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La variazione linguistica nella quinta Crusca: primi sondaggi sulle marche diasistematiche

 ARTICOLO SCIENTIFICO

  • Data ricezione: 27/09/2022
  • Data accettazione: 31/10/2022
  • Data pubblicazione: 04/12/2022

Abstract

Il contributo, che si inserisce in una ricerca più ampia sulle marche diasistematiche nella lessicografia italiana otto-novecentesca, intende proporre un primo studio sull’uso in particolare di marche di tipo diafasico/diastratico nella quinta impressione del Vocabolario della Crusca. Questo tratto microstrutturale può essere infatti foriero di informazioni e indicazioni importanti sia per collocare, anche storicamente, una parola, una sua accezione o una locuzione nel suo appropriato livello di varietà della lingua, sia anche per approfondire la conoscenza delle idee linguistiche che sono alla base di un’opera lessicografica.


The essay, which is part of a broader research on diasystematic labels in 19th-20th century Italian lexicography, intends to propose an initial study on the use of diaphasic/diastratic labels in the fifth edition of the Vocabolario della Crusca. This microstructural trait can in fact offer important information and indications both for placing, also from a historical point of view, a word, its meaning or a locution in its appropriate level of linguistic variation, and also for getting to know the linguistic ideas behind a certain lexicographic work.


Parole chiave
Keywords

1 Introduzione

È una lunga tradizione della lessicografia italiana (e non solo italiana) quella di fornire indicazioni, oggi in maniera sistematica e principalmente per mezzo di sigle, abbreviazioni e/o simboli, in passato solo per alcune voci e molto spesso in forma discorsiva, su frequenza, ambiti, livelli e registri d’uso dei vocaboli e delle loro accezioni1.

Marche e notazioni diasistematiche, volte soprattutto a circoscrivere o sconsigliare l’impiego di certe voci ed espressioni, si ritrovano già nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), dove, insieme alla marca diacronica «V. A.» (= «Voce Antica»), usata per contrassegnare le voci giudicate come obsolete2, si ricorre, seppur con assai minor frequenza, anche a indicazioni di tipo diafasico/diastratico, come «voce bassa» o «modo basso» («COSELLINO. […] Diciamo anche COSO in genere masculino, per cosa stravagante, e ridicola, ma, voce bassa», «GRIFARE. Da grifo. Stropicciare grifo con grifo: voce bassa», «SCOPARE. […] E diciamo anche SCOPARE in modo basso, per cercar paese»)3, diatopico («GRASTA. Voce Ciciliana», «TOSA. Voce Lombarda»), diatestuale, in riferimento a forme e usi del linguaggio poetico («AUGELLO uccello, voce poetica»), diaconnotativo («CAVALERESSA […]. Voce usata in baia, e in ischerno, come altre di questa fatta, come dottoressa, medichessa, giudicessa, e simili», «MECCERE. Lo stesso, che MESSERE, ma detto per ischerno e diligione»), diatecnico («INSEGNA. Voce militare», «SCHISARE. Termine aritmetico», «INTONARE. Termine musicale»), diafrequenziale, in particolare per avvisare che una data parola è più comune «nell’uso» di un’altra («ASSALTO lo stesso che assaltamento, ma più frequente nell’uso», «PALAIUOLO […] oggi più comune SPALATORE»)4.

Tuttavia, è con i primi dizionari “universali”, a cominciare da quello dell’abate Alberti di Villanova (1797-1805)5, ma soprattutto nel secondo Ottocento (quando la lessicografia si propone di rispondere a una delle esigenze primarie del neonato stato unitario: dotarsi di un idioma nazionale unico per tutti e funzionale alle diverse situazioni comunicative sia orali sia scritte) che i vocabolari italiani iniziano a sviluppare e presentare i primi sistemi di marche d’uso, perché oggetto di registrazione e di descrizione diviene la lingua in tutte le sue varietà. A quest’altezza cronologica manca però ancora una vera e propria codifica delle marche d’uso e, di conseguenza, non c’è uniformità riguardo al loro impiego fra le diverse opere lessicografiche (anzi, spesso si difetta di coerenza anche all’interno della stessa opera). A ciò si aggiunge la constatazione che in alcuni fra i principali vocabolari del secondo Ottocento, come la V Crusca e il TB, non è presente neppure un elenco delle marche usate6.

Non c’è dubbio che le informazioni diasistematiche fornite dai lessici del passato siano di notevole importanza per una più precisa e approfondita conoscenza storica degli usi e delle connotazioni di un vocabolo e per la sua collocazione a livello di varietà della lingua. Ma esse possono rivelarsi utili anche allo studio delle idee linguistiche e normative che sono alla base di una certa opera lessicografica:

 

le marche hanno lo scopo di indicare i lemmi interessati come uno scarto rispetto a tutto il settore del lessico che rimane non marcato e che dovrebbe rappresentare la norma su cui si basa il dizionario. […] le marche possono apparire semplici indicazioni sulla natura dello scarto ma sono anche delle sanzioni che possono avere lo stesso valore di giudizi normativi espliciti (Mura Porcu 1990, p. 239)7.

 

Un uso scientificamente appropriato di tali informazioni è però possibile solo a patto di riconoscere il valore e la funzione attribuiti dai diversi vocabolari ai vari tipi di marche ed etichette da essi adoperati, dal momento che, specialmente in passato, ma in buona parte ancora oggi, nella lessicografia italiana, come in quella di altri paesi, «many labels are umbrella terms that conceal a good deal of variation»8.

Va subito detto che in Italia mancano lavori specifici sull’argomento in questione, come, ad esempio, quello di Glatigny (1998) sulle marche d’uso nei dizionari francesi monolingui del XIX secolo9. Per tale ragione, ho ritenuto utile avviare, insieme a Debora De Fazio, una ricerca sulle marcature diasistematiche nella lessicografia italiana otto-novecentesca10.

