Abstract
Il contributo ricostruisce la figura di Mario Martelli uomo, studioso e docente, soffermandosi sui tratti salienti del suo più che trentennale magistero presso l’ateneo fiorentino, caratterizzato dalla sistematica sinergia di filologia, critica e storia della letteratura.
This article reconstructs the figure of Mario Martelli as a man, scholar and teacher, focusing on the salient features of his more than thirty-year tenure at the University of Florence, characterized by the systematic synergy of philology, criticism and literary history.
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Keywords
Mi si perdonerà se, dovendo rievocare l’insegnamento ultratrentennale del mio maestro presso l’Università di Firenze (1969-2000), comincerò con un ricordo personale; d’altronde, i miei rapporti con lui furono per lungo tempo tanto stretti e profondi che mi sarebbe impossibile limitare il discorso all’àmbito professionale e scientifico. Il mio incontro con Mario Martelli fu del tutto casuale; potrei dire anzi che feci di tutto perché non avvenisse. Quando mi iscrissi alla Facoltà fiorentina di Lettere e Filosofia nel 1979 perché folgorato dalle lezioni pomeridiane di letteratura italiana che un giovanissimo Marino Biondi aveva tenuto l’anno prima al mio liceo (il «Dante»), ero mosso da due interessi principali: la storia della musica (disciplina in cui intendevo laurearmi, sotto la guida di Mario Fabbri) e la letteratura italiana del Novecento, che volevo studiare con Giorgio Luti, seguendo il suggerimento dello stesso Biondi. Così, una bella mattina di settembre mi recai in Piazza Brunelleschi con un amico per presentarmi, come allora usava, al banchino degli assistenti di Luti, che raccoglievano le iscrizioni ai corsi del primo anno.
Accadde però che quel giorno il mio amico si svegliò tardi, e che pertanto, quando arrivammo in Facoltà, le iscrizioni al corso di Luti – sempre frequentatissimo – fossero già state chiuse. Maledicendo l’amico, valutai le alternative e, sempre avendo in mente i consigli di Biondi, optai per il corso di Martelli, che sapevo non molto affollato, anche se per i suoi argomenti abituali (la letteratura umanistica e rinascimentale, e in particolare il Quattrocento fiorentino) non avevo speciale interesse. Mi ripromettevo però, dopo il primo anno, di chiedere a Luti di poter passare con lui; e del resto il mio progetto primario, come ho detto, era quello di laurearmi in storia della musica. A quell’epoca i corsi di letteratura italiana per le matricole erano tenuti dagli assistenti ordinari: nel caso di Martelli, dunque, da Paolo Orvieto, del quale frequentai con grande profitto e soddisfazione un corso sul romanzo italiano tra fine Ottocento e Novecento, scrivendo una tesina su alcuni romanzi di D’Annunzio. Sostenuto l’esame, andai da Luti per chiedergli il passaggio, ma la risposta fu negativa, a causa del numero enorme (così mi disse) dei suoi studenti e laureandi. Restai dunque con Martelli (che peraltro non avevo ancora avuto modo di conoscere), anche perché nel frattempo ero venuto a sapere che l’anno successivo avrebbe tenuto un corso su Beppe Fenoglio: diversamente dunque da quanto mi aspettassi, avrei potuto comunque studiare il Novecento; inoltre, dopo il primo esame con Fabbri, avevo già cominciato a parlare con lui della tesi in storia della musica, e la letteratura continuava a restare per me un’opzione secondaria.
