanto gli ἐφήμεναι, ἐειμέναι, ἑλιγμέναι che appaiono in altri rivoli della tradizione manoscritta apolloniana2 sono evidentemente frutto di corruttela. Sull’esegesi del passo, e di conseguenza sulla critica testuale, ha pesato a lungo l’autorevole giudizio di Wilamowitz secondo cui le Eliadi «dato che si lamentano e piangono, non possono essersi trasformate»3: di qui congetture che le hanno volute «simili» ai pioppi (ἐιγμέναι o ἀλίγκιαι, Fränkel) o anche «‘unconstrained by’ the trees that encased them» (-ῇς ἀναειμέναι, Campbell)4. L’osservazione, già in sé eccessivamente razionalistica5, sembra non tener conto di un motivo altrove attestato nei miti metamorfici dell’antichità: dopo aver subìto la trasformazione, l’uomo o la donna c o n t i n u a, e talvolta proprio d a l l ’ i n t e r n o, ad avere manifestazioni della sua precedente natura umana – per quanto riguarda il pianto, basti pensare a Niobe mutata in roccia, che λίθος περ ἐοῦσα θεῶν ἒκ κήδεα πέσσει (Il. 24.617)6, o ai Messapi trasformati in alberi che eternano il loro lamento (Ant. Lib. 31 = Nic. fr. 47 Schneider)7. In quest’ottica, ἐελμέναι (“avvolte”) di Gerhard può davvero cogliere nel segno8; un’alternativa potrebbe essere ἐεργμέναι (proprio “racchiuse”: il participio appartiene alla lingua epica, cfr. Il. 5.899, lo stesso Apollonio in 2.550 e 4.1580, e più tardi Q. S. 6.125, 7.456, Triph. 472, fino a Tzetz. Posthom. 228), che nessuno, a mia scienza, pare aver proposto finora10. In un caso o nell’altro, il senso è quello: le Eliadi si sono metamorfizzate, e quindi si trovano d e n t r o i pioppi da cui fanno uscire i loro lamenti e le loro lacrime. Lo si vedrà molto bene nel II libro delle Metamorfosi di Ovidio, in cui le Eliadi sentono stipite crura teneri (v. 351) e la corteccia complectitur inguina (353), fino a richiudersi su tutto il loro corpo come una guaina (in verba novissima venit, 363). Quanto vi sia in questo episodio ovidiano di ellenistico, e magari degli ampi Ἑτεροιούμενα di Nicandro, è per noi arduo da determinare11.
4.725-9 (la curiosità di Circe nei confronti di Medea)
ἵετο δ᾿ αὖ κούρης ἐμφύλιον ἴδμεναι ὀμφήν | 725 |
αὐτίχ᾿ ὅπως ἐνόησεν ἀπ᾿ οὔδεος ὄσσε λαβοῦσαν12· | |
πᾶσα γὰρ Ἠελίου γενεὴ ἀρίδηλος ἰδέσθαι | |
ἦεν, ἐπεὶ βλεφάρων ἀποτηλόθι μαρμαρυγῇσιν | |
οἷόν τε χρυσέην ἀντώπιον ἵεσαν αἴγλην. | |
e desiderava sentire dalla fanciulla la voce del suo paese, | |
da quando la vide alzare lo sguardo da terra. | |
La stirpe del Sole si riconosceva ben chiara dal lampo | |
degli occhi, che tutti loro mandavano | |
lontano, e brillava come la luce dell’oro. |
Nel v. 725 è usualmente ravvisato il desiderio di Circe di sentire da parte di Medea, che ha riconosciuto come sua parente, “la lingua della sua razza”. Una diversa strada percorsero circa venticinque anni fa Fritz Bornmann e Cristina Danesin, leggendovi un semplice “conoscere la lingua natía della fanciulla”13, e credo che questa sia l’interpretazione giusta. Hunter obietta che «once Circe has seen Medea’s eyes, she knows at once what the language is»14. Tuttavia ci si pone una domanda: esisteva, nel mito, u n ’ u n i c a lingua parlata dalla stirpe del Sole? Presumerei di no: Circe è in effetti sorella di Aietes e quindi zia di Medea, ma di figli di Helios ve n’erano altri, per esempio Augia, lui stesso uno dei partecipanti alla spedizione degli Argonauti (lo si narra in 1.172-5 e lo dichiara Argo ad Aietes, con strategia persuasiva tanto accorta quanto inefficace, in 3.362-3), che regna in Elide e quindi verosimilmente parlerà in greco. Non a caso, Apollonio precisa che t u t t a (πᾶσα) la stirpe del Sole si riconosce dal fulgore dello sguardo: il πᾶσα γάρ del v. 727, che apre molteplici possibilità, è a mio avviso la chiave dell’interpretazione del passo. Può darsi che Circe abbia nostalgia della sua lingua natía e speri di sentirla da Medea15, ma finché quest’ultima non parla, la maga rimane nel dubbio e perciò ha bisogno di “sapere” (ἴδμεναι, in senso proprio).