Nel presente contributo intendo in particolare concentrarmi sulle marche (intese anche come formulazioni più ampie ed articolate, le quali tuttavia non possono essere distinte a livello funzionale dalle vere e proprie marche) di tipo diafasico/diastratico in uno dei principali vocabolari italiani postunitari: la V Crusca, la quale, grazie ai progetti di informatizzazione delle cinque edizioni del Vocabolario promossi e realizzati dall’Accademia della Crusca, è oggi interrogabile in versione elettronica, insieme alle precedenti quattro impressioni, nella nuova banca dati della Lessicografia della Crusca in rete (http://new.lessicografia.it/)11.

 

2 Le etichette diafasiche e diastratiche nella V Crusca

Il «gran libro della Nazione» – come lo definirono gli stessi accademici –, vuoi forse anche per la sua incompiutezza12, è stato finora oggetto di minori attenzioni, da parte degli studiosi, rispetto ad altre grandi imprese vocabolaristiche coeve, a cominciare dal Dizionario del Tommaseo, sebbene si tratti di un’opera che rinnova, sotto diversi aspetti, la tradizione lessicografica cruscante. Con la quinta impressione del Vocabolario, gli accademici avevano stabilito infatti, per la prima volta in modo esplicito e programmatico, che la lingua da registrare non fosse più solo quella della tradizione letteraria, ma anche quella dell’uso vivo, e, inoltre, che fosse necessario aprirsi maggiormente al lessico tecnico-scientifico13.

La massiccia introduzione, rispetto alle precedenti impressioni, di marche o di indicazioni in forma più discorsiva circa i livelli e i registri linguistici risponde evidentemente al proposito degli accademici di dar conto delle diverse stratificazioni presenti nella lingua, che dichiarano di voler registrare «nella sua universalità». È vero che già nella Prefazione della IV Crusca si dimostra la consapevolezza della varietà della lingua, ma il compito di giudicare e decidere circa l’uso delle voci resta comunque demandato al «buon giudicio» dello scrittore14. La V Crusca, che si rivolge a un pubblico nazionale più ampio e articolato di quello degli scrittori, intende invece guidare i suoi utenti, specialmente i «meno pratici», anche a un uso della lingua adeguato ai diversi contesti comunicativi; di qui la necessità di etichettare alcune voci ed espressioni come “familiari”, “popolari”, “plebee”, ecc.:

 

Noi abbiamo detto sin da principio, che proposito nostro era di registrare nel Vocabolario la lingua dell’uso comune italiano. Questa lingua è chiamata anche illustre, in quanto che è l’istrumento della letteratura e del pensiero nazionale. Ma non vorremmo, che alcuno credesse, che dovessero per ciò essere escluse dal Vocabolario tutte quelle parole che per bassezza o turpitudine non potrebbero aver luogo in uno stile grave e dignitoso, e nè pur si odono nella conversazione di persone bene allevate. Una lingua ha nella sua materia più gradi e qualità, come in un gran popolo sono diverse sorte d’educazione e di costumi, e ciascuna ha suoi modi e favella. Ora un gran lessico, che deve presentar la lingua quant’è possibile nella sua universalità, non può lasciar fuori del tutto i vocaboli di questa condizione, quando nella loro specie son propri ed espressivi, e s’incontrano anco negli scrittori citati; i quali scrittori potrebbero talvolta addurre in loro difesa ciò che dice Quintiliano, che omnia verba suis locis optima; etiam sordida dicuntur proprie. Quel che la Crusca sente di dover fare, è d’essere moderatissima nella raccolta di tal maniera di voci, e di procedere colla maggior riservatezza nel dichiararle, non trascurando di avvertire della loro qualità per norma dei meno pratici (V Crusca, I, p. xviii).

 

2.1 “familiare”

In lessicografia, le marche diafasiche e diastratiche sono di norma quelle più vaghe e più difficili da definire con rigore, anche perché spesso veicolano informazioni relative anche ad altre varietà15.

L’etichetta di “familiare”, che è fra le più ricorrenti nella V Crusca (attraverso tutta una serie di formule sinonimiche come «voce familiare», «modo familiare», «voce di uso familiare», «dicesi nel linguaggio familiare», «usato solo nella maniera familiare», «familiarm.», ecc.), è correlata generalmente alla variazione diafasica16, ma in alcuni lemmi il piano della situazione comunicativa è messo direttamente in relazione con quello diamesico dell’oralità:

 

ALTRO […]. § XVII. Usasi pure nel linguaggio familiare per risposta affermativa, ma con accrescimento di forza. Per esempio: Vi siete divertito? Altro!

APPUNTO. […] § IV. Appunto! è pure Esclamazione affermativa, ed usasi nel parlar familiare.

COSOTTO. Sost. masc. Lo stesso che Cazzotto, di cui è eufemismo usato nel parlar familiare.

MA. […] § XV. Ma! usasi familiarmente, e così solo, in risposta denotante dubbio o ignoranza. Così diciamo, ad esempio: Chi è quell’uomo laggiù? – Ma! § XVI. Pure familiarmente adoperasi in risposta denotante uno stato, una qualità, una condizione, piuttosto cattiva che buona; e spesso usasi per evitare la risposta stessa. Così: Come va la salute? – Ma! – Che ti pare di quel libro? – Ma! – Che ne dici di questo artista? – Ma!

 

Si considerino anche i commenti a proposito di usi morfosintattici tipici soprattutto del parlato (sebbene non ignoti alla lingua scritta), come quello dei pronomi lui e lei in funzione di soggetti al posto di egli ed ella o del pronome gli per ‘a lei’17:

 

EGLI […]. § XVII. [Lui] Si usa come soggetto in vece di Egli, ma oggi è proprio del discorso e dello stile familiare.

