| Articolo sottoposto a Peer Review

Prima del libretto per musica

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 17/02/2023
  • Data accettazione: 17/03/2023
  • Data pubblicazione: 12/05/2023

Abstract

Partendo dal proto-libretto dell’Orfeo di Striggio (musicato da Monteverdi), stampato in occasione della “prima” del 1607, il saggio analizza le tipologie di ausili per il pubblico che erano in uso durante gli spettacoli cinquecenteschi e primo seicenteschi, anche nell’ambito del “recitar cantando”, prima della nascita del libretto per musica vero e proprio, dopo l’apertura dei teatri pubblici veneziani nel 1637.

 

Starting from the proto-libretto of Striggio's Orfeo (set to music by Monteverdi), printed on the occasion of the “première” in 1607, the essay analyzes the types of aids for the public in use during sixteenth and early seventeenth-century performances, even in the field of "recitar cantando", before the birth of actual libretto for music after the opening of the Venetian public theaters in 1637.


Parole chiave
Keywords

1. «la favola cantata […] s’è fatta stampare».

Dimani si farà la favola cantata nella nostra Accademia, poiché Gio. Gualberto s’è portato cosi bene ch'in questo poco di tempo ch’è stato qui non solo hà imparato bene tutta la sua parte a mente, ma la dice con molto garbo, e con molto effetto, ond’Io ne son rimasto sodisfattissimo e perche la favola s’è fatta stampare acciochè ciascuno degli spettatori ne possa haver una da legere, mentre che si canterà; ne mando una copia a V.E. siccome le manderò per quest’altro ordinario certi cartelli pubblicati per un torneo, che si combatterà forse il dì di Carnevale1.

È la nota lettera inviata il 23 febbraio 1607 da Francesco Gonzaga, principe di Mantova, al fratello cadetto Ferdinando (diventerà cardinale nel dicembre successivo), che si trovava a Pisa a frequentare lo Studio, impegnato del pari nei festeggiamenti del carnevale. Si tratta della prima attestazione della stampa di un proto-libretto per musica (quello della Favola d’Orfeo di Alessandro Striggio, musicata da Monteverdi), in un momento in cui ciò che correntemente chiamiamo melodramma era veramente agli albori, per dirla con Solerti, e soprattutto era uno spettacolo privato d’accademia e di palazzo, trent’anni prima che l’inaugurazione dei teatri pubblici veneziani nel 1637, appunto, aprendo davvero la strada all’opera in musica moderna, determinasse, per ragioni commerciali, la pubblicazione preliminare alle rappresentazioni di libri di piccolo formato in cui gli spettatori, adesso socialmente misti, potessero leggere il testo dell’opera per la quale avevano acquistato il biglietto: nel corso del Seicento tali piccoli libri acquisiranno il nome antonomastico di “libretti” che ancor oggi conservano, un vero e proprio tecnicismo linguistico del mondo operistico2.

Il libro di teatro che si era affermato per tutto il Cinquecento in Italia e che farà da modello anche per i drammi in musica di corte o d’accademia, era un libro stampato a rappresentazione avvenuta: l’opera era detta nel frontespizio “rappresentata” (e in effetti lo era stata) e non “da rappresentarsi” come sarà invece comune nei libretti3. Si voleva “commemorare” l’evento, legato ad occasioni festive canoniche o eccezionali: carnevale, matrimoni, battesimi, visite di teste coronate, e così via. In sintesi, si conferiva perpetua memoria (letteraria, politica, ecc.) tramite la stampa all’effimero evento spettacolare. Le edizioni fiorentine del 1600 della Dafne e dell’Euridice di Ottavio Rinuccini, le opere che inaugurano la storia di questo genere teatrale, rispecchiano gli usi del tempo e sono inoltre dei curati in-quarto, il formato “di rispetto” dell’epoca, ben lontani dalla “forma libretto” che dominerà l’editoria futura di questo genere4: La Dafne d’Ottavio Rinuccini rappresentata alla Sereniss. Gran Duchessa di Toscana dal Signor Iacopo Corsi; L’Euridice d’Ottavio Rinuccini rappresentata nello sponsalitio della Christianiss. Regina di Francia, e di Navarra. Così sarà anche nel 1608 la stampa dell’Arianna sempre del Rinuccini, Rappresentata in musica nelle reali nozze del principe Francesco che l’anno precedente aveva sponsorizzato l’Orfeo5. Accanto a questa forma editoriale, quella che possiamo definire la stampa di omaggio (dedicata, offerta, presentata, oppure, semplicemente, con la formula: autore e titolo +  al dedicatario) che poteva essere indipendente da una qualsiasi messa in scena o anche ad essa preliminare, nel senso che era certo che l’opera sarebbe stata rappresentata al/dal dedicatario6, oppure ci si augurava che questi la mettesse in scena7, o che comunque la promuovesse in qualche modo, con un’evidente ricaduta di prestigio sullo scrittore, protetto dall’autorevolezza del personaggio.

La favola d’Orfeo rappresentata in musica il Carnevale dell’anno MCVII nell’Accademia de gl’Invaghiti di Mantova, come si legge nel frontespizio, non si differenziava da quelle commemorative in uso e solo la sopravvivenza della lettera del principe ci permette di dare giusta collocazione cronologica alle pagine rispetto allo spettacolo: lo stampatore ducale Osanna (e lo stemma sul frontespizio è quello di Vincenzo Gonzaga) si è attenuto ai modelli consueti; né lui né il committente intendevano creare un nuovo genere editoriale, anzi, da questo punto di vista, le stampe erano perfettamente mimetizzate nel panorama contemporaneo (ma ne riparleremo più avanti, con maggiori dettagli, nel par. 6). Né, dati i tempi, avrebbe potuto essere diversamente: non c’è consapevolezza di assistere e collaborare alla nascita di quello che acquisterà in seguito tipologia e dignità di nuovo genere autonomo, anche se si ha coscienza della novità, sottolineando che la rappresentazione è in musica, come si farà anche con l’Arianna (Tragedia, per altro, non genericamente Favola), ma non si era fatto per la Dafne e l’Euridice fiorentine del 1600. Né si doveva avvertire incongruenza temporale, dato che al participio passato rappresentata è possibile attribuire lo stesso valore assoluto, o, se vogliamo, temporalmente neutro, di quel dedicata/o che, come detto, spesso appare sui frontespizi del tempo a impreziosire con il nome di un celebre destinatario il lavoro dell’autore. Non solo, dopo lo spettacolo del sabato di carnevale, una seconda messa in scena dell’Orfeo ebbe luogo di lì a poco il primo marzo:

Si rappresentò la favola con tanto gusto di chiunque la senti che non contento il Sig.r Duca d’esserci stato presente, ed haverla udita à provar molte volte, ha dato ordine, che di nuovo si rappresenti, e cosi si farà oggi con l’intervento di tutte le dame di questa Città […]8.

È forse da rintracciare qui il motivo per cui del libro esistono due diverse emissioni nello stesso 16079: una in-quarto di 45 pagine10 e una in-ottavo di 3511. Non ci sono prove certe della precedenza di una sull’altra, ma è possibile che il più pregiato in-quarto fosse destinato alla prima rappresentazione, riservata agli Invaghiti12 e pensata, fino alla successiva decisione del Duca, come unica, e l’ottavo, più economico, alla seconda, con una platea allargata a buona parte della corte13.

Il proto-libretto dell’Orfeo è dunque un caso molto particolare, considerando che i drammi in musica erano stati sperimentati a Firenze solo negli anni Novanta del Cinquecento, debuttando in modo ufficiale a corte in occasione delle ricordate nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia nel recente 1600, nozze alle quali erano presenti i Gonzaga, essendo Maria sorella della duchessa Eleonora, entrambe figlie del defunto Granduca Francesco e nipoti dell’attuale Granduca Ferdinando I, una cui figlia, Caterina, sposerà nel 1617 l’ormai duca Ferdinando Gonzaga, succeduto a Francesco, morto prematuramente nel 1612. A Mantova tali rappresentazioni erano in assoluto una novità, tanto che lo stesso 23 febbraio 1607, in cui Francesco scriveva a Ferdinando, l’ufficiale di corte Carlo Magno annunciava al proprio fratello a Roma quella che si sarebbe rivelata la “prima” dell’Orfeo il 24 e che suscitava in lui «curiosità»:

Hieri fu recitata la Comedia nel solito scenico Teatro et con la consueta magnificenza et dimani sera il Ser.mo S.r Prencipe ne fa recitare una, nella sala del partimento che godeva Mad.ma Ser.ma di Ferrara, che sarà singolare posciache tutti li interlocutori parleranno musicalmente dicendosi che riuscirà benissimo onde per curiosità dubio che mi vi lasciarò ridurre, caso che l’angustia del luogho non mi escludda […]14.

Certo i fittissimi rapporti culturali fra le corti di Mantova e Firenze, in spiccata concorrenza fra loro15, rendevano per i Gonzaga e l’Accademia degli Invaghiti di cui erano protettori (Francesco in quel periodo era principe dell’Accademia16) le favole in musica assai meno singolari di quanto potessero apparire al Magno, ma con tutto ciò sorprende il tono di assoluta normalità con cui Francesco nella lettera annuncia proprio la stampa della favola, come se fosse consueto leggere in libro ciò che veniva cantato in palco17.

È appunto per cercare di comprendere le ragioni di questo tono di “normalità” che l’indagine si assume il compito di indagare gli usi dell’epoca, scegliendo come terreno d’indagine soprattutto gli ambienti di corti strettamente legate fra loro anche da accorte politiche matrimoniali, come quelle dei Gonzaga, degli Este e dei Medici, veicolo di più stretti scambi e confronti culturali, estendendo gli esempi dagli anni Sessanta del Cinquecento al primo trentennio del Seicento, fino al fatidico 1637, in modo da ricomporre nel modo il più possibile attendibile il contesto entro il quale nasce l’Orfeo a stampa. Il campo di indagine può ovviamente essere esteso a molti altri contesti culturali dell’epoca ed è auspicabile che in futuro ulteriori esempi, annidati, come questi, in rapidi passaggi dei documenti d’archivio o fra le pieghe delle relazioni festive, possano essere reperiti da chi si addentrerà nella ricerca di analoghe ultra specifiche testimonianze. In alcuni casi si tratta di ri-leggere ciò che è già noto, ma che è stato analizzato dagli studiosi (me compresa) da punti di vista diversi da quello che adesso propongo, ma si tratta anche di riuscire a reperire attestazioni che consentano di legare esplicitamente documenti “neutri” o, se vogliamo, ben mimetizzati nella generale produzione a stampa, alla visione e all’ascolto diretti dello spettacolo, là dove l’esame in sé del documento materiale non aiuta ad attribuire il suo ruolo a commemorazione o a ausilio preventivo.

 

2. Fogli volanti.

Cosa succedeva, negli stessi giorni del debutto mantovano della favola in musica, a Pisa, là dove abitualmente i Medici trascorrevano il carnevale e con loro il parente stretto Ferdinando, che riceveva insieme alle lettere del fratello anche la stampa dell’Orfeo e i cartelli da torneo? Le attività del 1606 e del 1607 sono come d’uso fedelmente registrate nel cosiddetto, e notissimo, Diario fiorentino di Cesare Tinghi, aiutante di camera granducale, dal quale Solerti trasse le notizie riportate in Musica, Ballo e Drammatica alla Corte Medicea dal 1600 al 163718. Si tratta dei consueti trattenimenti del tempo di carnevale non dissimili da quelli di Mantova: feste da ballo, cene, cacce, giostre al saracino, e, a Pisa, il tipico Gioco del Ponte. Ferdinando Gonzaga partecipava attivamente ai festeggiamenti organizzati dalla famiglia medicea e compare in entrambi i carnevali come autore di testi e di musica per feste19. Nel 1606

Volendo S.A. a pieno dare intera sodisfazione a tutta la corte e a tutto il nobil popol di Pisa fece radunare nella sala maggiore di S.A. in modo di teatro graduale tutte le donne della città e tutti i più nobili, per esservi spettatori della festa del ser.mo Principe suo figliuolo, il quale rappresentava l’abatimento di Dario et il finto Alessandro, in due squadre con sedici combattenti per ciascuno, et a suon di musica, di voce e d’instrumenti nobilissimi, a lume di torce in abito di tela d’oro e incarnatino et altri in abito d’argento e gialli. Dove combattuto con lance e stocchi fu vincitore il sig. Principe che rappresentava Alessandro, et Dario e i suoi seguaci perdendo si ritirorno, e li vincitori fecero un ballo bellissimo, cosa non più vista: et la inventione et soggetto di parole e musica fu dell’ill.mo sig. don Ferdinando Gonzaga, priore di Barletta, et ghuidata l’armegieria dal sig. Silvio Piccolomini, gran Contestabile dell’ordine di Santo Stefano, et li due maestri di campo furono l’ecc.mo sig. Don Francesco Medici e l’ecc.mo sig. Don Ferdinando Orsino20.

In tre lettere di quei giorni (29 gennaio, 12 e 19 febbraio) Ferdinando illustra al fratello Francesco la commissione da parte granducale della festa, invia «un cartello della battaglia et balletto», nonché «i versi e la musica della battaglia e del balletto». L’anno successivo (21 gennaio) spedisce ad Alessandro Striggio21 un «libretto in cui vi son stampati alcuni versi, che io composi già l’anno adietro, ancorché sono stati assassinati dalle stampe in guisa tale che mi è convenuto ritoccarli di mia propria mano». A poco più di un mese di distanza, il 26 febbraio, lunedì di carnevale (due giorni dopo la prima rappresentazione dell’Orfeo), a Pisa, davanti a «tutta la corte […] si recitò una comedia in musica la quale fece fare il sig. Don Ferdinando Gonzaga». Di questa commedia in musica trattano Ferdinando e Francesco il 18 e 23 febbraio e il primo marzo; in particolare la seconda e la terza sono le già citate lettere di Francesco intorno alle due rappresentazioni dell’Orfeo, mentre in quella del primo marzo lo stesso Francesco chiede notizie sull’«opera» del fratello, il quale, a sua volta, dichiara, il 18 seguente, che intende inviare la sua «commedia o per meglio dir Pastorale in diminutivo per l’appunto come fu recitata. So che non l’è da eguagliare a quella fatta a Mantova e non lo dico per adulatione; le musiche non le mando perché non possono piacere se non sentite in atto istesso del recitare». In una lettera dello stesso mese, ma senza la specificazione del giorno, Francesco, riprendendo scherzosamente le parole di Ferdinando, dichiara: «Sto con desiderio aspettando la sua Pastoralina, che non può esser se non bella essendo di V.E.»22.