4.1089-95 (Arete esorta Alcinoo a non abbandonare Medea alla vendetta del padre)
λίην γὰρ δύσζηλοι ἑαῖς ἐπὶ παισὶ τοκῆες· | |
οἷα μὲν Ἀντιόπην εὐώπιδα μήσατο Νυκτεύς, | 1090 |
οἷα δὲ καὶ Δανάη πόντῳ ἔνι πήματ᾿ ἀνέτλη | |
πατρὸς ἀτασθαλίῃσι· νέον γε μὲν οὐδ᾿ ἀποτηλοῦ | |
ὑβριστὴς Ἔχετος γλήναις ἔνι χάλκεα κέντρα | |
πῆξε θυγατρὸς ἑῆς, στονόεντι δὲ κάρφεται οἴτῳ, | |
ὀρφναίῃ ἐνὶ χαλκὸν ἀλετρεύουσα καλιῇ. | 1095 |
Verso le figlie i padri sono troppo severi, | |
come lo fu Nitteo con la bella Antiope, | |
o come Danae che per la ferocia del padre | |
soffrì tante pene sul mare; e poco fa, non lontano, | |
il superbo Echeto fece piantare aghi di bronzo | |
negli occhi alla figlia e ora la consuma un triste destino | |
in un carcere oscuro, macinando grani di bronzo. |
Dopo i ben più celebri miti di Antiope e di Danae, Arete menziona per ultimo e con più enfasi quello meno noto di Metope/Anfissa, non solo in quanto si tratterebbe di un evento recente e geograficamente prossimo (v. 1092), ma anche perché particolarmente crudele (suo padre Echeto, come i commentatori e già gli scoliasti16 non hanno mancato di rilevare, è il re sanguinario, βροτῶν δηλήμων πάντων, ricordato in Od. 18.85-87 e 11617) e anche tristemente pittoresco (macinare grani di bronzo è un elemento quantomai favolistico). Vale la pena di sottolineare che l’uso di κάρφεται si porta dietro una sfumatura ben precisa: non solo «‘is withered away’, both literal (she starves and endures the hardest of labour) and metaphorical (cf. Hes. WD 7)»18, ma più precisamente “sfiorisce”. Se il verbo si può applicare al logoramento fisico fin da Od. 13.398, in riferimento all’appassire della bellezza femminile il locus classicus è Archil. fr. 188.1 West2 οὐκέθ᾿ ὁμῶς θάλλεις ἁπαλὸν χρόα· κάρφεται γὰρ ἤδη κτλ., che qui probabilmente Apollonio aveva presente – come lo avrà presente molti secoli dopo Maced. AP 11.374.7-8 = 38.7-8 Madden ὡς δὲ ῥόδον θαλέθεσκες ἐν εἴαρι· νῦν δ᾿ ἐμαράνθης / γήραος αὐχμηρῷ καρφομένη θέρεϊ19. La figlia di Echeto non solo “si consuma” (τήκεται o simili l’avrebbero espresso altrettanto bene), ma proprio “appassisce” come un fiore (metafora tradizionale della poesia greca), giacché la crudeltà di suo padre l’ha privata, oltre che della vista e della libertà, delle gioie della giovinezza. Anche questo è implicito nelle parole che Arete sta rivolgendo ad Alcinoo: se riconsegni Medea ai Colchi, quand’anche Aietes non la faccia uccidere, distruggerai ogni sua speranza per il futuro.