ELLA […]. § XVII. [Lei] Si usa come soggetto in vece di Ella, ma è proprio del discorso e dello stile familiare.

GLI […]. § II Vale altresì A lei, Le, e serve al compimento indiretto femminile […]; ma è fuori della comune regola, e non userebbesi che nel parlar familiare.

 

Dal punto di vista del registro linguistico, nella V Crusca l’etichetta di “familiare” individua una varietà di lingua, scritta e parlata, mediamente informale (vedi anche «AUT AUT. Modo familiare tolto dal latino», «BATTIBECCO. […] Voce familiare»)18, che attinge a piene mani alla colloquialità toscana. Sono infatti marcati come “familiari” molti usi toscani (in parte registrati anche nelle precedenti impressioni, ma senza marche e indicazioni d’uso), incluse alcune varianti popolareggianti come conigliolo e formicola («CONIGLIO, e, in modo più che altro familiare, anche CONIGLIOLO», «FORMICA e familiarmente FORMICOLA»)19, maghero («MAGRO e familiarmente MAGHERO»)20, morvido («MORBIDO, e familiarmente anche MORVIDO»)21, le quali, in certi contesti, secondo il giudizio degli accademici, possono risultare anche più appropriate delle rispettive forme comuni italiane. D’altra parte, nella Prefazione di Brunone Bianchi alla V Crusca, pubblicata insieme al primo volume nel 1863, si dichiara, è vero, che «Quando di un vocabolo si hanno due o più forme, buone tutte o tollerabili, […] la Crusca, in questa varietà, preferisce sempre per regola generale quella che pone la prima»,  ma si spiega anche che

 

certe alterazioni, dicansi pure plebee, ma che più volentieri noi chiameremmo toscanismi, […] hanno tal grazia, e talvolta anche certa dolcezza, da riuscire, specialmente nel parlare e nello scrivere familiare, più naturali e più gradevoli delle stesse forme proprie ed originali. Tali sono i cambiamenti di alcune sillabe dure in altre più fluide, certe metatesi, l’aggiunta di qualche vocale, il raddoppiare e lo scemare di alcuna consonante; tutto ciò in somma, che con leggerissimo scapito dell’etimologia fu prodotto, più che da grossezza volgare, dalla natura della loquela e dell’orecchio del popolo toscano (V Crusca, I, p. xix-xx).

 

2.2 “popolare”

I «toscanismi» ricevono più spesso l’etichetta diastratica di “popolare”, ricorrente a partire soprattutto dal terzo volume (Ci-Czara), che fu pubblicato nel 1878, mentre i primi due erano usciti rispettivamente nel ’63 e nel ’6622.

Sono marcati come “popolari”, ad esempio, la variante in -io cucùlio per cuculoCuculo e popolarmente Cuculio»)23; forme con riduzione del dittongo uo come coca, cocere, cocoCuoca e popolarmente anche Coca», «Cuocere e popolarmente anche Cocere», «Cuoco e popolarmente anche Coco»), ma non core e novo, perché dell’uso letterario e poetico; le diverse forme con passaggio [skj] > [stj], tipiche anche queste del parlato popolare toscano, ma non prive di esempi scritti («Maschio e, con forma popolare, Mastio», «Mischia e, con forma popolare, Mistia», «Mischiare e, con forma popolare Mistiare», «Mischiato e, con forma popolare Mistiato», «Mischio e, con forma popolare Mistio», «Muschiato e, con forma popolare, Mustiato», «Muschio, e anche Musco; e, con forma popolare, Mustio», «Muschiosità e, con forma popolare, Mustiosità», «Nevischia e, con forma popolare, Nevistia», «Nevischio e, con forma popolare, Nevistio»)24; idiotismi come il participio costrinto (allato a costretto), rifatto analogicamente su finto, cinto, ecc. («Costretto e popolarmente anche Costrinto»), diacere per giacereGiacere e, con forma oggi soltanto popolare, anche Diacere»)25, gengìa o gingìa per gengivaGengiva ed anche Gingiva, e con forma sincopata, più che altro in uso presso il popolo, Gengìa e Gingìa»)26, grillanda per ghirlandaGhirlanda, e con metatesi popolare Grillanda»)27, leticare per litigareLitigare e, con forma popolare Leticare»)28.

Più in generale si osserva che le varie indicazioni di «voce popolare», «forma popolare», «maniera popolare», «modo popolare», «voce dell’uso popolare», «forma dell’uso popolare», «voce del linguaggio popolare», cui si aggiungono formule come «in uso presso il popolo», «comune al popolo», ecc., sono associate massimamente a usi toscani, come quello di bozzone per ‘agnello castrato (che ha più di un anno)’ («Voce dell’uso popolare»)29, di dama (§ I) per ‘donna amata; fidanzata’ («oggi è più che altro del linguaggio popolare») e damo per ‘fidanzato; amante’ («ma è voce popolare»)30, del verbo dinanzare («Att. Avanzare persona o animale camminando, Passare avanti ad essi; ma è voce più che altro del popolo»)31, dell’aggettivo fisicoso («Che in tutto trova da ridire, Che di nulla è contento; Difficile, Sofistico: ma è voce oggi più che altro del linguaggio popolare»)32, di frustino per ‘zerbinotto’ («Popolarmente dicesi Frustino a Un giovanotto vano che vesta con eleganza affettata»)33, di ignorante (§ VI) che vale «popolarmente anche Zotico, Villano, Poco amorevole, Sconoscente»34, di lattone per «Colpo violento dato altrui a mano aperta sul cappello; ma è voce popolare»35.