In sintesi la lettera in cui Francesco annuncia la stampa del proto-libretto dell’Orfeo fa parte di un insieme epistolare di natura familiare in cui i due fratelli e un gentiluomo di corte come Striggio, accademico Invaghito, col nome di Ritenuto, musicista e letterato, si scambiano con disinvoltura testi teatrali, cartelli di torneo, libretti di balletti, il tutto manoscritto o a stampa. Fra l’altro i due Gonzaga esibiscono una competenza spettacolare a tutta prova (Ferdinando è anche compositore in proprio, ammirato da Francesco) e le favole o commedie o pastorali in musica (e balletti) fanno evidentemente parte del “quotidiano” dei due fratelli, esempio sia di una certa concorrenza all’interno della famiglia, sia del fecondo scambio culturale fra le due corti23.

Non sappiamo se durante le feste pisane qualcosa da leggere venisse distribuito agli spettatori come ausilio, se non nel caso «della battaglia et balletto» (appartenente alla categoria delle moresche24), il cui «cartello» viene inviato a Francesco, il quale, a sua volta, l’anno successivo spedisce al fratello, insieme all’Orfeo, appunto «certi cartelli pubblicati per un torneo». I cosiddetti tornei a soggetto erano giostre, battaglie e duelli ficti, cioè, come noto, delle vere e proprie sfarzose rappresentazioni particolarmente gradite alla nobiltà cinque-seicentesca italiana e europea, allestite reiteratamente in occasioni cerimoniali o, come qui, in tempo di carnevale; in particolare a Pisa si svolgeva in sala, non all’aperto.

In questi tornei si conservavano, ritualizzate, le forme della sfida vera, lanciata dal «mantenitore», il cui cartello era letto da un «araldo», ma anche affisso in luogo pubblico e distribuito nei giorni precedenti; seguivano i cartelli di risposta dei «venturieri» che accettavano la battaglia, la quale si svolgeva in base alle regole, dette «capitoli», che venivano stabilite e registrate in cartelli pubblici. Seguiva l’abbattimento con esito programmato, che vedeva, nel caso di Pisa, il principe (il futuro Cosimo II) impersonare il ruolo del vincitore, mentre i cavalieri e i nobili della corte rappresentavano, in un certo senso, se stessi nello spettacolo (in particolare il senese Piccolomini era il maestro di arti militari e cavalleresche del principe), cioè portavano in scena le proprie reali competenze professionali e di rango: Francesco era il fratello minore di Cosimo e l’Orsini il fratello minore di Paolo Giordano, futuro duca di Bracciano, entrambi sotto l’ala protettrice dei Medici, ai quali erano strettamente imparentati. Erano giovanissimi, così come giovanissimi erano Francesco e Ferdinando Gonzaga: il maggiore, il principe di Mantova, aveva appena ventun anni e l’anno successivo, durante le feste per le proprie nozze con Margherita di Savoia sarà protagonista, insieme a buona parte della corte (e agli ospiti, come don Antonio de’ Medici, ambasciatore del granduca di Toscana, e i fiorentini Ottavio Rinuccini e Alessandro del Nero) di un fastoso torneo a Mantova, la cui descrizione (nel Compendio delle sontuose feste redatto da Federico Follino) riporterà la distribuzione dei cartelli (inseriti nel testo): «Et intanto i Padrini dispensarono i lor cartelli dell’infrascritto tenore», «Dispensarono frattanto i Padrini i cartelli che sono di sotto notati»25.

Un esempio, in cui l’uso di tali fogli trova concreta rappresentazione, è Il castello di Gorgoferusa, la prima delle celebri cavallerie ferraresi volute dal duca Alfonso II che, nel 1561, aveva inaugurato la fase più spettacolare dei tornei ficti, che a Ferrara traducevano in forma scenica, utilizzando come attori i nobili realmente periti nelle arti militari, le tradizionali venture cavalleresche care all’immaginario estense, travasando nelle scene sontuose le norme dei tornei del tempo: nel 1561 di questo e dell’immediatamente successivo Il Monte di Feronia furono spettatori anche l’allora duca di Mantova Guglielmo Gonzaga e il principe di Firenze, Francesco de’ Medici, che era fratello della duchessa Lucrezia, consorte di Alfonso26.  Il torneo coinvolse dunque, a diverso titolo, tre corti che si cimenteranno nei decenni successivi in una vera e propria gara di invenzioni spettacolari, di cui il torneo pisano del 1606 è solo uno degli esempi minori.

La memoria delle magnificenze dei tornei ferraresi era affidata a complesse relazioni a stampa, anch’esse destinate a fare scuola. Con anticipo di diversi giorni, la domenica di carnevale, giunge a corte, durante una festa, la Regina Alfarabia che parla «in lingua araba» narrando le proprie vicende e le proprie richieste, dopo di che subentra un «interprete» che traduce il tutto, esponendo di fatto il cartello di sfida e le leggi che la governeranno. Tali leggi, in latino, appariranno affisse in tavole d’argento davanti al castello della maga Gorgoferusa al momento della complessa battaglia27. Erano dunque materialmente esibite in scena quelle “tavole delle leggi” che negli usi cavallereschi venivano effettivamente affisse in città perché fossero lette, al pari dei cartelli di sfida largamente distribuiti.

Nella primavera dello stesso 1561, a Mantova, le nozze del duca Guglielmo (nonno di Francesco e Ferdinando) con Eleonora d’Austria videro torneo e barriera, anche qui a tema cavalleresco. Come descrive Andrea Arrivabene nella sua relazione I grandi apparati, le giostre, l’imprese, e i trionfi [… ], in preparazione del torneo di Porta San Pietro del primo maggio, durante la cena di nozze del 27 aprile, comparve un Mercurio che consegnò alla neo duchessa una «scrittura con altri quattro cartelli» per poi sparire:

[…] poi che l’Altezza sua vide sparito Mercurio, si diede à leggere la scrittura, che à lei era inscritta, et poi i Cartelli che ho detto il che tutto fu fatto per publicare le querele et i Capitoli del bellissimo Torneo à cavallo che si mantenne poi il primo di di Maggio28.

Eleonora d’Austria partecipò quindi alla rappresentazione leggendo disfida e cartelli poi riportati nella descrizione. Per la Festa della barriera dell’arco dei leali amanti nell’Isola ferma, ispirata al romanzo spagnolo Amadis de Gaula, e tenuta il 29 aprile, la «lettera», in spagnolo, venne consegnata il giorno precedente 28 aprile, durante il passeggio per la città:

In questo stesso di, mentre che questi Principi et Signori andavano per la Città à spasso come si suole, comparve un’ornatissima Dama, con un picciol Nano inanzi, su loro bellissimi cavalli la quale diede una Lettera à sua Altezza, in cui si dichiarava ciò che si haveva à fare nella bellissima festa della Barrera […]29.

Nelle dettagliate descrizioni a stampa degli spettacoli vengono riassorbiti e ricomposti in veste letteraria proprio quei fogli volanti che circolavano all’epoca in occasione di simili avvenimenti, e, là dove previste dallo spettacolo, sono trascritte anche le “parti” dei vari personaggi che prendevano la parola nel corso delle rappresentazioni: di fatto i cartelli erano una sorta di “micro libretti” che fungevano da ausilio preventivo agli spettatori, e addirittura, nel caso mantovano, con la partecipazione attiva della neo duchessa in veste di araldo.

L’uso era diffusissimo, anche in contesti meno sfarzosi, e questi fragilissimi fogli volanti erano oggetto di collezione (proprio come più tardi i libretti per musica), uso di cui è testimonianza la raccolta adesso disponibile on line della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna: foglinfesta. Carte e sete d’occasione. «Si tratta di una preziosa, rarissima e curiosa raccolta cartacea di cartelli di sfida per giostre cavalleresche in prevalenza bolognesi e cartelli contenenti messaggi e dediche amorose in 130 fogli volanti che abbracciano un arco cronologico di tre secoli dal XVI al XVIII»30. In realtà simili raccolte esistono anche altrove e ne è esempio la Siena del Cinque-Seicento, la cui cultura ho studiato per molti anni, nella quale il patriziato locale, le numerose accademie, le organizzazioni studentesche e le contrade hanno lasciato ricche testimonianze dei propri usi festivi, soprattutto a partire dalla seconda metà del Cinquecento, dopo che la repubblica era passata sotto il dominio mediceo alla fine della guerra iniziata nel 1552 (la città capitolò nel 1555 dopo un feroce assedio, mentre la resistenza continuò a Montalcino fino al 1559) e si trovò a confrontarsi, con la propria organizzazione culturale di matrice accademica, con la corte egemone. A Siena, nella Biblioteca Comunale degli Intronati (BCI), sono conservate intere raccolte di cartelli di sfida e capitoli di tornei, sbarre e giostre, canti per Serre (questue degli scolari dello Studio), mascherate di carnevale o per altre occasioni, sfilate e pali delle contrade, sia manoscritti31 che a stampa32; alcuni nella doppia versione e alcuni relativi alla partecipazione senese a giostre e tornei fiorentini oppure per le visite granducali in città33. Sezioni di rime festive sono conservate nei “libri di rime” manoscritti di vari autori, come Girolamo Bargagli34 e Ubaldino Malavolti35, tutti membri delle Accademie cittadine. A uno di questi accademici, Belisario Bulgarini, e alla sua famiglia, si deve la conservazione di una nutrita serie di tali fogli volanti36.

I documenti in questione potevano venir ricomposti in volumetti, senza una tessitura letteraria che dissimulasse più di tanto l’operazione di sutura fra le parti e ne spiegasse i tempi e le modalità, a differenza delle descrizioni di corte ferraresi, mantovane e poi fiorentine. Un caso ricostruibile nella stratificazione delle fasi elaborative è quello senese del torneo o sbarra degli scolari dello Studio del carnevale 1562 [1563: a Siena, come a Firenze, il computo degli anni era ab incarnatione]: una sorta di puzzle che coinvolge testi manoscritti e a stampa37. Analoga possibilità per il torneo del 1602 in occasione della visita del Granduca Ferdinando, del quale esiste la descrizione a stampa (Relatione della giostra a campo aperto fatta in Siena da’ signori huomini d’arme sanesi alla Real Presenza de' serenissimi prencipi di Toscana), che compone al proprio interno l’insieme di cartelli di sfida e di risposte con i capitoli che vennero affissi con molti giorni di anticipo rispetto alla data del torneo, il tutto preceduto da un «ragguaglio» dell’intera giostra redatto dal «libraro» Salvestro Marchetti; in questo caso sopravvivono in fogli i cartelli rimontati nel libretto38. Caso analogo quello della giostra del 1619 sempre per una visita granducale39. In sintesi, attraverso un capillare spoglio dei documenti d’archivio, è possibile entrare nella “macchina” festiva e ricostruire le sue modalità di produzione delle memorie letterarie, alla base delle quali stanno i fogli volanti che venivano distribuiti.

Se, al di là dei tornei, delle giostre e delle battaglie prendiamo in esame le feste di altra natura, troviamo esplicita menzione della distribuzione di fogli volanti con versi in occasione della mascherata pastorale notturna per le vie della città organizzata per festeggiare la venuta a Siena di Francesco I con la moglie Bianca nel carnevale del 1582 [1583], descritta da Felice Figliucci in una lettera commemorativa:

[…] uno de’ suoi Pastori (che con tre altri, in nappi d’argento, avea portato mille carte di queste stanze per presentare) andò a far riverenza a Loro Serenissime Altezze e a fargliene parte, che furno ricevute con grato aspetto, e che poi presentava quelli altri Signori e Signore […]40.

Rituali erano inoltre le mascherate per le ricordate Serre di carnevale degli scolari dello Studio41, le sfilate delle contrade per il palio42 o per altre occasioni festive, come i matrimoni43, o le visite granducali44.

Si tratta di versi, soprattutto stanze, cantati in concomitanza con la distribuzione di fogli volanti, ma, al di là delle feste di piazza, sono particolarmente interessanti per i nostri fini i testi offerti nelle riunioni private, le celebri «veglie senesi»45, da personaggi allegorici o mitologici che comparivano ad omaggiare le dame, cioè qualcosa di più vicino al privato consesso degli Accademici Invaghiti davanti ai quali venne rappresentato l’Orfeo. È il caso di: Arianna presentando molti gomiccioli di refe, acconci in forma di pomo, con varii motti al nobil drappello di Donne Sanesi, nella vegghia del Sig. Cavalier Fausto Orlandini il dì 20 di Febbraro 1589 canta le presenti stanze (fig. 1). Il personaggio è mostrato mentre distribuisce (presentando) le tradizionali «venture», qui doni accompagnati da motti dal significato oscuro destinati ad essere decrittati dai gentiluomini presenti (sempre i medesimi, al tempo stesso o successivamente, nelle fasi della vita, scolari, accademici, consulenti letterari delle contrade, nonché ideatori di feste), riguardanti il fato o le doti dei presenti, comunque sempre in lode delle gentildonne46.


                                                              

Fig. 1: Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati: R. III. 22, n. 12. Misure: mm. 290x200. Autorizzazione della Biblioteca comunale degli Intronati, Istituzione del Comune di Siena. È vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.


La micro rappresentazione evocata da questo foglio si allinea ad una serie cospicua di testimonianze sulle Venture Befane, abitualmente tenute la notte dell’Epifania, e non solo a Siena, ma che potevano anche aver luogo in altri momenti dell’anno, come in questo caso: si trattava comunque di predire la ventura dei partecipanti alla festa. Ad esempio gli Accademici Accesi allestiscono il 28 aprile del 1561 un Intertenimento in occasione delle nozze del coaccademico Pandolfo Petrucci, durante il quale ha luogo una ventura in forma di mascherata di Sibille,

le quali dentro a bellissime frondi d’alloro et di palma, dove si afferma quelle esser state solite di dar alle genti i consegli et le risposte loro, composte di seta verde con le parole intessutevi d’oro, portavano intorno a ciascuno quivi presente segnato in esse il suo responso et notato il suo fato, havendo elle primieramente cantando in musica dolcemente dato notitia dello stato loro et del lor venir in simil luogo47.

I presenti avevano dunque in mano foglie di seta con scritte in oro che venivano lette coralmente e interpretate dagli accademici (che le avevano composte), secondo un ben preciso disegno volto a pregar d’amore le gentildonne, speranza di cui si fa interprete anche il successivo personaggio della Fama, guida di quattro Poeti: una vera e propria rappresentazione di cui il pubblico fa parte48. È opportuno notare che una foglia artificiale recante scritte, per di più amorose, destinata ad essere tenuta in mano e letta, si trova anche nella sopra ricordata raccolta bolognese foglinfesta. Carte e sete d’occasione, segno anche in questo caso di un uso generalizzato all’epoca e di una tipologia iconografica ricorrente49. La vera e propria codificazione che di queste venture viene redatta a Siena nel 1569 [1570] vuole anche costituire un confronto con la cultura egemone della corte fiorentina, con espliciti richiami ad una sontuosa ventura dell’allora principe Francesco: Riverci di medaglie della Ventura Befana de' Cortigiani Ferraiuoli. Con due ragionamenti: l’uno intorno alla materia delle Sorti, o Venture Befane, et l’altro intorno a’ riverci di medaglie, et spetialmente a’ proprii delle persone private; con brevissime dichiarationi nella fine sopra ciascheduno particolar rivercio50.