Poi il destino, come spesso càpita, decise per me. Il corso di Martelli fu una rivelazione, per il metodo di studio, il modo di far lezione, la passione che trasmetteva, la simpatia dell’uomo, col quale mi trovai subito in sintonia (così come, e non meno, con la sua giovanissima ‘assistente’, la neo-ricercatrice Rossella Bessi, che mi piace ricordare qui). Durante quell’anno venni poi a sapere dell’aggravarsi della malattia di Mario Fabbri, il quale di lì a poco mi comunicò che per questo motivo era costretto a lasciare l’insegnamento (sarebbe prematuramente scomparso nel 1983); tramontava pertanto la possibilità di una mia laurea in storia della musica, perché i miei precisi interessi – la musica italiana per tastiera del XVIII secolo, campo in cui Fabbri era allora uno dei massimi specialisti – erano assai lontani da quelli della docente che avrebbe preso il suo posto, Fiamma Nicolodi. Ecco come divenni dunque, da aspirante musicologo, aspirante letterato; e da aspirante allievo di Luti, allievo di Martelli. Ero comunque soddisfatto che – per quella che si chiama eterogenesi dei fini – mi fosse data la possibilità di coltivare la mia passione per la letteratura contemporanea: la riscoperta del Novecento da parte di Martelli, infatti, lo portò, dopo il corso su Fenoglio del 1980-1981, a tenere un corso su Montale l’anno successivo (1981-1982).
E il Rinascimento? Il Rinascimento c’era, inevitabilmente, perché la didattica di Martelli – come, allora, quella di altri docenti fiorentini di letteratura italiana, da Lanfranco Caretti a Domenico De Robertis – si muoveva in parallelo su più fronti. Martelli teneva, accanto al corso principale, un corso per laureandi, su un argomento ‘speculare’ rispetto al corso generale: se quest’ultimo verteva sul Novecento, il corso laureandi trattava un tema umanistico, e viceversa. Già in quegli anni ebbi dunque l’occasione – visto che ai corsi per laureandi partecipavano tutti gli studenti interessati a chiedergli la tesi, oltre a quanti già vi lavoravano – di seguire lezioni su testi e autori fiorentini del Quattrocento, volgari e latini; inoltre, nello stesso torno di tempo Martelli tenne per un anno in qualità di supplente il corso di Filologia medievale e umanistica di Alessandro Perosa, e mi chiese di frequentare anche quello, benché con Perosa avessi già sostenuto un esame in precedenza. Quando poi, alla fine del secondo anno, cominciammo a parlare della mia tesi, Martelli mi disse che era sua intenzione farmi lavorare su Machiavelli (autore cui dedicò il corso del 1982-1983), e quindi il mio piano di studi venne ri-orientato in direzione filologica e medievale-umanistica, con l’immissione di esami quali Filologia romanza (biennalizzata, con D’Arco Silvio Avalle), Filologia dantesca e Letteratura latina medievale (mentre già avevo seguito il corso di Filologia italiana di Rosanna Bettarini, insieme a Roberta Manetti e a Pär Larson). E la tesi sui Discorsi di Machiavelli, assegnata nel 1983, approdò felicemente alla discussione nel novembre 1984, mentre frequentavo, da uditore, le sue lezioni sui Canti di Castelvecchio.
La rievocazione non è meramente aneddotica e fine a sé stessa. Intanto, ci proietta in un passato – non però così remoto – in cui il cosiddetto ‘italianista’ (ma allora lo si definiva piuttosto ‘storico della letteratura’) era un umanista a tutto tondo, dotato di competenze molteplici, che spaziavano dalla storia letteraria alla filologia, dalla metrica alla storia della lingua, dalla paleografia alla letteratura latina classica e umanistica. Ricordo bene come Martelli fosse solito ironizzare sul nascente specialismo che stava determinando la parcellizzazione sempre più accentuata delle competenze e degli insegnamenti universitari: «Ma se a un professore e a uno studioso di letteratura italiana – diceva – vengono sottratte la filologia, la storia della lingua, la metrica, la letteratura umanistica, che cosa gli resta? cosa studia? e cosa insegna?». Parole che celavano non tanto il timore di un ritorno all’estetismo crociano, quanto la paura che l’italianistica abdicasse alle competenze tecniche per lui indispensabili e si consegnasse mani e piedi alle mode critiche del momento (strutturalismo, psicanalisi, critica marxista) o alla critica tematica, e che gli italianisti riducessero sempre più il raggio dei propri interessi e il campo dei propri studi (quanto si rammaricava di non poter insegnare Dante, per non fare ‘concorrenza’ alla cattedra di Filologia dantesca coperta dal suo amico Francesco Mazzoni!).