Nella V Crusca, la qualifica di “popolare” sembra avere insomma la funzione più specifica di marcare voci e usi propri del «popolo toscano» (in particolare di quello fiorentino), che non sono giudicati bassi, né generalmente da evitare, e che anzi possono rappresentare un elemento di rinforzo e di arricchimento per «la lingua dell’uso comune italiano». Si veda ancora la Prefazione:

 

Ma un altro fonte di lingua vivo, perenne, dovea riconoscere la Crusca nel parlar familiare di quella parte del popolo toscano non corrotta dal contagio delle fogge straniere, dove si continuano le tradizioni della favella del Trecento, e dura il medesimo genio creativo di vocaboli e modi di dire, bene e argutamente appropriati. Ed anche qui ha trovato da attingere per arricchire il Vocabolario, distinguendo giustamente ciò che ha ragione e forma di lingua italiana, da ciò che è gergo o bruttura plebea, o di tal condizione che non possa uscir dei confini del luogo ov’è nato (V Crusca, I, p. vi).

 

2.3 “plebeo”, “basso”

L’etichetta di “plebeo” si riferisce invece a una varietà di lingua connotata come bassa a livello sia socioculturale che diafasico. Essa è infatti adoperata per indicare voci e forme ritenute come proprie solo degli strati sociali inferiori («Annuvolare, e anche Annugolare. […] La seconda forma però è oggi usata solo dalla plebe»)36 e soprattutto usi del registro più basso, come quello di cacare per ‘partorire’ («in modo plebeo»)37, dell’esclamazione cazzica! («voce plebea e poco usata»)38, di cazzotto («Voce plebea»)39 e friggibuco («Quel rammarichìo solito farsi dai ragazzi che hanno guaj, e dalle persone cagionose e infermiccie; ma è voce d’uso plebeo»)40.

Termini di questo tipo sono però più spesso marcati con indicazioni quali «voce bassa», «modo basso», «uso basso» oppure «voce triviale», «voce oscena», usate anche in combinazione fra loro:

 

Baldracca. […] è voce bassa.

Ciuschero. Add. Alquanto allegro dal vino, Brillo: ma è voce bassa.

Coccolone. Sost. masc. Dicesi, in modo basso, per Colpo d’apoplessia fulminante.

Coglione. […] oggi è voce triviale e indecente.

Coreggia e Correggia. Sost. femm. Suono di quel vento, che mandasi fuori dalle parti di sotto; ma è voce triviale.

Culo. […] è voce bassa.

Fottere. […] voce oscena.

Ganzo. Sost. masc. Amante disonesto, Drudo; ma è voce bassa.

Imputtanire. […] è voce oscena e triviale.

Incacare. […] voce bassa e triviale.

Merdone. Sost. masc. Uomo da poco, e pigro, ovile; ma è voce bassa.

Mula. […] § II. […] detto figuratam. di donna, è modo basso per Concubina.

 

2.4 “nobile”

Si riferiscono, all’opposto, al registro aulico e ricercato le formule «voce del nobile linguaggio» e «voce di nobile scrittura»41, che compaiono solo dal terzo volume:

 

Conscio. Add. Lo stesso che Consapevole; ma è voce del nobile linguaggio.

Conto. Add. Noto, Ben conosciuto; ma è voce propria di nobile scrittura.

Gelicidio. Sost. masc. Gelo, e più comunemente Temperatura di gelo, Stagione gelata; ma è voce propria del nobile linguaggio.

Folgore. Sost. femm. Lo stesso che Fulmine; ma oggi è del nobile linguaggio.

Improbo. Add. Cattivo, Malvagio, Scellerato: ma oggi è voce di nobile scrittura.

Involare. Att. Togliere prestamente e furtivamente, Rubare; ed è voce del nobile linguaggio.

Letiziare. Neutr. Avere, Sentire, letizia, Gioire; ma è voce di nobile scrittura.

Lustro. Sost. masc. Spazio di cinque anni; ma è voce del nobile linguaggio.

Nitore. Sost. masc. Lo stesso che Nitidezza: ma è voce propria di nobile scrittura.

 

2.5 “volgare”

Per quanto riguarda invece l’etichetta di “volgare”, da una prima ricognizione si nota che questa può assumere funzioni diverse.

Essa è adoperata molto spesso con un valore sovrapponibile a quello di “plebeo” o di “basso” per collocare un vocabolo o un suo uso ai livelli inferiori degli assi diastratico e diafasico. Vedi buggerare: «§ I. Si usa volgarmente nel senso di Ingannare, Metter di mezzo; ma è pur voce che le genti bene educate sfuggono e piuttosto la scambiano coll’altra di suono analogo, Buscherare»42; ciabattino, § II: «dicesi volgarmente Uno sputo crasso e catarroso»43; lecchino: «Dicesi in modo volgare e beffardo per Vagheggino»44; maldocchio: «Fascino, Malia, che si credeva fatta per malefico influsso degli occhi; ed è voce del parlar basso e volgare». Si trova inoltre associata a tratti morfosintattici come la costruzione del doppio imperativo (vedi s. v. nascondere, § XIII: «Vatti a nascondere, e volgarmente Vatti a nascondi»), la quale, con il secondo imperativo coordinato al primo mediante la preposizione a, è comune nelle parlate popolari toscane45, e l’uso del clitico gli in contesto prevocalico con funzione di soggetto femminile (vedi s. v. gli, § I: «E in modo volgare talvolta è riferito a femmina»)46.

La marcatura “volgare” è poi regolarmente impiegata per i nomi popolari di animali, piante, malattie, ecc. Vedi cavallo (§ XXXIV): «Pesce cavallo, è detto volgarmente l’Ippocampo»; gotta (§ V): «Gotta serena, è nome volgare di quella malattia dell’occhio, che i Medici chiamano Amaurosi»; maggerena: «Nome volgare della pianta detta da’ Botanici Colutea»; nocione: «Denominazione volgare del Frassino, propria delle campagne»; orecchioni (§ IV): «nome volgare di una Malattia, detta più comunemente Gattoni».