 

3. Per meglio intendere il soggetto: voce, versi, oggetti ricordo.

E proprio a Firenze, cercando fra le occasioni medicee di spettacoli corredati da ausili di varia natura, un esempio palese è quello dell’autunno 1608, in occasione delle nozze con Maria Maddalena d’Austria di quel Cosimo de’ Medici che due anni prima aveva trionfato nella battaglia-balletto di Pisa. Nella primavera dello stesso anno Francesco Gonzaga aveva celebrato le proprie nozze a Mantova, durante le quali, come già detto, ebbero luogo un fastoso torneo e una giostra e venne rappresentata anche l’Arianna di Ottavio Rinuccini con musiche di Monteverdi, mentre nel carnevale di quello stesso anno era stata ripresa la Dafne di Rinuccini, musicata stavolta da Marco da Gagliano51. Il 27 ottobre, nel corso della Giostra de’ Venti in Piazza Santa Croce, come spiega Camillo Rinuccini nella Descrizione delle feste, venne distribuito un libretto informativo:

Mentre passeggiavan queste maschere la piazza, fu sparso fra gli spettatori, un poemetto in ottava rima, dove si dichiarava tutta la invenzione di questa mascherata, e le ragioni di tutte le varietà di essa, così nella Corte d’Eolo come nell’esercito de’ venti, e quel che intendevano di fare, e a che fine e in che modo52.

Il poemetto aveva il compito di rendere comprensibile al pubblico il complesso spettacolo, mentre otto anni dopo, nel 1616, la medesima funzione venne espletata verbalmente, a beneficio dell’ormai Granduchessa Maria Maddalena, dall’Alba e da Venere nel corso dell’articolatissima festa cavalleresca Guerra d’Amore, tenutasi in tempo di carnevale ancora in Piazza Santa Croce. In particolare all’inizio l’Alba cantò parte delle 51 stanze riportate nella descrizione in modo che fosse compresa l’azione; Venere intervenne poi a chiudere l’azione stessa cantando un madrigale (solo enunciato, ma non presente nella stampa) che riassumeva le 17 stanze che, subito dopo, stavolta riportate nel testo, spiegavano distesamente gli esiti:

Entrato il Carro, di verso la man’ sinistra della Serenissima, con gran’ pompa, sempre sonandosi, s’avviò verso di lei e, giunto che le fù dinanzi, l’Alba, fermandosi il Carro, cantò parte delle seguenti stanze, le quali danno notizia dell’invenzion’ poetica e dell’occasione della battaglia.

[…] Venere volgendosi verso la Serenissima cantò un madrigale, dove era brevemente racchiuso il concetto delle seguenti stanze, le quali contengono lo scioglimento della battaglia e l’occasione del balletto a Cavallo, che di poi si fece53.

Per fornire ulteriori esempi, qualcosa di molto speciale, documentato con esattezza dal Diario del Tinghi, avvenne invece in occasione della Battaglia fra tessitori e tintori. Festa fatta in Firenze nel fiume d’Arno il dì 25 di luglio 1619:

[…] volendo S.A. che mellio le dame intendessero il sugetto delle feste, fece stampare più di mille cartelli del soggetto et fece fare cinquecento roste o ventarole in forma ovata, stampatovi il teatro con la forma della festa; et dall’altra parte molte stanze composte sopra la materia della festa et con e' manici inargentati di dette roste, le mandò a presentare per mano di messer Antonio Paulsanti alle finestre dove erono dette dame et gentildonne, con un cartello et un ventallo per ciascheduna54.

È il celebre ventaglio a rosta di Jaques Callot55 che era evidentemente un oggetto ricordo, un gradito accessorio per mitigare il caldo dell’estate e, al tempo stesso, insieme al cartello, un valido ausilio per la comprensione di ciò che veniva rappresentato sul fiume.

A quest’altezza cronologica, per altro, sono già in uso, presso i Collegi gesuitici, gli Argomenti o Scenari o Soggetti delle rappresentazioni distribuiti al pubblico per mediarne il rapporto con lo spettacolo anche dal punto di vista linguistico, dato che, fino a metà Seicento, i testi saranno soprattutto in latino56. Da questo punto di vista Firenze, il 6 ottobre 1624, con La Regina Sant’Orsola di Andrea Salvadori (musicata da Marco da Gagliano e rappresentata in occasione della visita di Carlo d’Austria, fratello della granduchessa Maria Maddalena) fece da apripista al teatro per musica a tema religioso, che nacque dall’ibridazione del fiorentino “recitar cantando” proprio col teatro gesuitico57, e adottò l’Argomento come ausilio agli spettatori per seguire un testo in chiaro volgare, sì, ma cantato, e quindi di non immediata comprensione58, come già l’Orfeo, per il quale, però, si era fatto ricorso a quel testo integrale che per La Regina Sant’Orsola fu stampato dopo la rappresentazione del gennaio 1625, in occasione della visita del principe polacco Ladislao Sigismondo Vasa59. Gli argomenti gesuitici e della Sant’Orsola possono essere visti come una variante di successo del «poemetto» distribuito in Piazza Santa Croce nel 1608. Pochi anni dopo, infatti, i teatri veneziani, in competizione fra loro, inizieranno a stampare scenari delle opere, prima che questi vengano definitivamente soppiantati, a partire da metà secolo, dal libretto completo: la Delia dello Strozzi appare a stampa come scenario il 5 novembre 1638 e come libretto il 20 gennaio 163960.

Degna di nota, e sulla quale vale la pena soffermarsi, è l’Ermiona, rappresentata a Padova nell’aprile del 1636, di cui fu autore e corago il marchese Pio Enea II degli Obizzi61, in stretti rapporti con le corti dei Gonzaga, degli Este di Modena e dei Medici. A Firenze assisté e prese parte a spettacoli cavallereschi (appunto Guerra d’Amore e l’immediatamente successiva Guerra di Bellezza), a Ferrara fu membro dell’Accademia degli Intrepidi, sensibile allo stile recitativo fiorentino, che, con i tornei allestiti sotto il patronato di Enzo Bentivoglio, mediò il rapporto fra i tornei di tradizione ferrarese (che hanno all’origine il già ricordato Castello di Gorgoferusa) e quello padovano dell’Ermiona. Quest’ultimo, interamente cantato e accompagnato da musiche, con armeggerie, balli ed effetti speciali macchinistici, rappresentato davanti ad un pubblico misto, non limitato a cortigiani o accademici, è stato a lungo considerato l’anello di congiunzione fra tornei a soggetto e melodramma veneziano, secondo quanto riportato da Cristoforo Ivanovich nelle sue celebri Memorie teatrali di Venezia, pubblicate per la prima volta nel 1681, in appendice a Minerva al tavolino, in cui si riferisce la testimonianza dello stesso Obizzi in merito alla sequenzialità fra l’Ermiona e l’apertura dei teatri pubblici a Venezia con la rappresentazione dell’Andromeda di Benedetto Ferrari al San Cassiano nel 163762. In realtà, l’evoluzione dello spettacolo veneto a cavallo degli anni Trenta-Quaranta è molto più complessa, e la filiazione a cui allude l’Ivanovich assai meno diretta, dato che, ad esempio, già le feste fiorentine sopra citate erano cantate e accompagnate da musica, comprendevano balli, macchinerie, e così via63, ma ai nostri fini conta evidenziare come l’accortissimo Obizzi avesse pensato veramente a tutto: «Ad ogni Azione venivano per suo avviso distribuiti alle Dame gli argomenti»64. Le quattro azioni in cui si articola l’Ermiona erano dunque spiegate alle gentildonne, anche qui destinatarie canoniche degli omaggi, tramite quegli argomenti che si avviavano a correre la fortuna dei teatri pubblici della dominante.

Gli esempi addotti fino a questo momento di fogli volanti e libretti (intesi come volumetti) distribuiti al pubblico o canti didascalici ad personam sono documenti parziali dello spettacolo, che ne facilitano la comprensione, ma certo non in modo esaustivo, in quanto eventi di piazza come tornei, battaglie e mascherate sono costituiti solo in parte da elementi testuali e in misura di gran lunga maggiore da azioni, che possono solo essere anticipate tramite sinossi, per supplire alla difficoltà costituita dalla distanza stessa fra spettatori e spettacolo che può rendere confusa la decrittazione di coreografie e movimenti di massa. La descrizione dei costumi, fondamentali per la riuscita dello spettacolo, è affidata di norma alle descrizioni posteriori. Le stesse veglie senesi, assai più intime, una sorta di seduta accademica “da salotto” in onore delle gentildonne, erano composte da più elementi (mascherate, giochi, novelle, balli), di cui solo i canti sembrano trovare riscontro nei fogli a stampa, tipograficamente analoghi ai cartelli di sfida e ai versi delle Serre e delle mascherate di piazza65, mentre le polizze delle venture sono più vicine alla categoria degli oggetti ricordo.

In sintesi, quando ci si pone il problema dello spettacolo “dalla parte del pubblico” gli organizzatori dello spettacolo stesso ritengono talvolta opportuno fornire qualche sorta di ausilio per eventuali difficoltà di comprensione di varia natura ed è in questa diffusa esigenza che s’inquadra il proto-libretto per musica dell’Orfeo, attraverso, però, uno stadio diverso costituito dal diffusissimo teatro destinato alla recitazione in lingua volgare, che di per sé non abbisognava di viatici, ma che in particolari occasioni poteva anch’esso rivelarsi ostico per una parte degli spettatori, così come ostico era il teatro gesuitico in una lingua diversa da quella corrente.

 


4. «gli piacerebbe per lei latina»: traduzioni per gli ospiti stranieri.

Le nozze di Alfonso II d’Este con Barbara d’Austria nel dicembre del 1565 (la prima moglie Lucrezia de’ Medici era morta nell’aprile del 1561) furono celebrate, dal punto di vista spettacolare, alla ferrarese, con la terza delle cavallerie: Il Tempio d’Amore (11 dicembre). In questa, che è la più fantasmagorica delle cinque che ebbero luogo nel corso degli anni, alla fine delle armeggerie, nel pieno della battaglia generale, con un colpo di teatro si annunciava il deus ex machina:

Le Maghe a quello arrivo, mandano da quei boschi & monti i Cavalieri che vi tenevano. Et essendosi attaccati tutti insieme, le Gratie fanno apparire il vero Tempio d’Amore, & disparire le case delle Maghe; in luogo delle quali nascono vestibuli, che accompagnano il medesimo Tempio: dal cui corridore la principale delle tre Gratie parla in idioma Tedesco, & dice la cagione, per la quale non sia andato più oltre il conflitto, & insieme si sia discoperto quel Tempio, attribuendo il tutto alla venuta della Serenissima Barbara d’Austria66.

La venuta epifanica di Barbara era dunque la vera risolutrice e il fatto che la proclamazione fosse in lingua tedesca costituiva, oltre ad un ovvio omaggio alla principessa, anche una delucidazione per tutti gli invitati stranieri sul finale della cavalleria e, in pratica, ne forniva il senso complessivo. Si ricordi, per meglio inquadrare le tendenze ferraresi, anche la traduzione che nel Castello di Gorgoferusa l’«interprete» forniva della petizione «in lingua araba» della Regina Alfarabia: in quel caso la lingua straniera, omessa nella descrizione, non serviva a comprendere alcunché, ma faceva parte del fascino dello spettacolo delle lingue, così come, più oltre, le parole dei cavalieri persiani, dotati anch’essi di interprete67. Nel 1565, invece, lo spettacolo delle lingue acquisì una sua precisa funzione esplicativa.

Subito dopo, nello stesso mese, ebbero luogo le nozze “gemelle” di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria, sorella di Barbara, entrambe figlie dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo e sorelle dell’attuale imperatore Massimiliano II, nonché di Eleonora, moglie del duca di Mantova Guglielmo. Le celebrazioni medicee furono alla fiorentina, ebbero cioè, come piatto forte, un’opera teatrale con intermezzi, così come era stato per le nozze dei genitori di Francesco, Cosimo I e Eleonora di Toledo nel 1539, e così come sarà nelle nozze future di altri Medici. La rivalità fra le corti in materia culturale si legava anche all’annosa “questione della precedenza” fra le casate (temporaneamente sedata nel periodo del matrimonio di Alfonso con Lucrezia), nel cui ambito sono anche da inquadrare le nozze con principesse imperiali: solo il conferimento a Cosimo I del titolo di granduca nel 1569 porrà fine alla disputa politica che continuò, per altro, sul piano delle magnificenze e delle innovazioni spettacolari68.

Il 26 dicembre andò in scena nel Salone dei Cinquecento La cofanaria di Francesco D’Ambra (morto nel 1558) corredata, per la prima volta, da ben sei intermedi scritti da Giovan Battista Cini, musicati da Alessandro Striggio senior (allora al servizio dei Medici e padre del futuro autore dell’Orfeo69) e da Francesco Corteccia e allestiti da Bernardo Buontalenti, che incorniciavano la commedia e acquistavano decisamente preponderanza nell’economia dello spettacolo70. La commedia venne edita dopo le nozze ad istanza del cartolaio Alessandro Ceccherelli (Firenze, figliuoli di Lorenzo Torrentino e Carlo Pettinari compagni, 1566), abbinata alla descrizione degli intermezzi di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (Firenze, s.st., 1566); la legittimità dell’operazione era garantita dal permesso concesso dal figlio del D’Ambra e dal Cini al Ceccherelli stesso, come questi dichiara nella dedica a Filippo Calandri, presente alla rappresentazione71. È degno di nota, dal nostro punto di vista, che gli intermedi fossero percepiti come una sorta di risarcimento per quella parte di pubblico di lingua tedesca che aveva accompagnato Giovanna a Firenze, tanto più che erano imperniati sull’arcinota favola apuleiana di Amore e Psiche e quindi di per sé comprensibili a grandi linee per un pubblico di media cultura. Il Ceccherelli spiega:

[…] è veramente stata una di quelle cose che meritava esser goduta, & vista non solo da i Toscani; ma da qual si voglia altra natione perche se bene fussero stati privi dell’intendere i concetti della Commedia (non havendo la nostra lingua) si sarebbero resi paghi, & contenti de la bella varietà de gl’Intermedij, et della eccellente Musica con la quale erano esplicati si alti concetti72.