Sta di fatto che, in quell’università, Martelli poteva tenere contemporaneamente un corso su Montale e, per supplenza, un corso di Filologia umanistica sulla poesia latina di Naldo Naldi; Domenico De Robertis, studioso di Dante e di Pulci come di Manzoni, Leopardi e Ungaretti, assegnava a Giovanni Parenti una tesi filologica sul Parthenopeus di Pontano; dalle scuole dei migliori maestri non uscivano micro-specialisti in erba, ma, spesso, giovani avvezzi a praticare aree diverse e molteplici della nostra letteratura; e all’interno di un dottorato di ricerca in Italianistica quale era quello di Firenze si poteva proporre e condurre in porto – come accadde a me tra 1990 e 1993 – un progetto di tesi che consisteva nell’edizione degli Epigrammata di Ugolino Verino, avendo quali supervisori Martelli e Perosa.
Certamente, Martelli era in primis uno specialista dell’Umanesimo e del Rinascimento (latino e volgare) e soprattutto del Quattrocento, ma ha lavorato anche su quasi tutti gli altri secoli della nostra letteratura (con predilezione, in particolare, per autori come Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Carducci, Pascoli, Montale) e ha tenuto corsi sugli argomenti più diversi; forte interesse nutriva soprattutto per la letteratura contemporanea, per quel Novecento attraversato biograficamente e dolorosamente vissuto, occuparsi del quale era allora sentito come una necessità, un dovere anche civile, per meglio comprendere il proprio tempo e sé stessi. Sui due fronti, antico (da Dante al Cinquecento) e moderno, Martelli ha sempre lavorato in parallelo, nella didattica e nella ricerca: l’ultimo suo lavoro fu proprio un libro pascoliano (Pascoli 1903-1904: tra rima e sciolto), uscito postumo nel 2010 grazie alle premure di Gino Tellini, che lo accolse nella collana della SEF «Biblioteca di letteratura», da lui diretta; e tra gli ultimi corsi che tenne prima del pensionamento ricordo quello, memorabile, sulle Odi barbare.
Il fatto è che per Martelli il modo di studiare la letteratura rimaneva sempre il medesimo, a prescindere dalle epoche e dagli autori, e identico il suo approccio filologico-erudito, fondato sulla strenua attenzione a ogni aspetto della testualità. Capire i testi significava per lui innanzitutto ricostruirne la genesi e la storia, fissare cronologie di composizione e di rielaborazione, indagarne la tradizione, individuare e analizzare le varianti, comprenderne la struttura interna, studiare la lingua, la metrica, la retorica, i modelli e le fonti, approfondire la biografia degli autori, affrontare le questioni attributive. Ciò spiega anche, almeno in parte, il maturare di certi suoi interessi per il Novecento tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, e le conseguenti scelte didattiche, piuttosto sorprendenti in uno studioso fino ad allora mai uscito dal perimetro dell’Umanesimo e del Rinascimento: infatti, per quei due corsi cui ho accennato poc’anzi, e che io ebbi la ventura di seguire, Martelli si orientò su Fenoglio e Montale perché proprio allora ne erano state pubblicate le rispettive edizioni critiche1, imponenti lavori di filologia che mettevano per la prima volta a disposizione degli studiosi una mole ingente di materiali utilissimi per ‘fare storia’ di quei testi e di quegli autori, ricostruire i processi redazionali delle loro opere, entrare nella loro officina, vedere come lavoravano, e dunque meglio comprendere la loro poetica e meglio conoscere le loro letture e la loro cultura.