 

2.6 “contadinesco”

Notevoli le indicazioni che fanno riferimento all’uso del “contado”, le quali connotano le voci anche diastraticamente, oltre che in senso diatopico. La lingua del “contado” viene infatti spesso associata a quella del “basso popolo” o del “volgo”, come nel caso dell’uso, già antico e letterario, di meco preceduto da con pleonastico («Meco. […] § IV E secondo proprietà del volgare nostro, rimasta oggi nell’uso più familiare, e costantemente in quello del basso popolo e del contado, alla voce Meco si prepone pleonasticamente la prep. Con meco»), di corteo (§ I) per «Seguito di persone che accompagnano la sposa; e in questo senso vive più che altro nel basso popolo e nel contado» o della paragoge di e, caratteristica del parlato toscano, in particolare di quello diastraticamente marcato verso il basso («E. […] § II L’E aggiungesi per eufonia in fine di parole monosillabiche o accentate sull’ultima: ma è proprietà rimasta al volgo e specialmente al contado, sebbene talvolta sia ammessa anche nel linguaggio poetico»). Ma, come si ricava da questi esempi, attraverso l’impiego di questo tipo di notazioni gli accademici potevano anche mostrare la continuità fra la lingua antica, letteraria e poetica e quella della Toscana attuale, popolare e rurale47. Al riguardo, si considerino anche gli esempi con marcature delle unità lessicali che presentano combinazioni di più indicatori per segnalare le affinità fra l’uso del contado e quello poetico, come per il dantesco allotta: «Lo stesso che Allora; voce rimasta al contado e anche alla poesia»48, per la voce desco «che non si userebbe che in poesia, per quanto sia viva sempre nel contado»49, per il verbo impromettere «voce oggi propria del linguaggio poetico, e di quello del contado»50 o per la variante lassare per lasciare che è «forma oggi propria solamente del linguaggio poetico o di quello del contado»51.

La qualifica di “contadinesco” si riferisce inoltre a diversi altri termini e usi della campagna toscana e soprattutto fiorentina, registrati per lo più con esempi da commedie e altre opere di stile popolare. Vedi bordella: «Dicesi di Donna o di Bestia giovane, fresca e piuttosto grossa; ma è voce contadinesca»52; bucello ‘giovenco’: «voce oggidì usata solo in alcune parti del contado»53; lucio ‘tacchino’: «voce più che altro usata nel contado»54; ministra, § VI: «nel contado, dicesi per Garzona»55. All’uso del “contado” sono ricondotti inoltre i participi accorciati della Ia coniugazione56, diffusi nelle parlate popolari toscane e anch’essi non ignoti alla lingua letteraria57:

 

Comprato […] e per sincope, rimasta specialmente nel linguaggio del contado, Compro e anche Compero.

Contato e per sincope, oggi però poco comune e più che altro contadinesca, anche Conto.

Costato e per sincope, oggi propria più che altro del contado, Costo.

Diventato e talvolta anche Doventato, non che per sincope, oggi contadinesca, Divento e Dovento.

Governato e talvolta per sincope, propria oggi più che altro del linguaggio del contado, anche Governo.

 

3 Prime conclusioni

L’indagine che qui si è impostata andrà certamente proseguita ed estesa con un’analisi complessiva dell’ampio ventaglio di indicazioni diasistematiche che corredano la V Crusca. Tuttavia, mi pare che già questi primi carotaggi nella microstruttura del Vocabolario possano offrire qualche spunto. In primo luogo, l’introduzione, soprattutto a partire dal terzo volume, di una gran varietà di notazioni diafasiche e diastratiche, nonostante certe incongruenze nel loro impiego e la loro mancata estensione a tutti i lemmi passibili di marcatura (aspetti questi che, quale più quale meno, riguardano però anche gli altri dizionari coevi), mostra con evidenza il rilievo che nell’opera assume la descrizione del lessico in rapporto all’intera gamma della variabilità sociale e stilistica della lingua. Inoltre, i dati qui riportati se per un verso confermano la persistenza nel «gran libro della Nazione» di un orientamento ancora decisamente toscanocentrico, tipico della tradizione cruscante, anche sul versante della lingua viva e parlata, per un altro verso palesano l’intenzione degli accademici di discostarsi dal solco di quella tradizione nel vagliare e circoscrivere, pur senza ricorrere a giudizi normativi espliciti, gli usi toscani sulla base di parametri “sociolinguistici”.

Note
  • 1

    Cfr. anche Poggi Salani-Nesi 2006, p. 649.

  • 2

    Cfr. Marazzini 2009, p. 146.

  • 3

    L’uso di queste notazioni si rendeva peraltro necessario dal momento che, seguendo le idee del Varchi, gli accademici avevano stabilito di raccogliere nel Vocabolario anche le voci di registro più basso e quelle della «feccia del popolazzo» (cfr. Fanfani 2014, p. 102).

  • 4

    Per una classificazione dei vari tipi di marcature diasistematiche nei dizionari, cfr. Hausmann 1989.

  • 5

    Cfr. Mura Porcu 1990, pp. 227-42.

  • 6

    Cfr. anche De Fazio 2012, p. 759.

  • 7

    Come afferma Girardin (1987, p. 76) «Le discours lexicographique n’est pas neutre, il véhicule un contenu culturel, il émet des jugements de condamnation ou de valorisation qui s’expriment par rapport à une norme linguistique et culturelle qui prend référence l’univers langagier de la culture dominante», per cui Glatigny (1998, p. 3) si chiede «si un des révélateurs de ces “jugements” n’est pas l’emploi des “marques d’usage”». Svensén (2009, p. 315) rileva poi come l’operazione della “marcatura” «implies that a certain lexical item deviates in a certain respect from the main bulk of items described in a dictionary and that its use is subject to some kind of restriction».