La situazione fotografata da queste parole si rivela però assai più mossa scavando sotto la superficie della stampa commemorativa, grazie alla sopravvivenza di una serie di documenti manoscritti, come nel caso dell’Orfeo: per quanto riguarda la commedia, fu fatto in realtà un tentativo per renderne più comprensibili «i concetti» anche al pubblico non italiano. Dal carteggio di Vincenzio Borghini, magna pars nell’organizzazione del complesso festivo nuziale, emerge la corrispondenza con Giovan Battista Cini, autore degli intermezzi, ma anche revisore del testo della commedia ed estensore di un prologo ad hoc, che sottopose al Borghini:

[…] gli mandero l’original dell’Ambra che l’altra copia del Duca ho tutta rifrustata et ritocca per levar que modi di dire duri che la vedrà et me ne servo a levar le parti di cui la maggior parte sono scritte et date et s’imparano et ho speranza di essere a tempo beniss.o. Ho fatto un po di prologo secondo quel mio capriccio et lo mando a V.S. non pur per concederli che la lo ritocchi tutto quanto, ma con pregarla et strignerla a farlo: a ogni modo questa è la prima bozza et come si dice il primo furore che dio non voglia che non sia pazzia. Introducovi Barbino et un Tedesco qual vi parrà, le parole del Tedesco potrà tradurle Mr Jac. Dani. V.S. legga di gratia l’una cosa et l’altra et aiutimi che se bene ell’ha faccenda come me et più ell’è più pratica, ha più cervello et sa meglio scompartire ogni cosa: io per me a confessargli non posso piu che oltre a dua giorni che sono stato sempre fisso di ritoccar la Comedia et ridurla alla moderna, come V.S. vedrà, questa è la terza notte ch’io veglio et non posso dormire, siche io me gli raccomando. Son da poco, et lo confesso. Domattina vorrei farlo trascrivere et presentarlo al Duca con l'altro di Franc.o d’Ambra ch’io ritoccherò oggi acciocché gl’eleggessi […]73.

La proposta del Cini era quella di un prologo bilingue nel quale la parte in italiano doveva essere sostenuta dal nano di corte Barbino, poeta e letterato, ritratto in quegli anni in una statua da Valerio Cioli74, mentre quella in tedesco da un qualsiasi personaggio a cui era solo richiesta la competenza linguistica del caso75. Traduttore Jacopo Dani, segretario ducale, che conosceva bene il tedesco in quanto fiammingo di nascita e che aveva partecipato alle trattative per le nozze del principe con Giovanna76: tale prologo doveva essere sottoposto al vaglio di Cosimo I insieme a quello originale del D’Ambra (che fu poi stampato con la commedia). Sembra che in realtà nessuna delle due soluzioni sia approdata alla scena, e che abbia fatto le veci del prologo il primo intermedio77, ma ciò che importa qui è che nel corso dei preparativi si sia pensato di allestire un prologo bilingue la cui funzione doveva essere probabilmente quella di fornire alla corte tedesca una sinossi della trama della commedia: cioè l’argomento. Nel 1565 il problema della lingua straniera propria di buona parte del pubblico era dunque perfettamente presente alle due corti, ferrarese e fiorentina.

Ancor più interessante, però, l’esempio che sta alle spalle della soluzione ideata dal Cini: si tratta dell’Amor costante di Alessandro Piccolomini, celebre accademico e letterato senese, tra i fondatori della “commedia alla senese”, molto apprezzata a Firenze al punto che proprio un testo della città assoggettata, La Pellegrina di Girolamo Bargagli, allieterà le nozze di Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena nel 1589.

L’amor costante avrebbe invece dovuto allietare la venuta a Siena dell’imperatore Carlo V nel 1536, ma, per motivi economici, temendo che l’imperatore non sostasse in città, non venne rappresentata. Fu però stampata nel 1541 e godé di ampia fortuna per tutto il secolo78. Il prologo è bilingue italiano/spagnolo, dialogato fra il personaggio del Prologo e quello dello Spagnolo, che, capitato per caso, chiede informazioni sullo spettacolo che sta per iniziare, in particolare vuole proprio conoscere l’«argumento» che il Prologo stesso si accinge a fare alle dame del pubblico. Lo Spagnolo, che capisce l’italiano, ma non bene e comunque non lo parla, a ogni sezione dell’argomento che il Prologo declama, fa seguire la ripetizione della stessa in lingua spagnola, così da esser sicuro di aver ben capito tramite la verifica del Prologo stesso, il quale, a sua volta, capisce lo spagnolo, ma non lo parla. Con questo gioco linguistico il pubblico spagnolo della corte di Carlo V avrebbe ricevuto in forma verbale quell’ausilio che in altre occasioni abbiamo visto fornire dai fogli volanti, che in seguito sarà appannaggio degli scenari gesuitici a stampa e che nel 1565 il Cini voleva probabilmente offrire agli spettatori di lingua tedesca.

Gli ausili, dunque, potevano essere verbali, destinati ad una moltitudine di persone, e, di fatto, molto economici, ma non mancavano i libretti manoscritti, riservati a pochi e decisamente più onerosi, quanto meno dal punto di vista organizzativo. Gli intermedi fiorentini del 1565 erano, sì, largamente comprensibili per persone mediamente acculturate, in quanto imperniati sui passaggi salienti della favola di Amore e Psiche, ma per la principessa austriaca si fece altro. La Descrizione degl’intermedii rappresentati colla commedia è un fascicoletto a stampa autonomo, reperibile anche separato dalla commedia, come libriccino, ed è opera, come detto, del Lasca, alquanto polemico, nella dedica ai due sposi, contro chi «con fretta et perciò con poca cura» ha già dato in luce gli intermezzi, «cavati da una semplice descrittione fatta dall’autor loro innanzi a la loro rappresentatione ad instanzia di Sua Altezza, accioché Ella potesse più agevolmente intenderli»79. In controluce allo splendore festivo si delinea un sottobosco di trafugamenti tipici del modo in cui i testi teatrali potevano all’epoca approdare alla stampa ed è degno di nota che in effetti la Descrizione dell’apparato della comedia et intermedii d’essa di Domenico Mellini (Firenze, Giunti, 1566), uscita insieme alla sua Descrizione dell’entrata di Giovanna d’Austria,  sia fonte imprescindibile dal punto di vista dell’allestimento complessivo della sala e del palco, ma assai meno accurata per quanto concerne gli intermezzi, di cui invece il Lasca non solo fornisce i testi e le movenze, ma anche l’organico delle voci e degli strumenti. Inoltre sempre «nel 1566 uscì una terza edizione della Descrizione dell’entrata del Mellini, con l’aggiunta della ‘quarta impressione’ della Descrizione degli intermedi. È significativo che questa volta il Mellini si giovò del testo del Lasca che occupa, sebbene il nome del Lasca non figuri, le pp. 11-28»80. La prima versione del Mellini era dunque basata su un testo semplificato destinato all’uso personale della principessa, alla quale, però, venne offerta anche una traduzione in tedesco degli intermezzi.

Infatti nella lettera al Borghini del 24 dicembre il Cini chiedeva affannosamente aiuto:

Il Principe harà satisfatione che S. Alt.za intenda questi miei Int.i et perche la non intende la lingua bene mi ha mostro che quella mia Descrizionetta gli piacerebbe per lei latina. V.S. vede in che grado io sono che poco io so et posso: supplicola a farmela tradurre a qualche amico con presteza et piacendoli si posson lassare e’ versi vulgari, rimettendomi al giuditio suo del più o manco circa il levare o il porre, purche sia un poco leggiadro, et credo andrà sino in Alamagna poi che mi dice volerlo dare anche all’Imbasc.re o Conte potendosi haver riscritto domattina alle 13 hore saria gran bene81.

Tra la vigilia e la mattina di Natale, dunque, gli intermezzi vennero tradotti, proprio a ridosso della rappresentazione del 26, per rendere «latina», cioè chiara, la breve descrizione destinata a Giovanna, ma anche a un ristrettissimo numero di esponenti della corte, futuri ambasciatori in patria delle magnificenze medicee.

Un caso analogo si verificherà a Mantova nel 1598, allorché, nell’ambito dei festeggiamenti per il transito in città di Margherita d’Asburgo che, accompagnata dalla madre e da un imponente seguito, andava sposa a Filippo III di Spagna, fu rappresentato, con sontuosi intermedi, Il pastor fido di Battista Guarini, in data 22 novembre82. Il cameriere segreto del duca Vincenzo, Giulio Cesare Strozzi, scrive al segretario ducale e consigliere supremo di stato Annibale Chieppio (che continuerà a mantenere il suo ruolo preminente a corte anche sotto Francesco e Ferdinando):

Vole Sua Altezza che col mezzo d’un padre Gesuita o d’altra persona che sia habile facci far Vostra Signoria un sumario breve in thodesco del contenuto di ciaschedun delli atti della pastorale, et delli intermedi principalmente acciò dandosi quella scrittura in mano alla Maestà della Regina, et della Serenissima Arciduchessa possino queste Signore leggendo, et vedendo le attioni di chi recita quasi intendere quello che andranno dicendo. Sarà necessario che habbino uno di questi sumari per una, et se questo ordine che Sua Altezza si può migliorare si rimette al prudentissimo giuditio di Vostra Signoria, ma che in ogni modo si faccia qualche cosa acciò che queste Signorie intendano almeno le attioni [poiché] esse mostrano di desiderarlo molto […]83.

La lettera è del 13 novembre, ben prima dell’arrivo di Margherita il 20 successivo: in sintesi i libretti con le traduzioni erano diventati dei veri e propri affari di stato da predisporre con cura e largo anticipo, anche se, come già a Firenze, erano destinati a pochi eletti personaggi per i quali sarebbero stati anche preziosi oggetti ricordo84. Non solo, questi libretti vengono registrati anche nelle descrizioni a stampa degli eventi, come in quella, edita a Napoli nel 1604, di Giovan Battista Grillo («[…] fu dato un libro per uno tradotto in lingua alemanna di quanto fu recitato, e rapresentato […]»), e soprattutto in quella di Ferrante Persia, uscita dalla mantovana stamperia ducale Osanna nello stesso 1598: «[…] una compendiosa tradottione in lingua Alemanna […] legata in due libretti separatamente […]»85.

 

5. «l’armonia […] regga il canto senza impedire l’intendimento delle parole».

Nota raccomandazione degli estensori delle pagine prefatorie delle partiture delle prime rappresentazioni del “recitar cantando” e delle prime raccolte di componimenti monodici è quella di far comprendere bene le parole cantate: anche queste, in effetti, una sorta di lingua “altra”. Già nella Rappresentatione di anima, et di corpo di Emilio de’ Cavalieri del 1600 Alessandro Guidotti, cui era stato affidato il compito di  pubblicare la partitura e che fa da portavoce all’autore, avverte che il cantante «esprima bene le parole, che siano intese» e che «il luogo, ò sia Teatro, overo Sala, quale per essere proportionata à questa recitatione in musica, non doveria esser capace, al più, che di mille persone, le quali stessero à sedere commodamente, per maggior silentio, e sodisfattione loro: che, rappresentandosi in Sale molto grandi, non è possibile far sentire à tutti la parola, onde sarebbe necessitato il Cantante à forzar la voce, per la qual causa l’affetto scema; e la tanta Musica, mancando all’udito la parola, viene noiosa»86.  La Descrizione delle felicissime nozze del 1600 da parte di Michelangelo Buonarroti il giovane loda Giulio Caccini che, nel Rapimento di Cefalo, «mostrò di quanta efficacia fosse la musica, che imitando nobilmente il nudo parlare, non asconde sotto armonia la intelligenza significativa delle parole»87. Il musicista stesso ribadisce il concetto: le pagine Ai lettori nell’edizione 1601 [1602] delle sue Nuove musiche sono fondate sulla necessità dell’«intelligenza delle parole», in contrasto con le difficoltà insite nell’ascolto del canto contrappuntistico88. Nella Dafne del 1608 Marco da Gagliano, anche qui nell’iniziale Ai lettori, narra «l’origine delle rappresentazioni in musica», premettendo: «Procurisi […] di scolpir le sillabe, per far bene intendere le parole, e questo sia sempre il principal fine del cantore in ogni occasione di canto, massimamente nel recitare, e persuadasi pur ch’il vero diletto cresca dalla intelligenza delle parole». E ribadisce poi: «[…] procurisi che l’armonia non sia ne troppa, ne poca, ma tale che regga il canto senza impedire l’intendimento delle parole […]»89.

Questa necessità avvertita dai musicisti del nuovo stile era per altro condivisa da tempo da chi, in ambienti raccolti (camere dei musici, camerini, ecc.), assisteva ai concerti madrigalistici. Nella Ferrara di Alfonso d’Este, sposato in terze nozze (1579) con Margherita Gonzaga, sorella di Vincenzo, la musica, sempre di gran rilievo nella cultura di corte, trovò nel cosiddetto concerto delle dame una delle sue espressioni più ammirate dell’epoca, celebrato anche da un gruppo di noti esponenti del mondo musicale e letterario fiorentino come Giovanni Bardi, Giulio Caccini, Jacopo Corsi, Ottavio Rinuccini che, fra il 1583 e il 1592, poterono ascoltare le cantatrici90.

Per Alfonso si trattava addirittura di musica segreta, coperta da interdetto, che poteva essere esibita ai colti visitatori ma non doveva uscire, a stampa o manoscritta, dall’ambito della corte91, al pari dei pezzi per il balletto delle dame, caro a Margherita. Del concerto come dei balli il duca fece curare raccolte manoscritte in «libri»: genericamente «delle parole», specificamente «delle tirate», dei «canti» e «de balletti»92.

[…] nel dicembre del 1582 al poeta Muzio Manfredi viene offerto un «libro delle compositioni», al fine di facilitargli la comprensione dei testi, ma egli lo rifiuta dicendo che «delle Rime ne poteva sempre leggere, ma non sempre vedere, et udire cantar creature tali, et che per ciò … il Libro si poteva riporre» […]; e il 29 luglio del 1584 Striggio scrive al granduca di Toscana: «il sig. Duca mi favorisse di continuo di mostrami in scritto tutte le opere che [quelle signore] cantano a la mente, con tutte le tirate e passaggi che vi fanno» […]; e Caccini, nell’ottobre del 1592, viene invitato dal duca a sedergli accanto «con il libro davanti di quello, che cantavano le Sig.re Dame» […]93.

Nel 1584 i canti furono oggetto di tentativi di vero e proprio spionaggio da parte di Alessandro Striggio senior (già al servizio dei Medici e ora a quello del duca Guglielmo di Mantova) a favore del duca di Firenze, Francesco, probabilmente stimolato all’interesse per il concerto ferrarese dal principe Vincenzo, appena sposatosi con sua figlia Eleonora94, dato che la musica a Mantova aveva un ruolo fondamentale come a Ferrara e che anche in quella capitale erano presenti valide cantatrici95, la cui chiarezza di dizione si tramandò a lungo nel ricordo di una sorta di «gara» a distanza tra le due corti: erano capaci di «far spiccar bene le parole in guisa tale che si sentisse anche l’ultima sillaba di ciascuna parola», come scriverà ancora nel 1628 Vincenzo Giustiniani96. Già il Bardi nel suo Discorso mandato [...] a Giulio Caccini detto Romano sopra la Musica antica, e ‘l cantar bene, esortando a mantenere, cantando, «il verso libero, e bello, e senza nessun guastamento», portava ad esempio «le non mai a bastanza lodate Signore di Ferrara, alle quali io ho udito cantare più di trecento trenta Madrigali alla mente, cosa miracolosa, né mai guastarne pure una sillaba»97. Le considerazioni e le raccomandazioni per il “recitar cantando” e per i madrigali sono dunque analoghe e, in fin dei conti, le personalità implicate sono ricorrenti o sono assimilabili le une alle altre.