Che, sotto questo aspetto, il suo metodo di studio fosse in sostanza il medesimo per i testi antichi e per quelli moderni e contemporanei, Martelli stesso lo dichiarò apertamente nel settimo capitolo del volumetto montaliano del 1991 Le glosse dello scoliasta, spiegando anche le ragioni del suo tardivo accostamento alla letteratura del Novecento:
per quanto neppure allora (nella seconda metà degli anni settanta) fossi pigro lettore di contemporanei (e di Montale, in particolare), né su Montale, tuttavia, né su altri contemporanei avevo avuto occasione di scrivere una sola parola. Né saprei dire perché: forse, per quel po’ d’imbarazzo da cui mi sentivo assalire dovendo trattare di (e con) autori viventi; o forse perché, abituato alla lunga milizia di un approccio sostanzialmente filologico ed erudito alle opere letterarie (collazioni di codici, ricerche d’archivio, problemi d’autenticità e così via), non avevo saputo decidermi a scendere in campo là dove – o così mi sembrava – a dirimere le questioni era, sovrano, il giudizio di valore. Fu verso la metà degli anni settanta che, temendo non la malattia (se «malattia» può dirsi l’erudizione) assumesse un decorso irreversibile, decisi di rompere l’assedio e di fare una sortita nell’aria, ai miei occhi tempestosa ma libera, della letteratura contemporanea. E pensai, come tutto mi lasciava presagire, ad Eugenio Montale.2
Tale ‘svolta’ trovò dunque la sua prima espressione nel libro Il rovescio della poesia. Interpretazione montaliane (Milano, Longanesi, 1977):
Il libro che ne uscì (Il rovescio della poesia. Interpretazioni montaliane) fu, proprio per l’habitus del suo autore, assai diverso da tutti i contributi che altri, fino ad allora, avevano pubblicato sull’autore delle Occasioni. Era un po’ come se gl’insegnamenti dell’idealismo crociano fossero stati capovolti: se Croce aveva voluto applicare agli autori del passato i metodi della critica militante, io invece ero andato studiando un contemporaneo facendo leva sulle risorse della ricerca erudita. La mia attenzione, infatti, si era concentrata, in primo luogo, sulla spiegazione letterale di quella poesia che almeno i non addetti ai lavori avevano da sempre ritenuto ermeticamente sigillata e pressoché impenetrabile. Ma, poiché sapevo bene che un tale obiettivo mai avrei potuto perseguire senza procedere alla ricostruzione della cultura ed alla identificazione degli interessi montaliani, avevo dedicato una gran parte di quel mio libro – o, per essere esatti, la sua stessa sostanza – ad una caparbia indagine intorno alle ‘letture’ del poeta e, conseguentemente, ad una accurata elencazione dei prestiti da lui contratti con la produzione letteraria, italiana e straniera, del nostro e del tempo passato.3
Filologia, storia (con particolare riguardo per la biografia dell’autore e per i rapporti tra politica e letteratura: così nel suo saggio fondamentale su La politica culturale dell’ultimo Lorenzo, del 1980, una sorta di piccola monografia dedicata alla svolta impressa dal Magnifico alla cultura fiorentina sul finire degli anni ’80 e nei primissimi anni ’90 del XV secolo; e in larghe parti del volume Angelo Poliziano. Storia e metastoria, del 1995)4, erudizione, ricerca delle fonti da un lato; dall’altro, attenzione estrema al dato linguistico e a quello formale (retorico e metrico, cioè): questi i capisaldi del modo in cui Martelli studiava e insegnava la letteratura. Mi è capitato, prima, di usare la parola ‘metodo’: ma era una parola che Martelli non amava, tanto che sull’argomento era solito ripetere uno dei suoi fulminanti aforismi: «Gli studiosi si dividono in due categorie, quelli che studiano davvero e quelli che applicano un metodo»5. In questo agiva anche la sua formazione, irregolare come tanti altri aspetti della sua vita e della sua personalità (basti dire che diventò ordinario solo alle soglie dei sessant’anni, e che sempre rimase estraneo, per scelta personale ma anche per diffidenza di molti colleghi nei suoi confronti, al meccanismo dei concorsi universitari): formalmente allievo di Attilio Momigliano a Firenze, riconosceva i suoi veri maestri in studiosi tra loro assai diversi quali Vittore Branca (incontrato e frequentato a Firenze dopo la guerra, quando era assistente di Momigliano), Luigi Russo e Roberto Ridolfi (con i quali ebbe stretti rapporti personali e di collaborazione al di fuori dell’Università).