  • 8

    Atkins-Rundell 2008, p. 496. Cfr. anche Ptaszynski 2010; Vrbinc-Vrbinc 2015; Sinu 2021.

  • 9

    In un contributo dedicato al trattamento della variazione diamesica nella lessicografia italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Lubello (2008, p. 49) constata come l’analisi delle marche d’uso nella tradizione lessicografica italiana sia stata finora normalmente «esperita o all’interno di monografie specificamente dedicate a singoli dizionari o su piccoli campioni esemplificativi». Si veda, fra gli altri, il contributo di Holtus (1993) dedicato alle marche diasistematiche nel LEI. Per quanto riguarda la lessicografia ottocentesca, segnalo, oltre al già menzionato lavoro di De Fazio (2012), che si concentra sulle notazioni diacroniche, diafasiche e diastratiche nel TB, le trattazioni di Manni (2001, pp. 25-125) e Gärtig (2016, pp. 392-402) sulle marche diasistematiche rispettivamente nel dizionario del Petrocchi e nel vocabolario italo-tedesco del Valentini, e il saggio di Rinaldin (2020) sul «lessico popolare» nel Dizionario dei sinonimi e nel Dizionario della lingua italiana del Tommaseo.

  • 10

    Questo progetto di ricerca è stato presentato dai due promotori in una comunicazione dal titolo Il testo lessicografico come indicatore della variazione. Prime indagini nei vocabolari otto-novecenteschi, tenuta in occasione del XV Convegno dell’ASLI, I testi e le varietà, che si è svolto a Napoli dal 21 al 24 settembre 2022.

  • 11

    Cfr. Biffi 2019, pp. 225-26. Chi scrive ha partecipato, insieme ad altri collaboratori e collaboratrici dell’Accademia della Crusca e sotto la direzione di Marco Biffi e Massimo Fanfani, alla trascrizione, alla revisione e alla marcatura XML/TEI del testo elettronico della V Crusca. Occorre avvertire che la banca dati attualmente in linea è tuttora in fase di revisione, e perciò alcune delle diverse possibilità di ricerca avanzata offerte dalla “nuova” Lessicografia della Crusca in rete, incluse quelle sui registri d’uso, non sono al momento del tutto accessibili.

  • 12

    Nel 1923, l’allora Ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile dispose l’interruzione della compilazione e della stampa del Vocabolario, che si fermò quello stesso anno alla lettera O (il primo degli undici volumi pubblicati era uscito nel 1863). Su questa vicenda e su altri temi relativi alla V Crusca, si rimanda in particolare ai saggi raccolti in Fanfani 2012.

  • 13

    Ivi, p. 78. La gran quantità e varietà di marche di tipo diatecnico utilizzate nella V Crusca («Term. dei Medici», «Term. dei Giuristi», «Term. della Pittura», «Term. dei Criminalisti», «Term. de’ Chimici», «Term. di Marina», ecc.) è rivelatrice del radicale rinnovamento del Vocabolario sul fronte del lessico tecnico-specialistico (vedi anche Maraschio 2020, p. 187). Com’è noto, la V Crusca prevedeva di relegare le forme disusate nel Glossario (di cui fu pubblicato solo il primo volume, per le lettere A e B, nel 1867) allo scopo «di fare un Vocabolario principalmente dell’uso presente» (cfr. V Crusca, I, p. ii): di conseguenza viene meno la marca «V. A.», sebbene non manchino indicazioni di tipo diacronico, come «non è oggi comune», «voce oggidì poco usata» e altre simili.

  • 14

    Vedi IV Crusca, I [p. 11]: «non tutte le voci […] sono dell’istesso valore, nè si possono mica senza differenza alcuna in ogni maniera di scrittura adoperare, perchè alcune oramai per troppa età rancide, e perciò disusate, e alcune formate troppo di fresco, altre del tutto poetiche, e altre prette Latine, e quali cotanto basse, che toltone lo stil giocoso, o l’umile, e dimesso quanto esser possa, in altre occasioni non si userebbero giammai. Noi non crediamo, che a noi s’appartenesse il distinguerle minutamente, essendo sconcia cosa, che un vocabolarista si ponga a spiegare gramatica, o rettorica, ovvero poetica, dovendosi lasciar questa faccenda a’ solenni maestri di quelle facultà, e anche perchè nella scelta delle voci fa più di mestiero del buon giudicio dello scrittore, che delle regole universali, le quali non possono comprender mai tutte le diversità delle occasioni, delle materie, de’ tempi, delle persone, e de’ luoghi».

  • 15

    Cfr. Marello 1996, p. 139; Glatigny 1998, p. 33.

  • 16

    Vedi anche V Crusca, s. v. familiare, § IX: «Detto di scrittura, e più spesso di lettera familiare, ovvero di discorso familiare, ragionamento familiare, e simili, vale Che è diretto a congiunti, amici, o altre persone di confidenza, Che si tiene con essi, intorno a cose per lo più private, in una forma semplice e schietta, e usando il linguaggio comune della gente civile. E detto di stile familiare, significa Piano e naturale, e con modi proprj del conversare domestico».