Degna di nota nelle riunioni musicali ferraresi è l’abitudine del duca di declamare a parte i madrigali che venivano eseguiti («[…] vedere et sentire il Sig. Duca legere un bellissimo madrigale con gran gusto che tratava sopra et belli occhi et di belle mani d’una Dama […]»98), elemento di congiunzione con quanto spiegherà poi l’anonimo autore del Corago negli anni Trenta del Seicento99, consigliando al compositore dello «stil musico recitativo»:

[…] puote essere di notabil aiuto il sentire quei medesimi versi che si averanno da mettere in musica recitati prima da qualche valente et espressivo recitante, perché avendo inanzi un bel prototipo si sveglia la mente a ritrovare le idee o forme musicali che meglio imitano quelli effetti e sensi della poesia, non essendo altro questo terzo stile recitativo che una modulata imitazione d’un perfetto recitamento100.

Più avanti, ponendosi dalla parte dell’«auditore», istituisce un paragone fra i «salmi ecclesiastici» che, pur con contrappunto e fuga, sono comprensibili perché, di fatto, saputi «quasi a mente dall’udienza», e «qualche mottetto di parole nuove», in cui la polifonia genera solo «confusione nell’orecchio […] né l’intelletto può aiutarsi non avendo precognizione della parola netta che si canta»101. A beneficio della comprensione del tutto, passando al palcoscenico, suggerisce, là dove «il coro fa le parti dell’attore»:

[…] per rimediare all’oscurità dell’intelligenza sarebbe bene  che prima il tutto il coro cantasse, uno di quelli cantasse solo per essempio quei versi che poi tutti gli altri con perfezione di contrapunto repetessero perché così e s’intenderanno le parole distintamente del primo e si goderà dell’artificio musicale dell’altri cantanti perché quel cantare e non essere [= non intendere] quel che si canta se altrove è disdicevole, nella scena, che è più d’ogni altra cosa rappresentante, è cosa intollerabile102.

Evidentemente le preoccupazioni erano per tutti le medesime, ma in particolare si noti come la declamazione del madrigale da parte del duca di Ferrara, la declamazione del recitante preliminare alla messa in musica dei versi e il canto monodico della parte che il coro affiderà poi all’«artificio musicale» polifonico siano tutti ausili verbali affini a quelli incontrati nel teatro di recitazione. Nel caso della musica, in particolare, le soluzioni per raggiungere la «precognizione della parola» investono compiutamente e non per sinossi l’intera porzione di testo di possibile difficile comprensione. E se Muzio Manfredi rifiutava il libro offertogli dal duca di Ferrara perché preferiva godersi l’armonia dei madrigali, lo stesso Manfredi, quando agiva come autore di opere teatrali e non liriche, e quindi in nome delle esigenze rappresentative, pretendeva assoluta chiarezza di dizione, tanto che il 20 novembre 1591, scrivendo a Jaches de Wert, maestro di cappella, per una prevista rappresentazione mantovana della sua Semiramis. Boscareccia, invitava il compositore a far sì che il canto fosse chiaro e che «parola non se ne perda per la intelligenza» sia nei cori, sia nel ballo d’Imeneo che nel madrigale in lode della dea103. Da parte sua Angelo Ingegneri, corago della rappresentazione dell’Edipo tiranno per l’inaugurazione dell’Olimpico di Vicenza nel 1585, quando, nel 1598, travaserà la sua esperienza nel trattato Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, chiuderà la dissertazione raccomandando che nei cori delle tragedie «soprattutto che le parole sieno così chiaramente esplicate ch’il teatro le intenda tutte, senza perderne una minima sillaba, sì che, ricevend’egli nell’animo la sentenza loro, che deve essere orribile e miserabile, ei si vada disponendo a quegli affetti  che sono propi del tragico; e alla fine, per mezzo loro, ne riceva la purgazione ch’il poeta s’è proposto di conseguire»104. In sintesi Ingegneri affidava alla chiarezza di dizione l’effetto catartico stesso della tragedia.

Analogamente, in una dimensione scenica e totalmente musicale, Francesco Gonzaga con la sua stampa integrale dell’Orfeo terrà ad offrire ai coaccademici non solo l’intelligenza delle parole, ma anche la possibilità di gustare contemporaneamente la congiunzione di parole e musica, ottenendo anche la piena cognizione dell’intera azione drammatica. La favola d’Orfeo è, in sintesi, una sorta di “precipitato” delle varie forme di ausilio già in forze da tempo in ambito spettacolare e che persisteranno a lungo. Si pensi che già nel 1490, nella Milano di Ludovico il Moro, ebbe luogo, in occasione delle nozze di Gian Galeazzo Maria Sforza con Isabella d’Aragona, la celebre Festa del Paradiso su testi di Bernardo Bellincioni e con gli ingegni di Leonardo da Vinci. Alla fine della festa mitologica «Apolo andò da Madama et con molte parole dolce et suave le apresentò a la sua Excellenza per parte de Giove et ditte le parole li donò uno libretto, nel quale contene tutte le parole che se sono ditte in ditta representatione nel quale libretto era alchuni soniti factti in laude et gloria de potentati suoi de li horatori che li erano presenti, et cosi de loro proprii, et a tutti ditti horatori ne fu dato uno per zaschuno da la Sua Excellenza»105. In quel caso il volumetto col testo integrale e i suoi corollari poetici era un ricordo della rappresentazione per un numero limitato di nobili del pubblico. Lo scarto mantovano sta nella distribuzione prima, e non dopo lo spettacolo, e a tutto il pubblico (comunque ben “perimetrato”, come vedremo fra poco), ma è importante che questo lontano esempio testimoni dell’uso storico di una gran varietà di “libretti” che, passando attraverso i manoscritti distribuiti alle principesse straniere prima degli spettacoli, arriva a lambire cronologicamente l’iniziativa dei Gonzaga.

E da questa prospettiva la messa a stampa della favola sembra riflettere una concezione strumentale, molto pratica della stampa stessa, intesa per quello che era stata già all’inizio: il modo per moltiplicare rapidamente ad libitum il numero di esemplari derivanti da una sola trascrizione, adesso applicato a beneficio di quelle che possiamo definire, ancora con l’autore del Corago, le «azioni armoniche moderne fatte in Fiorenza, Mantova, Ferrara»106; l’anonimo peraltro non fa menzione di testi da leggere distribuiti in occasione delle rappresentazioni.

 

6. Certi, incerti e ipotetici, comunque per pochi.

Se a Ferrara il favore speciale del duca consentiva di utilizzare per il tempo dell’esecuzione il «libro delle parole», nel 1598, proprio a Mantova, per il Pastor fido si erano allestiti due soli libretti manoscritti in tedesco (le sinossi presenti ancora oggi nei libretti di sala) e riservati alle Asburgo; nel 1607, la munificenza ducale amplia la platea dei destinatari, comunque circoscritta ai membri dell’Accademia e, forse, alla corte, se l’edizione in-ottavo si riferisce davvero alla seconda rappresentazione.

È infatti una sorta di “gruppo chiuso” quello a cui è destinata la stampa e l’identificazione dei destinatari e della stessa fucina da cui l’opera proviene è già evidente nel frontespizio: La favola d’Orfeo rappresentata in musica Il Carnevale dell’Anno MCVII. Nell’Accademia de gl’Invaghiti di Mantova. Sotto i felici auspizij del Sereniss. Sig. Duca benignissimo lor protettore (fig. 2).


                                                            

Fig. 2: frontespizio dell’edizione in-quarto. Firenze, Biblioteca del Conservatorio Luigi Cherubini: CF. 72 (segnatura antica: E. VI. 4375). Autorizzazione della Biblioteca del Conservatorio Cherubini. È vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.


Dei tempi verbali e dei formati editoriali abbiamo già detto107; adesso è opportuno notare la mancanza di parti paratestuali e l’assenza del nome dell’autore del testo, supplito di fatto dal riferimento all’Accademia degli Invaghiti e al duca Vincenzo che di quella era «protettore» e il cui stemma108 campeggia al centro del frontespizio sia nel quarto che nell’ottavo (nei due formati gli stemmi sono distinti solo dagli ornamenti esteriori). Nel 1609 la stampa della partitura monteverdiana, offerta a Francesco, riconoscerà nella dedica stessa che la rappresentazione aveva avuto luogo «sotto gl’auspitij» del principe109: l’opera era accademica e dovuta alla promozione gonzaghesca e questo riassorbe in sé la personalità dell’autore del testo che nemmeno Monteverdi nomina. Il suo ruolo compare apertamente, invece, nel 1612, nella Lettera cronologica dell’Invaghito Eugenio Cagnani, dedicata all’ormai duca Francesco, definito nel frontespizio «protettore» degli Invaghiti, che tesse la storia e le lodi della cultura mantovana e gonzaghesca in specie e che, trattando le «miracolose operationi in ogni tempo» fatte dagli Invaghiti, enumera anche le prove dello Striggio: «[…] avendo lo stesso anco dopoi dato in luce, sotto nome del Ritenuto Academico Invaghito, l’Orfeo favola rapresentativa in leggiadrissimi versi di Toscana favella composti, quale poi fatta in musica dal virtuoso Sig. Claudio Monteverdi, in gran Teatro con nobilissimo apparato fu fatta rapresentare»110. Lo Striggio stesso compare col nome accademico fra gli autori delle successive rime dedicate al Cagnani, ovviamente in sua lode. Il “dare in luce” l’Orfeo sotto il nome del Ritenuto non allude ad una stampa, che in tale forma non ebbe luogo, bensì al parto della «favola» in versi, la quale successivamente («poi») venne musicata da Monteverdi: il testo è quindi opera non della persona anagrafica Alessandro Striggio, quanto del Ritenuto, cioè della personalità accademica che lo Striggio assumeva quando operava all’interno del perimetro culturale Invaghito, secondo modalità accademiche diffuse all’epoca111. Gli Invaghiti, fra cui il duca e il principe, poterono leggere insieme, il 24 febbraio, ciò che uno di loro, comunque a loro noto indipendentemente da quanto recitava il frontespizio del libro, aveva scritto, mentre sul palco si svolgeva lo spettacolo interamente cantato.

L’anno successivo lo Striggio comporrà il balletto del Sacrificio di Ifigenia (musicato da Marco da Gagliano), che sarà rappresentato (5 giugno) durante i festeggiamenti nuziali del principe e che non verrà pubblicato autonomamente, bensì all’interno del noto Compendio delle sontuose feste mantovane del 1608 redatto da Federico Follino:

[…] si ridussero poi nel solito Teatro della Comedia, per veder il gratioso balletto c’haveva fatto preparar il Prencipe di Mantova, intervenendo in esso, oltre la persona del Duca suo padre, e sua, otto Cavalieri della Città e dieci Dame non men principali, che belle, e bene instrutte nell’arte del ballare. Fù l’inventione di questo balletto distesa in versi dal Sig. Alessandro Striggio, Gentiluomo della Camera, e del Consiglio del Duca di Mantova, nella maniera che si dirà112.

Il balletto è commissionato dal principe, ed è quindi “cosa sua”, mentre Il ballo delle Ingrate, andato in scena il giorno precedente, era stato commissionato dal duca al Rinuccini ed era quindi il “suo” balletto, come appare chiaramente da una nota lettera dello Striggio a Francesco, in cui emerge la concorrenza col fiorentino (che finisce per diventare anche concorrenza fra duca e principe), e, soprattutto, per i nostri fini, la rimarcata “proprietà” dei balletti da parte dei Gonzaga113. Si noti che nel Compendio del Follino lo Striggio compare nelle sue vesti di funzionario di corte, proprio perché stavolta servizio di corte (e non d’accademia) era il compito che era stato chiamato a svolgere, cioè scrivere «il grazioso balletto ch’aveva fatto preparar il Prencipe di Mantova». Nemmeno Rinuccini, che pure firma la stampa dell’Arianna, pone il suo nome su quella del Ballo delle Ingrate (musicato da Monteverdi), perché, come recita il frontespizio, era appunto la Mascherata dell’ingrate, Ballo del Sereniss. Sig. Duca, danzato per le nozze de’ serenissimi Principe di Mantova, et Infanta di Savoia114. Il nome del Rinuccini compare invece, al pari di quello di Striggio, nel Compendio del Follino, bene attento a specificare il ruolo del Duca: «Haveva il duca stabilito di rappresentar la sera di quel Mercoledì nel Teatro della Comedia un Balletto di molto bella inventione, opera del Sig.r Ottavio Rinuccini»115.

Queste considerazioni a proposito di un’edizione “certa” come quella dell’Orfeo, prodotta in occasione della rappresentazione, sono importanti per accostarci ad una stampa di uso “incerto”, ovvero quella della Dafne senza note tipografiche e senza licenza di stampa di cui si conoscono soltanto due esemplari116. Si ritiene che questo opuscolo di 24 pagine, senza parti paratestuali, con errori di stampa, segno di un allestimento affrettato, ma comunque un in-quarto di impaginatura ariosa (il testo è disteso su 22 facciate mentre la Dafne del 1600 ne occupa 17), sia da collegarsi alla rappresentazione della Dafne del 21 gennaio 1598 [1599] nella Sala delle Statue a Palazzo Pitti alla presenza della Granduchessa Cristina, alla quale fanno riferimento due quartine encomiastiche nel Prologo intonato da Ovidio117. Il problema è che non esistono in questo caso documenti in grado di certificare il legame con un prima o un dopo rappresentativo.

Il frontespizio è semplicissimo e le sintetiche informazioni che offre lasciano la maggior parte della pagina bianca: Rappresentazione di Dafne favola pastorale composta dal Signor Ottavio Rinuccini et fatta recitare in musica dal Signor Jacopo Corsi. Come è stato osservato, l’assenza della licenza di stampa nella Dafne s.n.t. induce a ritenere la stampa di uso riservato, non ufficiale. Diversamente la Dafne del 1600 reca sul frontespizio lo stemma Medici-Lorena, il nome dello stampatore Marescotti, la data e la licenza di stampa118 e offre sul verso la tavola degli Interlocutori. Da sottolineare anche che è presente la contestualizzazione dell’evento (La Dafne d’Ottavio Rinuccini rappresentata alla Sereniss. Gran Duchessa di Toscana dal Signor Iacopo Corsi119), là dove nella Dafne s.n.t. è assente qualsiasi riferimento di questo tipo e si punta invece sull’aspetto musicale della rappresentazione e sul suo carattere pastorale, elementi che verranno meno nel 1600: ci si inserisce in una precisa corrente sperimentale che aveva visto e continuava a vedere Emilio de’ Cavalieri in campo con le sue tre pastorali in musica120 e si evidenzia soprattutto la novità del “recitar cantando” (fatta recitare in musica), esattamente come sarà nel 1607 per l’Orfeo di Striggio, nuovo per l’ambiente mantovano. In effetti questa Dafne s.n.t. sembra essere in assoluto la prima stampa di un dramma in musica e batte sul tempo il pur prolifico Cavalieri, che non pubblicherà le sue pastorali e che soltanto l’anno successivo introdurrà il sintagma recitar cantando nel frontespizio della Rappresentatione di anima, et di corpo. Nuovamente posta in musica […] per recitar cantando.