Si potrebbe parlare, per Martelli, di filologia ‘integrale’, in senso lato, dispiegata quale antidoto non solo a una critica da lui spesso vista come il dominio dell’arbitrio interpretativo e dell’asserzione non documentata e non documentabile, ma anche a una filologia puramente meccanica e formale, paga di procedure astratte ancor più astrattamente applicate, di metodologie ritenute buone per tutti i testi e tutti gli autori. Una critica e una filologia, insomma, poco o punto attente a ciò che invece a Martelli più premeva: capire i testi, parola per parola, senza nulla lasciare a zone d’ombra o ad ambiguità che non fossero spiegabili o come accidenti della tradizione testuale, o come imperfezioni espressive e formali degli autori, o come carenze degli interpreti moderni6. In un suo efficace profilo di Martelli, Paolo Orvieto ha parlato a questo proposito di «fede solo nei documenti e nient’affatto nelle autorità», di «bisogno ossessivo di una realtà tutta rischiarata, in cui vi siano solo certezze e non altalenanti ipotesi, in cui siano illuminati tutti i buchi neri, veri e propri incubi in uno studioso (e in un uomo) che viveva nella convinzione (o solo speranza) che la “chiusura geometrizzante” della critica possa alla fine dare la confortante coerenza alla “caduca realtà” dell’opinabile»7.
Fede positiva nell’erudizione significava per lui innanzitutto attenzione ai documenti e ai testi, per cercare di illuminarne ogni aspetto e di non lasciare ingiustificata alcune affermazione; e significava, sempre, partire dal testo e al testo ritornare, anche quando l’intento era quello di tracciare un profilo complessivo di un autore e della sua opera: il già menzionato libro Il rovescio della poesia è costituito, a rigor di termini, dal commento a una sola poesia montaliana, Botta e risposta I, che funge da filo conduttore e da guida per «illuminare il significato e i modi di tutta la produzione del nostro maggior poeta vivente»8; nella sua prima monografia, gli Studi laurenziani del 19659, quattro dei cinque capitoli di cui consta il volume si prefiggono di «stabilire la datazione di alcune fra le più importanti opere di Lorenzo» o, per dir meglio, di «delimitare certi periodi dell’operosità letteraria laurenziana», e l’ultimo è occupato da nuove notizie biografiche sul Magnifico tratte da lettere inedite.
Ciò valeva nell’insegnamento non meno che nella ricerca. Le sue lezioni – tutte minuziosamente preparate, con l’acribia di chi considerava la didattica il primo dovere e il massimo piacere del docente – erano, alla maniera dei professori delle università medievali e umanistiche (quando leggere era appunto sinonimo di ‘insegnare’), letture di testi, con l’obiettivo di chiarirli quanto più possibile fin nei minimi dettagli, ricorrendo a tutti gli strumenti dello storico della letteratura, per non cadere nel soggettivismo interpretativo e nei luoghi comuni della storiografia e della critica. Accanite furono le battaglie di Martelli contro quella che definiva «la violenza delle convinzioni acquisite»10: molti dei suoi studi e molte delle sue lezioni erano dedicate proprio alla verifica puntigliosa e alla spietata messa in discussione – sulla base dei documenti e di una più accurata lettura dei testi – della effettiva attendibilità di quello che ‘si sa’, che ‘si dice’ e che è passato in giudicato, siano pure le tesi di un grande critico.
Da qui le polemiche e il sarcasmo contro i critici e i commentatori che spiegano ciò che di spiegazioni non ha bisogno, e viceversa sorvolano su ciò che necessita di glossa ma che, per essere chiarito, richiederebbe acuminate competenze tecniche, molte letture e lunghi studi, pazienti ricerche in archivi e biblioteche; da qui l’intento di non eludere mai i problemi, di non accontentarsi di spiegazioni sfuocate, parziali o ripetitive, e al contrario la ferma volontà e anche il gusto di affrontare di petto, senza pregiudizi e ripartendo da capo, con certosina acribia, questioni filologiche e storiografiche complesse, di rimettere le mani in problemi difficili, in guazzabugli che altri studiosi evitavano accuratamente. Ricordo, su due libri della sua biblioteca, due dediche di illustri colleghi ed amici: «A Mario bastian contrario» (Rosanna Bettarini); «A Mario Martelli, che sbroglia matasse inestricabili (per gli altri)» (Lanfranco Caretti).