4.1280-5 (la disperazione degli Argonauti in Libia)
οἷον δ᾿ ἀψύχοισιν ἐοικότες εἰδώλοισιν | 1280 |
ἀνέρες εἱλίσσονται ἀνὰ πτόλιν, ἢ πολέμοιο | |
ἢ λοιμοῖο τέλος ποτιδέγμενοι ἠέ τιν᾿ ὄμβρον | |
ἄσπετον, ὅς τε βοῶν κατὰ μυρίος ἔκλυσεν ἔργα, | |
ἢ ὅταν20 αὐτόματα ξόανα ῥέῃ ἱδρώοντα | |
αἵματι καὶ μυκαὶ σηκοῖς ἔνι φαντάζωνται... | 1285 |
Come s’aggirano gli uomini per la città, somiglianti | |
a ombre priva di vita, quando s’aspetta | |
la guerra o la peste, e la bufera violenta | |
che distrugge a migliaia le fatiche dei bovi, | |
o come quando da sé le statue grondano sangue | |
e si crede d’udire muggiti nei templi... |
Se la maggior parte degli interpreti dà ai σηκοί del v. 1285 il diffuso significato di “recinti sacri”, e quindi “templi”, vi è anche chi preferisce vedervi semplicemente delle “stalle”: «Ap. allude certamente ad un’innaturale concitazione delle bestie»21. Ma a rivelare l’esatta natura del fenomeno sono il καί («sweating statues and phantom bellowings in shrines [...] belong together», osserva giustamente Hunter)22 e soprattutto il conclusivo φαντάζωνται, che indica qualcosa di prodigioso23. Il verso, vale la pena di sottolinearlo, è sapientemente costruito in vista di un’intenzionale seppur fugace misdirection: μυκαὶ σηκοῖς ἔνι sembra suggerire al lettore/ascoltatore che si tratti degli animali nelle stalle, ma subito dopo il verbo chiarisce che quei muggiti non sono ciò che ci si aspetta di udire in una fattoria, e che dunque il vero significato di σηκοῖς è un altro. L’ordo verborum di Apollonio, qui come in mille altri esempi, ha una finalità ben precisa24.
Note
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La traduzione (qui e negli altri passi) è quella, ormai classica, di Guido Paduano in Paduano - Fusillo 1986. Altre due valide ne esistono in italiano, quelle di Borgogno 2003 e di Calzascia 2019.
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La documentazione nell’apparato di Vian - Delage 1996, p. 96 (e già nella nota ad l. di Wellauer 1828, I p. 237). Vari studiosi hanno sottolineato l’eco di questo passo in D. P. 292 κεῖθι δὲ Κελτῶν παῖδες, ὑφήμενοι αἰγείροισι κτλ. (vedi Cusset 2004, pp. 212-5, e Lightfoot 2014, p. 327), che potrebbe riflettere un’esistenza già antica di ἐφήμεναι (in Dionisio l’apparato di Tsavari 1990, p. 54 registra una v.l. ἐφήμενοι) o, viceversa, esserne l’origine (come ritiene Livrea 1983, p. 423 = 1991, p. 124).
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«Verwandelt sind sie nicht, denn sie weinen und klagen» (1924, II p. 252).
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Rispettivamente Fränkel 1968, p. 505, e Campbell 1982, p. 138 (fondate obiezioni in Vian - Delage 1996, p. 215).
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Giuste le obiezioni di Paduano - Fusillo 1986, p. 603, e di Hunter 2015, p. 164.
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In un passo di cui Aristofane di Bisanzio e Aristarco (III p. 560 van Thiel: vedi Brügger 2017, p. 225) proponevano l’atetesi, e che invece Callimaco, in Ap. 22-24, forse difendeva (cfr. Williams 1978, pp. 32-33). Sul persistere dei suoi sentimenti umani cfr. almeno Forbes Irving 1990, pp. 147-8.
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Vedi Buxton 2009, pp. 228-9. Per le Eliadi, uno dei referees della Rivista mi segnala opportunamente Luc. Electr. 1: ὀδυρομένας τὸ μειράκιον ἀλλαγῆναι ἐς τὰ δένδρα, καὶ ἀποστάζειν ἔ τ ι αὐτῶν δάκρυον δῆθεν τὸ ἤλεκτρον.
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Gerhard 1816, p. 52; la proposta fu accolta da vari editori tra Otto e Novecento. Per la forma cfr. hMerc. 306, se il testo non è da emendare: vedi Vergados ad l. (2013, pp. 444-5).
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Ove per ἐεργμέναι Aristarco (I p. 415 van Thiel) vorrà leggere ἐερμέναι, e molto più tardi Eustazio, Il. 891.23 (III p. 350.18 van der Valk) ἐελμ- (viceversa, ἐελμένοι è glossato con ἐε(ι)ργμένοι in Et. Sym. ε 96 Baldi = EM 317.29-30).