Se allo stato attuale non è possibile sapere se il pubblico tenesse in mano il libriccino durante la rappresentazione, ritengo che quanto meno si possa ipotizzare un “libro ricordo” (sul tipo di quello per la Festa del Paradiso) che mirava a celebrare il patronato del Corsi e il sodalizio con il Rinuccini: siamo in effetti in quella fase apicale dell’attività di Jacopo come promotore di eventi musicali che troverà suggello con il “dono di nozze” dell’Euridice a Maria de’ Medici121 e che nella Dafne del 1600 viene celebrata nella canzone del Rinuccini in lode appunto del Corsi (Qual novo, altero canto122) che conclude la stampa: una sorta di dedica implicita da parte del poeta, che non firma i versi, quasi in un colloquio privato col patrocinatore dell’evento. Qui, invece, la canzone non esiste e, anche se la granduchessa, come detto, è presente in due quartine del Prologo, cantato da Ovidio, che, tornato in terra dagli Elisi, ravvisa tra il pubblico Cristina, che illumina «questa notte» in cui il poeta si mostra ai «mortali», i versi troveranno corrispondenza in una dedica esplicita solo, come detto, nell’edizione del 1600.

La Dafne s.n.t., così editorialmente “schiva” e di fatto indecifrabile, potrebbe essere stata una sorta di cauta prova generale per saggiare le reazioni di un pubblico selezionato, una cerchia ristretta di sodali, intendenti e, dato che la rappresentazione è a Pitti, potenti, alla proposta non soltanto dello spettacolo, ma alla sua divulgazione ufficiale a stampa con l’assunzione di responsabilità artistica, ma anche sociale (e ciò vale pure per il patronato del dedicatario), che ciò comportava: è proprio l’uso della stampa che fa la differenza.

Corsi e Rinuccini imboccano una strada che Cavalieri (con la Guidiccioni) al momento non batte (decisione personale in quanto aristocratico? interdetto granducale, dato che il Cavalieri era stipendiato dalla corte, analogo a quello del duca d’Este sulla musica e sul teatro di corte?123), per poi rivendicare la primogenitura nel “recitar cantando” attraverso l’edizione romana della Rappresentatione di anima, et di corpo affidata al Guidotti, quando ormai il dado è tratto. La Dafne, che nasce all’interno di un sodalizio autonomo rispetto alla corte, anche se ad essa legatissimo, proviene da un altro mondo, una sorta di atelier privato. L’Invaghito e principe di Mantova Francesco Gonzaga nel 1607 non si porrà il problema, perché il problema non ci sarà più, ormai risolto da tempo soprattutto per chi come lui assommerà in sé il ruolo accademico e quello principesco, anzi sarà il padre-duca ad intestarsi la “proprietà” dell’operazione al massimo livello.

Ma la storia della Dafne è ancora più antica e recentemente è stata ritrovata e pubblicata la primigenia versione di 212 versi (contro i 445 di quella s.n.t. e del 1600), nata all’interno della sperimentazione musicale avviata da Corsi, Peri e Rinuccini intorno al 1594-1595124. Il libriccino in-quarto di 8 pagine manoscritte che ci tramanda il prezioso reperto e che è conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, rispecchia purtroppo «l’esito di uno spoglio della raccolta epistolare operato, nel corso di un successivo riordinamento, da uno zelante archivista il quale, estrapolandone i testi con valenza letteraria, ha creato una sezione omogenea (nell’odierno inventario intitolata Poesie e Pasquinate), rendendo però di fatto impossibile risalire alle missive originarie cui ciascun singolo pezzo era allegato»125. In tal modo viene a mancare un documento chiave, come quello che invece, sopravvivendo, ci consente di capire il ruolo della princeps dell’Orfeo: nel caso della prima Dafne non possiamo sapere a cosa fosse destinato l’opuscolo, non autografo, ma copia di mano coeva a quella del Rinuccini e dei membri della sua cerchia: un testo destinato a un sodale per farlo partecipe del progetto? un libriccino legato in qualche modo alla messa in scena dell’opera? addirittura da “leggere mentre che si canterà” come poi l’Orfeo? Sono tutte ipotesi senza risposta, che anche Francesca Fantappiè si pone nel corso della nostra corrispondenza privata a proposito di questi anni cruciali per la nascita dell’opera.

In sintesi, e per concludere, molti sono gli esempi di testi d’ausilio in occasione di feste di varia natura e molte sono le indagini ancora da compiere per identificarne ulteriori, mimetizzati come sono all’interno di una messe di testi anodini, per quanto riguarda la loro funzione originaria, e giunti (o nemmeno giunti, come sovente quelli manoscritti) fino a noi come testimonianze memoriali, ma che documenti dirimenti possono illuminare di nuova luce. Ciò che preme notare è che il libretto per musica non nasce adulto come Minerva dalla testa di Giove, ma viene costruito pezzo per pezzo con i materiali e le consuetudini scrittorie e spettacolari che esistevano già, come l’opera in musica stessa, del resto. Gli studiosi fanno iniziare la storia del libretto col 1637, ma i contorni sono più sfumati: il 1637 è senz’altro un catalizzatore con l’apertura dei teatri al pubblico misto e pagante ed avvia la storia interna del genere libretto, a sua volta accidentata e tutt’altro che lineare, però di ausili ce ne erano sempre stati e di diverso tipo e certo non scomparvero di colpo nel 1637. Il cambio della guardia fu lento e la persistenza tenace: come sempre, le radici di una “novità” traggono nutrimento dai materiali già disponibili nelle consuetudini del tempo e da tempo sperimentati e articolati.

Note
  • 1

     Citiamo da Fenlon 1986, p. 170, ripreso in Fenlon 2009, pp. 52-53. In questo studio si è optato per criteri di trascrizione estremamente conservativi: in pratica si distingue u da v e si sciolgono i compendi di nasale. I frontespizi antichi delle fonti letterarie sono trascritti nel testo in forma semplificata e abbreviata senza distinzione di caratteri, rimandando per tutte le particolarità alle copie on line indicate, i link alle quali sono riportati in nota e non compaiono nella Bibliografia finale, dedicata agli studi critici moderni ed estremamente selettiva, limitata ai contributi strettamente funzionali agli obiettivi della presente indagine. Si sottolinea che per le citazioni è stato privilegiato il rimando diretto alle stampe antiche, oltre che alle trascrizioni moderne (ad esempio le molte del Solerti), in modo da consentire al lettore di prendere visione degli originali, importanti sovente anche per le loro stesse materiali peculiarità tipografiche. I link sono stati controllati il 19 maggio 2023. Desidero ringraziare qui Francesca Fantappiè per i nostri proficui colloqui e i suggerimenti, nonché Simone Magherini per aver accolto questo saggio nella rivista.

  • 2

    Per la nascita e lo sviluppo, fino alle forme più recenti, del libretto, si vedano, anche per la bibliografia pregressa, Beghelli 2004, Bianconi 2018, e, specificamente per il Seicento, Fabbri 1990 e Rosand 2013, pp.82-90.

  • 3

    Sul libro di teatro nel Cinquecento e primo Seicento, si veda Riccò 20082.

  • 4

    Per i libretti veneziani del primo decennio dei teatri pubblici, cfr. Infelise 2017.

  • 5

    Sul Rinuccini, cfr.  Fantappiè 2016. 

  • 6

    È il caso della stampa autopromozionale in vista della rappresentazione già programmata della pastorale Il sacrificio di Agostino Beccari a Sassuolo nel 1587 in occasione delle nozze Pio-Farnese
    (https://books.google.it/books/about/Il_sacrificio_favola_pastorale.html?id=S69TAAAAcAAJ).
    Al proposito, cfr. Riccò 20081. Sintetizzando: a Sassuolo nel dicembre 1587 ebbero luogo le celebrazioni per l’arrivo di Clelia Farnese, le cui nozze con Marco Pio di Sassuolo (appartenente a una casata dell’entourage estense) erano state officiate in precedenza a Caprarola (2 agosto). Le feste ebbero una rilevanza spettacolare e politica legata sia ai nuovi legami con i confinanti Farnese, sia ai fasti della casa d’Este; era, infatti, una “risposta” alle nozze medicee dell’anno precedente fra don Cesare d’Este e Virginia de’ Medici, che avevano visto l’inaugurazione del buontalentiano Teatro degli Uffizi. Il matrimonio faceva parte di un’inesausta gara fra i due schieramenti politico-spettacolari ferrarese e fiorentino. La revisione e l’ampliamento della pastorale da parte dell’ormai vecchio Beccari si legavano giusto alle nozze di casa Pio: ma non a quelle di Marco, bensì, preliminarmente, a quelle della sorella Benedetta con Girolamo Sanseverino Sanvitale, marchese di Colorno, tenutesi a Ferrara nell’estate precedente e in occasione delle quali venne riedito Il sacrificio (ad instanza di Alfonso Caraffa, presso Giulio Cesare Cagnacini e fratelli). Il Sacrificio uscì mentre erano ancora in corso i preparativi per la rappresentazione di Ferrara (la dedica è datata 26 luglio) e il Pio aveva in mano solo una “copia di servizio” della pastorale, un esemplare della princeps con le varianti manoscritte. Il Caraffa fornì così una sorta di libretto di sala ante litteram, addirittura correndo avanti allo stesso committente dell’operazione spettacolare e mettendo a stampa quello che al momento era solo un ibrido fra tradizione letteraria, già rivista e sedimentata (la princeps era del 1555), e mobili “carte di scena”.

  • 7

    È notissimo il caso del Pastor fido di Battista Guarini, sulle cui vicende si veda in primo luogo il classico Rossi 1886, pp. 179-238. L’opera venne dedicata ancora manoscritta a Carlo Emanuele I di Savoia, in occasione delle sue nozze, nel 1585. Il Guarini sperava che il Duca la facesse rappresentare, ma poi trascorsero anni senza che fosse messa in scena e Guarini, temendo che venisse stampata surrettiziamente da chi in corte poteva leggerla o da attori che ne prendevano visione, impetrò dal Savoia il permesso di fissarla a stampa nel 1589, mantenendo la dedica. Per altro la tragicommedia attese ancora anni prima di salire in palco. Sull’argomento mi sono intrattenuta diffusamente in Riccò 20082.

  • 8

    In Fenlon 1986, p. 171 e successivamente in Fenlon 2009, p. 58.

  • 9

    Per queste diverse emissioni, cfr. Tonello 2021, che offre anche un censimento dei testimoni noti, a due dei quali si rimanda nelle note seguenti. Ma si veda anche Carter 2010, p. 500 e nota 6.

  • 10

    Mantova Biblioteca comunale Teresiana, collocazione: Arm.17 B.63:
    http://corago.unibo.it/esemplare/0001584603/DRT0017741.

  • 11

    Roma Biblioteca Nazionale Centrale, collocazione: 40. 9. D. 18. 09:
    https://books.google.it/books?vid=IBNR:CR001047745.

  • 12

    Sugli Invaghiti e i loro rapporti con la musica e, in generale, sugli interessi musicali dei Gonzaga, da Vincenzo I a Ferdinando, si vedano il classico Fenlon 1992, pp. 167-221 e, più recentemente, Besutti 2016, pp. 53-71, Tosetti Grandi 2016, Schwindt 2022.

  • 13

    È l’ipotesi di Tonello 2021, p. 136, ma anche Besutti 2016, p. 66 pensa ad un’analoga distinzione fra le due emissioni. Ritengo che debba essere considerata anche l'ipotesi che, dato il brevissimo lasso di tempo intercorso fra le due rappresentazioni, l'ottavo fosse destinato semplicemente ad un uso commerciale posteriore alle rappresentazioni stesse e che solo l'in-quarto avesse avuto la funzione di ausilio per la "prima".

  • 14

    Fenlon 1986, p. 170, poi in Fenlon 2009, p. 60.

  • 15

    Per l’accentuarsi dell’influenza fiorentina a Mantova per iniziativa di Ferdinando, legatissimo ai Medici, cfr. Fenlon 1992, p. 237 sgg. Inoltre Burattelli 1999, pp. 35-36 (a questo studio si rimanda per un panorama delle feste mantovane di questi anni) e Mamone 2003.

  • 16

    Fenlon 1986, p. 170, poi in Fenlon 2009, p. 51. Francesco stava inoltre per compiere ventuno anni, età alla quale i principi Gonzaga sembra che iniziassero a sponsorizzare in proprio gli spettacoli: Carter 2010, pp. 500-1, nota 7,

  • 17

    Si apre qui il problema, che non è oggetto del presente studio, di ciò che fu realmente cantato in palco. È la notissima e dibattuta questione dei due finali diversi, bacchico, nel testo dello Striggio, e apollineo nella partitura di Monteverdi, sui quali, per una sintesi delle varie posizioni, si rimanda a Aresi 2009, pp. 74-87, Fenlon 2009, pp. 58-61 e ultimamente Schwindt 2022, pp. 67-68. Personalmente inclino all’ipotesi di Fenlon, che ritiene che il finale di Monteverdi fosse per la terza rappresentazione in onore della visita di Carlo Emanuele di Savoia, padre della futura nuora, che poi non ebbe luogo. Convincente per la diversità dei finali Fabbri 1985, pp. 103-104, che lega il finale “laico” e aperto di Striggio all’occasione accademica, riservata ad un pubblico culturalmente selezionatissimo, e il finale della partitura, chiuso, e cristianamente pedagogico, ad un pubblico più vasto da edificare.

  • 18

    Solerti 19052, pp. 37-38 e note. Il Solerti nelle note si vale delle lettere pubblicate in Bertolotti 1890, pp. 86-87, il quale pubblica anche alcuni documenti relativi alla prima rappresentazione dell’Orfeo a Mantova, poi ripresi in Fenlon 1986.

  • 19

    Su Ferdinando e le sue attitudini musicali, cfr. Besutti 2002, pp. 414-16 e Besutti 2013.

  • 20

    Solerti 19052, pp. 37-38.

  • 21

    Sullo Striggio e il suo ruolo a corte, nonché sulle sue opere, cfr. Whenham 2019. Sul suo ruolo, col nome di Ritenuto, nell’Accademia degli Invaghiti e su quello del padre, Alessandro senior, cfr. Besutti 2016, pp. 59-60, 64. Per le lettere citate di seguito, cfr. Solerti 19052, pp. 37-38, note.