È impossibile in queste pagine soffermarsi anche solo brevemente sulla sua vastissima bibliografia, che accoglie contributi molto diversi per argomento e àmbito cronologico, oltre che per taglio, respiro e impianto. Mi limito a citare tre lavori particolarmente significativi e, direi, emblematici. Il primo è la monografia Letteratura fiorentina del Quattrocento. Il filtro degli anni Sessanta (Firenze, Le Lettere, 1996), un volume non diviso in capitoli e pressoché privo di note, che sviluppa senza soluzione di continuità i molteplici fili di un’argomentazione in cui confluiscono e si alternano storia, filologia, biografia, analisi testuale: fili che, scrive Martelli nella premessa, si dipanano quasi da soli, mentre lo studioso si lascia guidare dalla materia e dai nessi fra gli autori, i testi, le situazioni, col libro che sembra dunque ‘farsi’ pagina dopo pagina, attraverso il metodo della digressione sistematica e dei collegamenti a catena, creando in chi legge un vero e proprio effetto di ‘labirinto’ (come egli era solito definire la letteratura). Un labirinto e un continuum ai quali Martelli affida il compito di restituire almeno una parvenza del mondo della vita e della cultura (inteso come insieme di rapporti, solo dai quali le figure, i testi e le idee ricevono luce e significato), nel tentativo di riprodurre – abolendo ogni artificiosa distinzione scolastica – i reali contorni e direi anche il ‘sapore’ di un’epoca e di una civiltà. È la summa dei suoi pluridecennali studi sul Quattrocento fiorentino, e anche il libro che più si avvicina al suo modo di insegnare: leggendolo, sembra di ascoltare le sue lezioni, ricche, soprattutto negli ultimi anni, di digressioni e di sentieri talora interrotti (espressione di Martin Heidegger – Holzwege – che Martelli amava spesso ripetere), perché spesso nella migliore ricerca storica il percorso vale più della mèta, o meglio, non poche volte, diventa esso stesso mèta e obiettivo dell’indagine.
Il secondo titolo sul quale mi soffermo è il lungo, già ricordato saggio I dettagli della filologia (2001)11, in cui emerge con forza la capacità martelliana di far leva su minimi particolari ‘fattuali’ (il ristabilimento di una cronologia, la diversa lettura di una parola in un codice, la presenza di una certa forma linguistica in un testo, la scoperta di una nuova fonte, l’accertamento di una notizia biografica) per edificare su di essi nuove e più solide ricostruzioni, al tempo stesso smontando pezzo per pezzo – con la sua brillante e spesso spassosa vis polemica: la pars destruens, non per nulla, è spesso la migliore dei suoi lavori – le interpretazioni correnti e, in particolare, le ‘mitologie’ così spesso circolanti anche fra gli studiosi in merito ad alcuni autori (nel caso specifico, Niccolò Machiavelli) e ai loro scritti. Un saggio che a mio parere dovrebbe essere diffuso tra gli studenti «quasi un catechismo» (come diceva Giorgio Pasquali a proposito delle regole filologiche di Johann Griesbach)12, per iniettare nei giovani un salutare antidoto contro ogni dogmatismo metodologico, culturale e ideologico, non solo nel campo degli studi storico-filologici.