  • 17

    Come ha evidenziato D’Achille (1990, pp. 313-49) nella sua ampia trattazione dell’argomento, la tradizione censoria nei confronti dell’uso di lui, lei e loro come pronomi soggetto si mantenne ininterrotta dal Cinquecento fino al secondo Ottocento, quando i grammatici, sulla base anche dell’esempio manzoniano, cominciarono ad ammettere quest’uso nel registro «familiare» (cfr. anche Catricalà 1995, pp. 95-97). L’uso di gli in luogo di le era stato considerato «fuori di comune regola» dal Corticelli e anche nell’Ottocento, per quanto riconosciuto come proprio «del popolo toscano nel parlar familiare», era generalmente sconsigliato dai grammatici (ivi, pp. 97-99).

  • 18

    A quella di “familiare” possono essere associate anche altre etichette di registro, ad esempio per segnalare che una voce o un’espressione sono connotate in senso «scherzevole» («FILATESSA[…] Voce d’uso familiare e scherzevole») o anche per circoscriverne ulteriormente l’uso a un registro più basso e collocarle così su un piano di minore accettabilità («CONDIRE. […] § IV. Riferito a lucerne, lampade o altri lumi, usasi talvolta familiarmente, e in modo basso, per Mettervi l’olio, Accomodarli», «FAGIUOLO […]. § VII. Andare a fagiuolo, è maniera familiare, ma alquanto bassa», «FICCANASO. […] è voce di uso familiare, ma un po’ bassa»).

  • 19

    Conigliolo e formicola rientrano fra quelle formazioni nominali nelle quali, a differenza delle corrispettive forme comuni italiane, compare in aggiunta il suffisso atono -olo, il cui uso, anche senza un effettivo valore diminutivo, e sostanzialmente desemantizzato, è popolare in Toscana (cfr. anche Vinciguerra 2021, p. 113). Ritengo utile fornire qui e più avanti qualche confronto con i dizionari di Tommaseo-Bellini (= TB), di Rigutini-Fanfani (= RF), di Giorgini-Broglio (= GB) e di Petrocchi (= P) circa l’uso e l’attribuzione delle marche diasistematiche, che risultano anche molto diversi da opera a opera. TB marca conigliolo come «Voce d’uso» e formicola come “familiare”; RF marca la prima come “plebea”, la seconda come “popolare”; GB marca la prima come “familiare”, mentre la seconda come «più com[une] [di formica]»; P le marca entrambe come “popolari”.

  • 20

    Cfr. TB, s. v. maghero: «Vive nel pop[olo] tosc[ano]». GB marca la voce come “familiare”, P come “popolare”. Manca a RF.

  • 21

    Cfr. TB, s. v. morvido: «Lo dice co’ suoi deriv. il pop[olo] tosc[ano]»; P, s. v. morvido: «più pop[olare] [di morbido]». RF marca la variante come “popolare”; GB si limita invece a registrarla allato a morbido. Rohlfs (1966, § 262) riconduce questa forma del toscano a una reazione ipercorretta al passaggio di corvo > corbo.

  • 22

    Sulle varie cause del rallentamento della pubblicazione della quinta Crusca, fra le quali c’era anche l’esigenza di un affinamento dei criteri e dei metodi di compilazione, si veda Fanfani 2012, spec. pp. 18-21 e 74-84.

  • 23

    Vedi TB, s. v. cucùlio (forma marcata con una †): «Vive nel Pist[oiese]». GB e P non marcano la variante in -io, che invece manca a RF. Cfr. anche Vinciguerra 2021, p. 106. Da notare che la stessa V Crusca registra altre formazioni popolaresche in -io, come cervio e nidio, allato a cervo e nido, ma senza marcarle come “popolari”, probabilmente perché giudicate di maggiore tradizione letteraria (cfr. TB, s. v. cèrvio: «Così il pop[olo] tosc[ano], come Nidio»).

  • 24

    Cfr. Rohlfs 1966, §§ 190, 248 (nota 2) e 291. TB marca queste forme come “idiotismi”, alcune con l’ulteriore specificazione di “fiorentini” o “del volgo”; RF e GB ne registrano solo qualcuna come “idiotismo”; P le marca come “volgari”. La stessa V Crusca marca come “volgari” le varianti in [stj] di fischiare, fischiata, fischiato, fischiatore, fischierella, fischietto, fischio, fischione («FISCHIARE e volgarmente anche FISTIARE», ecc.), forse perché sentite come di livello più basso, anche se va detto che la distinzione fra “popolare” e “volgare” non è sempre perspicua (sull’uso della marca “volgare” nella V Crusca, si veda infra § 2.5).

  • 25

    Cfr. TB, s. v. diacere: «Lo dice il popolo tosc[ano]»; RF, s. v. diacere: «Forma volgare di Giacere»; GB, s. v. diacere: «intr. per Giacere, e più comune nelle locuzioni […]»; P, s. v. diacere: «più pop[olare] di Giacere».

  • 26

    TB marca queste forme con una †; P le relega sotto il rigo come “volgari” e “contadinesche”. Mancano a RF e GB.

  • 27

    Cfr. TB, s. v. grillanda: «Metatesi, per Ghirlanda (V.). Vive nel pop[olo] tosc[ano]»; RF, s. v. ghirlanda: «e con metatesi popolare Grillanda»; GB e P marcano la variante metatetica come “volgare”.

  • 28

    Cfr. TB, s. v. leticare: «Vive nel pop[olo] tosc[ano]»; GB, s. v. leticare: «Fam[iliare] più com[une] che Litigare»; P, s. v. leticare: «più pop[olare] che Litigare». RF non marca invece la forma leticare.

  • 29

    TB, RF, GB e P non marcano quest’accezione di bozzone.

  • 30

    TB e RF non marcano questi usi di dama e damo, mentre GB e P li giudicano “volgari”.

  • 31

    TB e GB non marcano la voce dinanzare; mentre P la marca come “contadinesca”. Manca a RF. Si veda anche Fanfani, Uso tosc., s. v. dinanzare, che registra il verbo come «di uso comune nel Pistojese».