  • 22

    Le ultime due lettere, del primo e 18 marzo, sono repertoriate in Archivio Herla
    (http://www.capitalespettacolo.it/ita/ric_gen.asp):
    Mantova, Archivio di Stato - Archivio Gonzaga, rispettivamente b. 2162, c. 723 e b. 2162, fasc. III, c. 611.  Ringrazio l’Archivio di Stato di Mantova per avermi inviato la riproduzione digitale dei documenti.

  • 23

    Per i due fratelli e le loro inclinazioni e competenze nell’ambito spettacolare in questi anni, si vedano Burattelli 1999, in particolare pp. 16-17 e pp. 31-32 e note. Inoltre Fenlon 2009. Per gli ambienti accademici frequentati da Francesco e per la “gara” con il mondo culturale toscano, si veda soprattutto Besutti 2016 pp. 62-64 con bibliografia.

  • 24

    È elencata fra le moresche primo seicentesche, insieme all’«abbatimento in armi» dell’anno successivo, sempre con il principe come protagonista, in Galante 1949, p. 50. L’elenco delle moresche cinque-seicentesche è citato e accolto in Ferrari Barassi 2018.

  • 25

    Si veda il Compendio alle pp. 108, 122:
    (https://books.google.it/books/about/Compendio_delle_sontuose_feste_fatte_l_a.html?id=NkizDVOMkrQC).
    Per i tornei del ducato gonzaghesco, oltre al Follino, cfr. Burattelli 1999, pp. 58-63.

  • 26

    Al Castello di Gorgoferusa e al Monte di Feronia, del 1561, in occasione della nomina a cardinale di Luigi d’Este (Solerti 1891, p. xxvii, nota 2), fecero seguito il Tempio d’Amore del 1565, per il matrimonio di Alfonso II e Barbara d’Austria, l’Isola beata, del 1569, per la venuta dell’arciduca Carlo d’Austria, e infine il Mago rilucente, per le nozze di Lucrezia d’Este e Francesco Maria Della Rovere nel 1570.

  • 27

    Si ricorra all’ancor fondamentale Baldassarri 1986 che descrive l’articolazione interna delle descrizioni del Castello di Gorgoferusa e del Monte di Feronia: p. 120, note 29-31. A questo studio si fa riferimento anche per la discussione delle possibili attribuzioni di paternità alle descrizioni dei tornei. All’interno della vasta bibliografia sull’argomento, si veda almeno anche Marcigliano 2003.

  • 29

    Ivi, c. D viir.

  • 31

    BCI: C. X. 3, P. V. 15.

  • 32

    BCI: IV. L. 41, P. IV. 25, R. III. 22, R. VIII. 6.

  • 33

    Ad esempio nel 1579 e nel 1589 i cavalieri senesi parteciparono alle sbarre a Palazzo Pitti in occasione delle nozze di Francesco de’ Medici con Bianca Cappello, prima, e di Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena, poi. Oltre alle descrizioni, ci restano, sciolti, i canti di accompagnamento della schiera senese: Riccò 1993, pp. 127-29 e note. Nel caso delle nozze di Bianca Cappello ho recentemente rinvenuto anche un foglio volante a stampa con canto di accompagnamento dei cavalieri alla sbarra da parte di Mostri marini: BCI: P. IV. 25, n. 2. Per il torneo in occasione della visita granducale del 1619, cfr. Riccò 1993, p.135, nota 235.

  • 34

    Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: Landau-Finaly 192.

  • 35

    BCI: I. XI. 15.

  • 36

    Danesi 2014.

  • 37

    Riccò 1993, pp.  20-23 e note (in particolare nota 32), 86-87.

  • 38

    Ivi, p. 87 e nota 146. La stampa è on line: https://archive.org/details/relationedellagi00marc.
    E si veda la nota successiva.

  • 39

    Riccò 1993, p. 135, nota 235. La miscellanea C. III. 30, in cui sono conservati i cartelli di sfida di questa giostra e di quella del 1602, nonché il Ragguaglio del Marchetti del 1619, è descritta in Danesi 2014, p. 128; tutti i singoli cartelli presenti sono descritti ai nn. 44, 45, 57, 123, 219, 287-92, 295, 348, 356, 372, 378, 379, 388, 403-05, 427, 450, 481, 495, 589, 594, 620, 625, 726-28, 807, 823, 892, 937 (Ragguaglio della venuta delle serenissime altezze di Toscana nella città di Siena, Siena, Salvestro Marchetti, 1619), 949, 964-79, 1007, 1062, 1067, 1080, 1086, 1139, 1205, 1218.

  • 40

    La mascherata è trascritta in Saltini 1895, per la citazione cfr. p. 105. Inoltre Riccò 1993, p. 126, nota 121.

  • 41

    Catoni 1985, pp. 17-53 sulla Serra e le varie manifestazioni carnevalesche organizzate dagli scolari; in particolare quattro esempi sono pubblicati alle pp. 25, 27, 31, 35. Nella biblioteca bulgariniana si vedano: Alle gentilissime donne sanesi, la Ragione accompagnata dagli Affetti, i quali, svegliati dall’antico sonno de’ loro errori, si sono di nuovo sotto il giusto imperio ridotti per la Serra de’ sig. Scolari del 1589 (BCI: VII. E. 1: cfr.  Danesi 2014, n. 46), Le Donne di Tracia seguaci della Serra del 1590 (BCI: IV. L. 41 e VII. E. 1: ivi, n. 419), Apollo in compagnia delle quattro stagioni e del tempo, guidando li sig. Scolari dello Studio di Siena nella lor Mascherata detta la Serra del 1591 (BCI: IV. L. 41: ivi, n. 69); La fatica accompagnata da la vigilanza, sofferenza, assiduità, diligenza e perseveranza, guidando li Scolari dello Studio di Siena nella lor festa carnovalesca, per antico nome detta la Serra, il di 15. Di Febraro 1587 (BCI: VII. E. 1: ivi, n. 469). Ulteriori esempi ivi: nn. 622, 1078.

  • 42

    Si consulti almeno il sito https://www.ilpalio.org/libri5-6-700.htm (Cinque secoli di opere a stampa sulle contrade e il Palio. Il Cinquecento, il Seicento e il Settecento). Restando nell’ambito della tipicità cittadina di certe manifestazioni di piazza, si consideri che a Pisa imperava il Gioco del Ponte e che anche in questo caso venivano distribuiti cartelli, come, ad esempio, nel 1604: Solerti 19052, p. 171.

  • 43

    Ad esempio: Manifesto dell’invenzione e Stanze cantate da Mercurio per il Palio della Contrada dell’Onda in occasione delle nozze Piccolomini-Sergardi (2 settembre 1601) editi da Matteo Florimi, in Riccò 1993, figg. 50-51 (BCI: R. III. 22, nn. 176, 172). Presente anche nel sito indicato nella nota precedente.

  • 44

    Ad esempio, di Fortunio Martini, le Stanze cantate da un fanciullo in compagnia et a nome della Contrada della Lupa festeggiante dinanzi à S.A.S. l’Anno 1590 in Siena (BCI: IV. L. 41, cfr. Danesi 2014, n. 739) (altro esemplare in BCI: R. VIII. 6, n. 20 pubblicato in Riccò 1993, figg. 52-54). Anche on line:
    https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=gri.ark:/13960/t80k2v73j&view=1up&seq=5.

  • 45

    Si rimanda riassuntivamente a Riccò 1993. Ma si tengano presenti almeno Bargagli/D’Incalci Ermini 1982 e Bargagli/Riccò 1989.

  • 46

    Riccò 1993, pp. 129-30 e fig. 47. Per i rapporti fra giochi d’azzardo e l’intrattenimento nobiliare, cfr. Catoni 2015.

  • 47

    Ivi, pp. 171-72.

  • 48

    Per l’analisi della festa e la sua contestualizzazione nella cultura accademica, cfr. Riccò 1993, pp. 24-27. Nell’ambito delle venture: per venture con polizze dette a voce, cfr. p. 63, nota 110; per i “riverci” (rovesci di medaglie) consegnati alle gentildonne, cfr. p. 179; infine per madrigali consegnati alle gentildonne e largamente riutilizzati nelle raccolte di rime dei vari accademici, si veda p. 67 e nota 117.

  • 49

    Per l’immagine della foglia («Stampa lacunosa smarginata e incollata su cartoncino in forma di foglia di fico, acquerellata in verde») e la relativa scheda n. 123, cfr.
    http://badigit.comune.bologna.it/foglinfesta/dettaglio2.asp?lettera=123.
    Si veda anche più avanti la nota 55 sul ventaglio di Callot.

  • 50

    Propriamente il rovescio, o faccia posteriore delle medaglie, recava immagini simboliche alludenti alle qualità della persona effigiata sul dritto, in questo caso privati e non re o divinità. I Riverci, scritti da Scipione Bargagli, sono pubblicati in Riccò 1993, pp. 163-242; il riferimento alla ventura fiorentina è a p. 170.

  • 51

    Burattelli 1999, p. 45. Fabbri 1985, p. 140 ipotizza anche per l’Arianna, ma senza documenti al riguardo, una stampa «distribuita probabilmente alla “prima”»; Fabbri è citato in Tonello 2021, pp. 133, 136-37. Sulla rivalità fra le corti fiorentina e mantovana in occasione delle nozze del 1608, cfr. Mamone 2003.

  • 52

    Cfr. https://books.google.it/books/about/Descrizione_delle_feste_fatte_nelle_real.html?id=vaofOv-m4yMC, p. 62.
    Il libretto in questione è quello di Lorenzo Franceschi stampato anche in coda alla seconda edizione della Descrizione del Rinuccini (Solerti 19052, p. 40, nota 2) insieme agli altri testi delle feste, compresi i cartelli di sfida, p. 89 sgg.:
    https://archive.org/details/dellefestefatten00rinu/page/n7/mode/2up.
    Il volumetto singolo è più completo con l’intera spiegazione dei movimenti della giostra, ecc.:
    https://archive.org/details/balloegiostradev00fran/mode/2up.

  • 53

    La descrizione del complesso spettacolo è di Andrea Salvadori, che compose i testi:
    https://books.google.it/books/about/Guerra_d_Amore.html?id=sC9WAAAAcAAJ&redir_esc=y,
    pp. 8, 42. Gli interventi esplicativi dell’Alba e di Venere sono ricordati anche in Lettera al signor Alberico Cibo principe di Massa sopra il giuoco fatto dal Gran Duca intitolato Guerra d’amore il di 12. di febraio 1615, in Pisa, appresso Giovanni Fontani, 1615[1616], cc. A2v-A3r, D2r:
    https://books.google.it/books/about/Lettera_al_Sig_Alberico_Cibo_principe_di.html?id=yw9aAAAAcAAJ.
    Sul Salvadori si veda Sarà 2017.

  • 54

    Solerti 19052, p. 147. La seicentina è on line:
    https://www.nli.org.il/en/books/NNL_ALEPH990029186360205171/NLI.
    Esemplare con incisione in Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: V. MIS 75. 5.

  • 55

    Per un esemplare della rosta ad acquaforte, ma senza le stanze sul retro:
    https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0300619425.
    Per il disegno:
    https://euploos.uffizi.it/inventario-euploos.php?invn=2661+F.

  • 56

    Per la complessità di questi strumenti funzionali allo spettatore, e testimoni anche degli adattamenti successivi di un testo, si vedano almeno Filippi 1994 e soprattutto Filippi 2001, che cataloga gli argomenti romani a partire dal 1616 fino al 1698. Il primo dramma gesuitico in italiano fu Il gigante di Leone Santi del 1632, sul quale cfr. Santacroce 2015. Per l’esempio concreto del Crispo, repertoriato anche in Filippi 2001 (pp. 113-18, 454-58) e da lei già analizzato in Filippi 1994, pp. 113-15, si veda l’Argomento del Crispo tragedia latina, opera composta dal gesuita Bernardino Stefonio, nella versione del 1628:
    https://archive.org/details/bub_gb_aes_5hWCGAMC/mode/2up.
    Importante la distinzione fra le varie tipologie di scenario in essere all’epoca, da quello dei comici dell’arte, a quello del teatro gesuitico, a quello dell’opera in musica. Gli scenari gesuitici, inoltre, avevano funzione pedagogica e potevano servire a diffondere il messaggio del dramma anche a beneficio di coloro che non erano stati presenti allo spettacolo: per questi aspetti si veda l’Introduzione in Filippi 2001, pp. 11-65 e principalmente le pp. 16-26.

  • 57

    Sarà 2017, p. 794: «Con La regina Sant’Orsola, Salvadori inaugurò un nuovo filone del cosiddetto “recitar cantando”, di soggetto sacro e agiografico. Come dicono l’Argomento e il Prologo anteposti all’edizione del testo, pur sempre nella linea tracciata da Rinuccini e Chiabrera, si puntava ad aprire ‘un nuovo campo, di trattare con più utile e diletto, lasciate le vane favole de’ Gentili, le vere e sacre azzioni Cristiane’ (Firenze 1625, p. 13). Quel filone nacque dalla commistione tra l’opera fiorentina e il teatro gesuitico, di cui l’autore riprese alcuni aspetti drammaturgici, come l’ampio impiego del coro e l’ambientazione in situazioni di assedio, con la rappresentazione simultanea dei campi nemici. Anche la cornice editoriale utilizzata per la divulgazione del testo nel 1624, l’Argomento della Regina Sant’Orsola, presentava una perfetta identità formale con gli scenari distribuiti in occasione degli spettacoli gesuitici, con la sinossi dell’argomento e la sintetica articolazione dello spettacolo per atti e scene. L’allestimento citò inoltre puntualmente un segmento dell’Ignazio in Monserrato, ‘azione tragicomica’ di Vincenzo Guinigi rappresentata al Collegio romano nel 1623».

  • 58

    Per l’Argomento in questione, cfr.
    https://archive.org/details/bub_gb_05c8XqPM2fYC.
    Si noti che dal colophon si apprende che al 4 ottobre risale l’imprimatur dell’Inquisizione fiorentina rilasciato da Piero Niccolini, Vicario, e da Lodovico Corbuzio, Inquisitore Generale, mentre il 5 ottobre fu rilasciato lo «stampisi» da Niccolò dell’Antella, Revisore Granducale, per cui è ipotizzabile che effettivamente l’Argomento sia stato disponibile il giorno successivo per gli spettatori.

  • 59

    Esistono due distinte edizioni del testo:
    https://archive.org/details/lareginasantorso00gagl/page/n15/mode/2up e
    https://www.loc.gov/resource/musschatz.19879.0/?sp=3
    per le quali si veda Il luogo teatrale a Firenze 1975, scheda n. 8.47, pp. 125-26.

  • 60

    Rosand 2013, pp. 82-86.

  • 61

    Per la biografia dell’Obizzi si vedano Badolato 2013 e Volponi 2014, pp. 271-83.

  • 62

    Per la citazione dalle Memorie si vedano le pp. 390-91 in
    https://books.google.it/books/about/Minerva_al_tavolino.html?id=IIFCAAAAcAAJ&redir_esc=y.