E infine, non si può passare sotto silenzio lo Zapping di varia letteratura. Verifica filologica, definizione critica, teoria estetica (2007), il libro che forse più e meglio di ogni altro rispecchia il Martelli studioso e uomo, oltre che la sua idea della letteratura e dello studio della letteratura. Uscito nel 2007, pochi mesi prima della morte (avvenuta il 13 luglio di quello stesso anno) presso un piccolo editore pratese, è una sorta di poderoso ‘zibaldone’ che raccoglie 263 schede (per lo più brevi, talora brevissime) contenenti osservazioni di vario genere – in prevalenza filologico-erudite, ma non di rado anche critiche ed estetiche, come dichiara il sottotitolo – su una larghissima messe di testi e di autori, da Omero a Lalla Romano, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e l’età moderna, senza tralasciare le letterature straniere, e neppure, occasionalmente, la filosofia, la musica e la pittura, qualora da simili discipline possa venire un ausilio alla retta comprensione di un verso o di un passo; un libro ‘umorale’, tutto salti e sbalzi, nel quale – fra la scoperta di una nuova fonte, la proposta di un restauro testuale, la rettifica di una datazione o di un’interpretazione puntuale – Martelli, dall’alto dei suoi ottant’anni, che gli permettono finalmente di guardare il mare in tempesta dalla riva, fa posto anche ad acuminate, brillanti e talora irriverenti sortite polemiche contro le sue abituali teste di turco, dall’estetica di Croce e dei crociani allo strutturalismo, dalla psicanalisi a Barthes, da Lacan al metodo neo-lachmanniano e ai suoi odierni cultori. Recensendolo sul «Corriere della Sera» del 10 giugno 2007, Luciano Canfora ne sottolineò «il pregio del disordine», sotto il quale gli sembrava tuttavia chiaramente visibile una stella polare: «la visione del classicismo come costante della letteratura italiana, piuttosto che come momento storico circoscritto», e, di conseguenza, il ruolo centrale assegnato alla ricerca delle fonti antiche; cosicché, osservava Canfora, spesso le sue schede fanno «progredire l’interpretazione proprio attraverso il riconoscimento della fonte classica che sta dietro un verso e una frase», magari anche nota o notissima. E portava l’esempio del v. 201 della Ginestra di Leopardi («non so se il riso o la pietà prevale»), brillantemente ricondotto da Martelli al diffusissimo topos – ben noto ovviamente al Recanatese, ma non altrettanto, si direbbe, ai suoi commentatori antichi e moderni – del riso di Democrito e del pianto di Eraclito, le due opposte ma equivalenti reazioni dei due filosofi greci di fronte allo spettacolo della stoltezza e della miseria umana.
Di nuovo, sfogliando questo monumentale volume (una sorta di libro-testamento, con le sue oltre settecento pagine; e fa specie – ma anche molto dice sull’uomo Martelli – che sia passato quasi inosservato, mentre se fosse stato scritto da un critico ben ‘introdotto’ nelle alte sfere accademiche e politiche avrebbe avuto certamente l’onore di una prestigiosa sede editoriale e di ampie recensioni sui maggiori quotidiani)13 pare di tornare in classe ad ascoltare le sue lezioni, bilicate tra immersione nella storia, indagine filologica e analisi formale – ma non formalistica – dei testi: lezioni ardue, ma rese affascinanti dalla capacità comunicativa di Martelli, dal suo amore per la polemica e per la battuta anche accademicamente ‘scorretta’, dalle sue sortite ‘comiche’, dai suoi aneddoti. Lezioni che richiedevano un notevole sforzo per seguire il professore lungo le strade impervie che egli ci invitava a percorrere con lui: non tutto capivamo, anzi spesso ci smarrivamo in quelle selve troppo intricate per noi, ma due cose, e importanti, emergevano chiare per tutti: la complessità della letteratura, che non tollera improvvisazioni e scorciatoie, ma esige impegno, competenze ferree e applicazione costante da parte di chi voglia dedicarvisi; e l’obbligo di mai iurare in verba magistri, di non sottoscrivere a occhi chiusi quello che ci viene detto, che si legge, che tutti ripetono, ma viceversa il dovere di sempre adoperarsi per metterne alla prova senza timori reverenziali l’esattezza e la veridicità. Insegnamenti, come si capisce, validi e utili in ogni campo della conoscenza e della vita.
Note
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Fenoglio 1978; Montale 1980.
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Richiamo l’attenzione, in queste righe, su un dettaglio rivelatore: la ricercata costruzione negativa, alla latina, del verbo temere («temendo non la malattia […] assumesse un decorso irreversibile»), quasi una spia del fatto che, nello studio dei moderni, Martelli trasferisse il suo habitus di erudito e di cultore dell’Umanesimo.
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Martelli 1991, pp. 89-90. Lo stesso ironico titolo del volume (suggerito da Rossella Bessi, come Martelli ricorda nella Premessa a p. 6, e desunto dai primi tre versi di una lirica del Quaderno di quattro anni, La poesia, del 1976: «Con orrore / la poesia rifiuta / le glosse degli scoliasti») allude all’abito filologico-erudito di Martelli, applicato anche alla letteratura del Novecento.