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Sulla stessa scia ἐνημμέναι di Wakefield. Livrea 1973, p. 186, congetturava invece ἀήμεναι, “battute dal vento”, accolto ora da Calzascia 2019, p. 737 n. 119.
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Del mito delle Eliadi Nicandro trattava nel fr. 63 Schneider (Plin. nat. 37.2.31), la cui appartenenza agli Ἑτεροιούμενα rimane dubbia: vedi Schneider 1856, p. 68, e per un possibile influsso su Ovidio Vollgraff 1909, p. 109.
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Stampo il testo di Hunter 2015, che ha a mio avviso ragione a conservare ἀπ᾿ οὔδεος della tradizione medievale (anche se ἐπ᾿ οὔδεος, già congetturato da Fränkel, è ora confermato dalla seconda mano del POxy. 5421, fr. 25) accogliendo però λαβοῦσαν di Fränkel per il tramandato βαλοῦσαν: vedi il suo commento alle pp. 185-6 (di diversa opinione Benaissa 2019, pp. 94-95).
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Vedi Bornmann 1997, pp. 65-67, e Danesin 1998-99 (per quest’accezione di ἐμφύλιος soprattutto pp. 68-70); sulla questione cfr. di recente Magnelli 2021, p. 54 e n. 89. Così anche Glei - Natzel-Glei 1996, che tuttavia non ho potuto vedere: la loro traduzione del verso («und sie begehrte, die Muttersprache des Mädchens zu erfahren») mi è nota solo da Danesin 1998-99, p. 71 n. 19.
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Hunter 2015, p. 185.
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Cfr. Paduano - Fusillo 1986, p. 613: «Lo sguardo di Medea rivela la sua identità e risveglia in Circe lo stesso desiderio della lingua materna che si esprime in modo commosso nel Filottete di Sofocle (234)».
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Schol. 1093-5a (p. 306.27-28 Wendel): τοῦ Ἐχέτου Ὅμηρος ὡς ὠμοτάτου μέμνηται.
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Nonché, forse come esito di interpolazione, in 21.308: per una difesa vedi Fernández-Galiano ad l. (in Fernández-Galiano - Heubeck 1986, p. 182). Su Echeto e il suo nome parlante cfr. Steiner 2010, p. 169.
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Hunter 2015, p. 232 (sul passo cfr. anche le giuste considerazioni di Hunter 1993, p. 73 e n. 110).
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Vedi Nicolosi 2007, pp. 262-3, Swift 2019, pp. 352-4, e già Medaglia 1977, pp. 9-12. Altri paralleli sono utilmente raccolti da Livrea 1973, p. 312 (che ricordava anche Archiloco, all’epoca fr. 209 Tarditi, pur senza dargli rilevanza particolare).
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Così la tradizione medievale, difesa da Vian (in Vian - Delage 1996, p. 190), da Hunter (1993, p. 35 n. 125; 2015, p. 255) e ora dalla Stürner (2022, p. 161); Livrea 1973, p. 362 accoglie ὁππότ᾿ ἂν di Wilamowitz.
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Così Livrea 1973, p. 363; contra, Vian in Vian - Delage 1996, p. 190.
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Hunter 2015, p. 255, respingendo con buoni argomenti ἤ di Fränkel.
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Come in NT Hebr. 12.21, citato in LSJ s.v. IIa ad esempio di «to be heard»: φοβερὸν ἦν τὸ φανταζόμενον (anche a livello uditivo, la dimensione soprannaturale è comunque presente).
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Ringrazio i due anonimi referees che hanno letto e commentato questo breve articolo; e i miei studenti, all’epoca triennalisti del secondo anno, coi quali ho avuto il beneficio e soprattutto il piacere di discutere di questi problemi durante un corso sul quarto libro delle Argonautiche che ho tenuto presso l’Università di Firenze nell’autunno/inverno del 2020.
Bibliografia
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Informazioni
Cita come: Enrico Magnelli, Quattro brevi note al quarto libro di Apollonio Rodio in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 2 (2023), pp. 1-9. 10.35948/DILEF/2023.4324
- Data ricezione: 03/11/2022
- Data accettazione: 30/11/2022
- Data pubblicazione: 10/01/2023
- DOI: 10.35948/DILEF/2023.4324
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