  • 63

    Volponi 2014, pp. 20-22 e sgg. sottolinea la coincidenza fra la Guerra d’Amore del Salvadori e la struttura dell’Ermiona e in generale l’influenza degli spettacoli fiorentini sulla formazione dell’Obizzi: pp. 18-23. Si veda inoltre Di Luca 1991, in particolare pp. 265, 269-71.

  • 65

    Riccò 1993, pp. 129-32, figg. 39-51: analogia editoriale tra fogli volanti per veglie private e nozze, da un lato, e mascherate, serre, tornei pubblici dall’altro. In pratica il modello tipografico era lo stesso.

  • 66

    Si veda, a pp. 107-8, https://archive.org/details/cittadiferrarach00arge;
    ma si veda anche p. 260: «[…] non è stato fuor di proposito, che si prenda l’occasione della giunta della Regina Barbara col dire le Gratie, che per sua cagione vengono ad aprire il camino della felicità».

  • 67

    Baldassarri 1986, p. 120, note 27, 29.

  • 68

    Sulla questione della precedenza fra Medici e Este, scoppiata a Lucca nel settembre del 1541,
    si veda diffusamente Favalli 2021.

  • 69

    Per la carriera dello Striggio, cfr. Tibaldi 2019. Ma si ricordi anche Fenlon 1992, pp. 189-91.

  • 70

    Per lo spettacolo si vedano almeno Il luogo teatrale a Firenze 1975, schede nn. 7.6-7.10, pp. 95-98, e Mamone 2016, pp. 20-23; inoltre Lepri 2017, vol. I, pp. 188-223. Per il contesto editoriale e la bibliografia, cfr. Riccò 20082, pp. 199-200.

  • 71

    Sulla figura del Ceccherelli, si veda Bramanti 1992; da aggiungere al carnet del Ceccherelli la promozione editoriale della commedia Il lanzi, di Francesco Mercati, Firenze, Valente Panizzi e Marco Peri, 156, per la quale cfr. nota 75.

  • 73

    Lettera del Cini a don Vincenzio Borghini dell’11 novembre 1565 in Borghini/Lorenzoni 1912, p 37.

  • 74

    Si veda Heikamp 2016, e ultimamente, anche per l’aggiornamento bibliografico, Ciarlo 2023. Salvo errore, la bibliografia non menziona il ruolo progettato dal Cini per Barbino nel Prologo.

  • 75

    Si consideri, ad esempio, che il Granduca aveva una guardia di cento lanzichenecchi (o lanzi) tedeschi, per i quali è attestata anche la funzione di “guide turistiche” e interpreti: Focarile 2019, pp. 92-93. A documento della loro popolarità, si consideri che giusto nel 1566 uscì a Firenze, per i tipi di Valente Panizzi e Marco Peri, la commedia Il Lanzi di Francesco Mercati, in cui si fa esplicito riferimento alla «lingua mezza italiana» di questi soldati (c. 43 v), la quale fa sfoggio di sé in IV, iv. Inoltre in V, vii si spiega che, per le necessità familiari della vicenda, si è fatto ricorso alla Principessa Giovanna (di cui si tessono le lodi) tramite il Capitano dei Lanzi.
    https://books.google.it/books/about/Il_Lanzi_Comedia_etc.html?id=M65dAAAAcAAJ.
    I Lanzi facevano parte a tutti gli effetti del “panorama” cittadino.

  • 76

    Sul Dani si veda Vivoli 1986.

  • 77

    Mamone 2016, p. 22.

  • 78

    Newbigin 1990, pp. 2-5 e Vallieri 2018, pp. 293-96.

  • 80

    Gli intermedi sono modernamente editi in Grazzini/Grazzini 1953, pp. 557-71; per le modalità della stampa originaria si consideri la Nota del curatore alla p. 612, da cui si cita. Si noti che l’opera del Mellini uscì prima delle feste nuziali e fu confezionata su indicazioni precise del Borghini, suscitando, in quanto agli intermedi, il risentimento del Cini, che ne affidò una diversa edizione al Lasca: cfr. Testaverde 2015, parr. 11-19.

  • 81

    Borghini/Lorenzoni 1912, p. 45. Il Conte è presumibilmente «lo illustrissimo signor Conte Giorgio d’Eelfeistam, maestro sovrano della corte insieme col suo figliuolo che andava assai vicino alla Serenissima Prencipessa». Si veda la Descrizione dell’entrata […] stampata la terza volta a c. A v v:
    https://books.google.it/books/about/Descrizione_Dell_Entrata_Della_sereniss.html?id=h35gAAAAcAAJ.
    Si tratta di Georg II, conte di Helfenstein-Wiesensteig, hofmeister imperiale: Stälin 1880.

  • 82

    Per la bibliografia sugli eventi e in particolare per i documenti sulla rappresentazione, cfr. Mari 2005. Ma si veda anche Sampson 2003 per la concorrenza tra le corti mantovana e ferrarese in questa occasione e per la dettagliata descrizione dello spettacolo, destinato ad incrementare, con la sua magnificenza, il ruolo dei Gonzaga nel panorama culturale internazionale, segnatamente per quanto concerneva i rapporti con gli Asburgo.

  • 83

    Mari 2005, p. 382; si segnala un possibile errore di trascrizione nel documento: e se questo ordine che Sua Altezza] e se questo ordine de Sua Altezza.  Sembra che il copista sia stato tale Guglielmo alabardiere del duca: ivi, p. 379, nota 3.

  • 84

    Furono ammessi solo «forastieri» per avere maggiore risonanza internazionale, come poi per l’Arianna: Burattelli 1999, pp. 78-79, nota 124.

  • 85

    Mari 2005, p. 385.

  • 86

    Solerti 1903, pp. 5-6, ma si cita la premessa A’ lettori secondo l’anastatica della partitura:
    https://www.google.it/books/edition/Rappresentatione_di_anima_et_di_corpo/lrs2AQAAMAAJ?gbpv=1.
    Il complesso paratestuale della Rappresentatione è riportato anche in Kirkendale 2001, pp. 259-62, la citazione è a p. 259. Inoltre lo studioso a p. 242 e nota 42 spiega l’usanza dei gentiluomini di non pubblicare in proprio le partiture, sottolineando la «separation of aristocrats from the musical profession». E si veda Schwindt 2022, pp. 85-86 per analoghe distinzioni e difficoltà all’interno dell’Accademia degli Invaghiti di Mantova. Si rimanda allo studio di Kirkendale per l’analisi dettagliata della Rappresentatione e delle vicende editoriali della partitura e del testo letterario, composto da Agostino Manni: pp. 233-98.

  • 89

    Solerti 1903, pp. 82, 79, 83; la seicentina è on line:
    https://books.google.it/books?vid=IBNR:CR000473115.

  • 90

    Durante-Martellotti 1989, pp. 71-81. Per il Dictionary of musicians who visited the concert of Ferrara (1579-1597), cfr. Newcomb 1980, vol. I, pp. 191-211.

  • 91

    Durante-Martellotti 1989, p. 76.

  • 92

    Ivi, pp. 58, 67, 97, 201.

  • 93

    Ivi, p. 64.

  • 94

    Ivi, pp. 73-76.  Per le imitazioni del concerto delle dame, o donne, a Firenze, Roma, Mantova e a Ferrara stessa, cfr. Newcomb 1980, vol. I, pp.90-101.

  • 95

    Fenlon 1992, pp. 170- 80: Vincenzo, legato sia a Ferrara che a Firenze, “importò” il concerto di voci femminili a Mantova e stabilì un fecondo scambio di cantanti con Firenze. E si vedano anche Besutti 2002, pp. 413-14, 427-28 e Gallico 2002, pp. 171-74.

  • 96

    Durante-Martellotti 1989, pp. 90, 153-54, in particolare la citazione è tratta dal Discorso sopra la musica de’ suoi tempi.

  • 97

    Ivi, pp. 80, 187. L’opera del Bardi risale agli anni intorno al 1590.

  • 98

    Ivi, p. 148, ma si veda anche p. 64.

  • 99

    Corago/Fabbri-Pompilio 1983; i curatori attribuiscono l’opera a Pierfrancesco Rinuccini: p. 9. In quanto alla datazione, i curatori propendono per un periodo post 1628 e ante 1637: pp. 8-10. Per la proposta di un’attribuzione a Ferdinando Saracinelli, cfr. Harness 2006, pp. 112-13, nota 6, riportata anche in Fantappiè 20172, p. 572.

  • 100

    Corago/Fabbri-Pompilio 1983, p. 61.

  • 101

    Ivi 1983, p. 80.

  • 102

    Ivi, p. 81.

  • 103

    Il Manfredi pubblicò la lettera nel 1606 nelle sue Lettere brevissime, pp. 268-69: 
    https://books.google.it/books/about/Lettere_brevissime.html?id=r35CAAAAcAAJ&redir_esc=y.
    La lettera è segnalata, con alcune sviste, in Schwindt 2022, pp. 91-92 e nota 47.

  • 104

    Ingegneri/Doglio 1989, p. 33.

  • 105

    Devo a Francesca Fantappiè la segnalazione del «libretto» in Newbigin 2021, vol. II, pp. 878-79. La Newbigin tratta del Bellincioni e della festa nel vol. I, pp. 538-42. La trascrizione integrale della descrizione della festa, dovuta all’ambasciatore ferrarese Giacomo Trotti, fu pubblicata in Solmi 1904.

  • 106

    Corago/Fabbri, Pompilio 1983, p. 81.

  • 107

    Cfr. pp. 2-4

  • 108

    Per lo stemma utilizzato da Osanna, cfr.
    https://edit16.iccu.sbn.it/resultset-marche/-/marche/detail/CNCM000328.      

  • 109

    La partitura è on line:
    https://www.google.it/books/edition/Tutte_le_opere_di_Claudio_Monteverdi_L_O/Bjf1AAAAMAAJ?hl=it&gbpv=1&dq=monteverdi+orfeo&printsec=frontcover.
    Per i rapporti fra Vincenzo e Francesco e l’edizione del testo dell’Orfeo, cfr. Schwindt 2022, p. 218 sgg. Si noti anche che nell’estate del 1607 Monteverdi, a Milano, mostrò l’opera al suo amico Francesco Cherubino, il quale scrisse al duca Vincenzo che il musicista gli aveva «fatto vedere i versi et sentir la musica della comedia che V.A. fece fare», attribuendo di fatto al duca la paternità dell’impresa: cfr. Fenlon 1986, p. 172, poi in Fenlon 2009, p. 57.

  • 110

    Cagnani 1612, p. 9: https://www.digitale-sammlungen.de/en/view/bsb10686515?page=11. Il passo è citato in Fabbri 1985, pp. 96-97 come attestazione dell’autorialità dello Striggio. Sui rapporti fra il Cagnani e gli Invaghiti, cfr. Tosetti Grandi 2016, pp. 190-91; ma si consulti diffusamente l’intero volume per le notizie del Cagnani sull’attività culturale mantovana. La Lettera è modernamente pubblicata in Mantova. Le Lettere 1962, pp.  612–23; sul Cagnani le pp. 451-60. Sugli Invaghiti e i loro rapporti con la composizione dell’Orfeo, si veda ultimamente il già citato  Schwindt 2022.

  • 111

    Sugli usi editoriali accademici senesi, si veda Riccò 2002.

  • 113

    Lettera in Burattelli 1999, pp. 63-64, ma si vedano anche Carter 1999 e Carter 2002, pp. 138-159 e soprattutto Nocilli 2018, che analizza dettagliatamente la storia dei due balletti.

  • 116

    Uno è quello della New York Public Library (https://digitalcollections.nypl.org/items/9635f75d-ff6e-6929-e040-e00a18061b4b), l’altro, che ho personalmente consultato, è posseduto dalla fiorentina Biblioteca Berenson: Special Collections ML50.2.D34 R56 1598 S (ringrazio per la cortese accoglienza il Dottor Attilio Bottegal). Su questa edizione cfr. Sternfeld 1978 e Carter-Fantappiè 2021, p. 38: «A libretto had already been printed, probably in relation to the Carnival 1598/99 performance (the revised prologue refers to the grand duchess, who was present), but with a poorly typeset title page and some errors in the text (and, it seems, without the licenza from the religious authorities that would normally be required for anything made “public”)». Nella medesima pagina nota 92: «The font of this edition appears in other prints by both the Giunti press (such as Vincenzo Panciatichi’s L’amicizia costante of 1600) and the Marescotti one (Giovanni Agnolo Lottini’s Il dannoso piacere of 1602). The woodblock capital “D” matches the one used in one of Marescotti’s two editions of Il rapimento di Cefalo (1600), but this is not strong enough evidence to identify Marescotti as the printer of the first Dafne edition with any certainty».

  • 117

    Ivi, pp. 3-4: «Thus although the first “opera,” Dafne - to verse by Ottavio Rinuccini and music by Jacopo Corsi and Jacopo Peri - was performed at Corsi’s residence in Florence in the presence of Don Giovanni de’ Medici in early 1598, it was repeated in the Palazzo Pitti before the grand duchess and Cardinals Francesco Maria del Monte and Alessandro Damasceni Peretti di Montalto on 21 January 1598/99. That performance followed a revival of Cavalieri’s Il giuoco della cieca on 5 January (or, more likely, on the 4th)».

  • 118

    Sul pagamento al Marescotti da parte dei Medici per «libri stampati», forse anche la Dafne, nel giugno del 1600, cfr. Carter-Goldthwaite 2013, p. 111, nota 166. Per lo stemma, cfr.
    https://www.catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0900293407.
    Si rimanda a Carter-Fantappiè 2021, pp. 39-54 per la discussione sulla recita della Dafne, o un’anteprima di Euridice, nella primavera del 1600.

  • 120

    Sulle tre pastorali del Cavalieri e per la bibliografia pregressa (soprattutto Kirkendale 2001), cfr.  Riccò 2015; in particolare alle pp. 136-39 i rapporti con la Dafne.

  • 121

    Carter 2000, pp.  57-104.

  • 122

      Chiarelli 1990, p. 157. Nella stampa del 1600 è presente un errore tipografico, in quanto i versi sono attribuiti al Corsi: Del s. Iacopo Corsi. In realtà, come è evidente dal testo, bisogna leggere Al s. Iacopo Corsi. La correzione è stata eseguita a mano in molti degli esemplari consultati.

  • 123

    Sul “teatro riservato” degli Este, in relazione alla mancata stampa di quello di commissione ducale, cfr. Riccò 2005, in particolare pp. 5-10. Sulla musica si ricordino le pp. 16-17. In quanto all’aristocratico Cavalieri, si ricordi la nota 86.

  • 124

    Fantappiè 20171.

  • 125

    Ivi, p. 191.

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Informazioni
Cita come: Laura Riccò, Prima del libretto per musica in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 3 (2023), pp. 189-223. 10.35948/DILEF/2024.4325