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Martelli 1980, pp. 923-950 e 1040-1069 (ristampato poi in appendice a Per Mario Martelli, l’uomo, il maestro e lo studioso, a cura di P. Orvieto, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 93-158); Martelli 1995.
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La filologia martelliana si potrebbe riassumere così: rifiuto di qualunque metodologia precostituita, costante adattamento del ‘metodo’ all’oggetto, e, soprattutto, rifiuto delle procedure meccaniche che pretendano di abolire lo spazio dello iudicium, della valutazione razionale e storica, della responsabilità individuale del filologo. Come si legge nella Premessa della Guida alla filologia italiana scritta insieme a Rossella Bessi e pubblicata da Sansoni nel 1984, «il vero filologo non ritiene mai acquisito risultato alcuno; egli – con il solo e irrinunciabile ausilio di una scienza, che tale non è ove non si coniughi con una capacità inventiva che solo il contatto con i dati della realtà testuale può suscitare – sempre e costantemente tutto verifica e tutto rimette in discussione» (pagina non numerata).
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Per questo, rimando al mio Bausi 2015 (numero monografico Per Mario Martelli), pp. 174-197.
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Orvieto 2009, p. 57.
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Così nella quarta di copertina del volume, scritta – come lo stile dimostra senza ombra di dubbio – da Martelli.
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Martelli 1965 (le citazioni che seguono sono da p. 179).
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L’espressione ricorre nel saggio del 2001 I dettagli della filologia (p. 232 dell’edizione in rivista), sul quale tornerò tra breve (vd. a testo, e la nota seguente).
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Il saggio fu pubblicato su «Interpres» (rivista di studi quattrocenteschi da lui fondata nel 1978 e diretta fino al 2006), XX 2001 (ma uscito nel 2003), pp. 212-271; è stato poi ristampato in Martelli 2009, pp. 278-335. Ne ricordo anche la traduzione spagnola dell’amico Marcelo Barbuto: Barbuto 2017.
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Pasquali 1988 (rist. anast. della seconda edizione, Firenze, Le Monnier, 1952), p. 10.
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Nel 2007, il libro concorse al Premio Viareggio nella sezione della saggistica, ma non vinse; il premio andò a Buio di Paolo Mauri. Martelli, mentre la giuria stava decidendo, giaceva sul letto dell’ospedale di Siena dove sarebbe morto di lì a poco; e fu questa l’ultima delle non poche amarezze della sua vita e della sua carriera.
Bibliografia
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Barbuto 2017 = Marcelo Barbuto, Detalles de la filología, in «Ingenium», XI 2017, pp. 239-306.
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Bausi 2015 = Francesco Bausi, Martelli filologo, in «Filologia e Critica», XL, 2015.
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Fenoglio 1978 = Beppe Fenoglio, Opera, edizione critica diretta da Maria Corti, 3 voll. in 5 tomi, Torino, Einaudi, 1978.
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Martelli 1965 = Mario Martelli, Studi laurenziani, Firenze, Olschki, 1965.
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Martelli 1980 = Mario Martelli, La politica culturale dell’ultimo Lorenzo, in «Il Ponte», XXXVI, 1980.
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Martelli 1991 = Mario Martelli, Le glosse dello scoliasta. Interpretazioni montaliane, Firenze, Vallecchi, 1991.
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Martelli 1995 = Mario Martelli, Angelo Poliziano. Storia e metastoria, Lecce, Conte, 1995.
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Martelli 2009 = Mario Martelli, Tra filologia e storia. Otto studi machiavelliani, a cura di Francesco Bausi, Roma, Salerno Editrice, 2009.
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Montale 1980 = Eugenio Montale, L’opera in versi, a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980.
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Orvieto 2009 = Paolo Orvieto, Martelli e Lorenzo de’ Medici, in Per Mario Martelli, l’uomo, il maestro e lo studioso, a cura di Paolo Orvieto, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 53-72.
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Pasquali 1988 = Giorgio Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, premessa di Dino Pieraccioni, Firenze, Le Lettere, 1988.
Informazioni
- Data ricezione: 30/10/2024
- Data accettazione: 01/09/2025
- Data pubblicazione: 30/10/2025
- DOI: 10.35948/DILEF/2025.4378
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