  • 32

    Cfr. TB, s. v. fisicoso: «Non com[une], ma non morto, nè senza efficacia nel fam[iliare]». Per RF «è quasi fuor d’uso»; per GB e P «non com[une]».

  • 33

    TB, GB e P non marcano quest’accezione della voce frustino; RF la giudica “familiare”.

  • 34

    Cfr. TB, s. v. ignorante, § 7: «Il pop[olo] lo usa per Zotico, Poco amorevole» (per cui vedi anche Fanfani, Uso tosc., s. v. ignorante). RF, GB e P non marcano l’accezione, se non come “ingiuriosa” o “spregiativa”.

  • 35

    TB, GB e P non marcano la voce lattone; mentre RF la marca come “familiare”.

  • 36

    Cfr TB, s. v. annugolare (forma marcata con una †): «Vive nelle camp[agne] tosc[ane]». P la colloca sotto il rigo come «fuori d’uso». Manca a RF e GB.

  • 37

    L’accezione manca a TB, RF, GB e P.

  • 38

    La voce cazzica manca a TB e RF (ma il primo se ne serve nella definizione di canchero, § 13); GB la marca come “volgare”, P come “triviale”.

  • 39

    Per TB cazzotto è «Voce bassa»; RF la marca come “plebea”, GB come “triviale”, P non marca la voce ma avvisa: «Più educatam[ente] Pugno».

  • 40

    TB, GB e P marcano la voce friggibuco come “volgare”, RF, invece, come “familiare”.

  • 41

    Vedi anche V Crusca, s. v. nobile, § VII: «E in particolare detto di linguaggio, parole, uso o modo di parlare o di scrivere, stile e sue qualità, e simili, vale Che si discosta dal comune, Eletto, Scelto».

  • 42

    Manca a TB, RF e GB. P marca la voce come “triviale”.

  • 43

    Cfr. TB, s. v. ciabattino, § 5: «Ciabattino si dice pure dalla plebe uno Sputo catarroso»; RF, s. v. ciabattino: «dicesi volgarmente Uno spurgo molto catarroso». GB non registra l’accezione, mentre P la colloca sotto il rigo.

  • 44

    TB e GB marcano invece il termine lecchino come “familiare”.

  • 45

    Cfr. anche Vinciguerra 2021, p. 122.

  • 46

    Si tratta di un uso in particolare fiorentino e toscano-settentrionale. Cfr. Rohlfs 1968, §§ 446, 449, 451; Vinciguerra 2021, p. 113.

  • 47

    Fanfani (2012, p. 48) osserva come la soluzione manzoniana, che imponeva di abbracciare in modo esclusivo la parlata contemporanea di Firenze, costringesse di fatto i «fiorentini a rinunciare non solo alla lingua del loro glorioso passato […], ma anche alla lingua delle campagne e delle altre città toscane, rappresentativa anch’essa di usi genuini».

  • 48

    Cfr. TB, s. v. allotta: «Vive nelle campagne tosc[ane]»; RF, s. v. allotta: «voce rimasta al contado e alla poesia»; P, s. v. allotta: «oggi dei contadini». Manca a GB.

  • 49

    Cfr. TB, s. v. desco, che si limita a constatare che «Non è voce morta in Toscana»; RF, s. v. desco: «è viva solamente nel contado». GB e P non marcano la voce, di cui tuttavia limitano l’uso all’espressione stare a desco.

  • 50

    TB non marca la voce impromettere; GB la giudica “volgare”, mentre P “popolare”. Manca a RF.

  • 51

    TB marca la variante lassare con una †, P come “volgare”. Manca a RF e GB. Cfr. anche Vinciguerra 2021, p. 103.

  • 52

    P registra bordella sotto il rigo. Manca a TB, RF e GB.

  • 53

    Cfr. TB, s. v. bucello: «Vive in Val di Chiana»; P, s. v. bucello (sotto il rigo): «Vive in Val di Chiana e nel contado fior[entino]». Manca a RF e GB.

  • 54

    Cfr. TB, s. v. lucio: «Si dice a Pistoja, a Pisa e in quasi tutta Toscana per Gallo d’India o Tacchino»; GB registra la voce, segnalando che è “più comune” tacchino; P non marca la voce. Manca a RF.

  • 55

    Quest’accezione di ministra, registrata senza esempi nella V Crusca, manca agli altri dizionari.

  • 56

    Ad eccezione del participio contento per contentato che è marcato invece come “plebeo”.

  • 57

    Cfr. Rohlfs 1968, § 627.

Studi
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Vocabolari citati per sigle o abbreviazioni
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  • GB = Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, ordinato dal Ministero della pubblica istruzione, compilato sotto la presidenza di Emilio Broglio [ecc.], 4 voll., Firenze, Cellini, 1877-1897.

  • IV Crusca = Vocabolario degli Accademici della Crusca. Quarta impressione, 6 voll., Firenze, Manni, 1729-1738.

  • P = Policarpo Petrocchi, Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana, 2 voll., Milano, Trèves, 1887-1891.

  • RF = Giuseppe Rigutini-Pietro Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata, Firenze, Tipografia Cenniniana, 1875.

  • TB = Niccolò Tommaseo-Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, 8 voll., Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1861-1879, consultabile in rete all’indirizzo http://www.tommaseobellini.it/

  • V Crusca = Vocabolario degli Accademici della Crusca. Quinta impressione, 11 voll., Firenze, Tipografia galileiana, 1863-1923 (A-Ozono).

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Informazioni
Cita come: Antonio Vinciguerra, La variazione linguistica nella quinta Crusca: primi sondaggi sulle marche diasistematiche in DILEF. Rivista digitale del Dipartimento di Lettere e Filosofia - 2 (2023), pp. 241-257. 10.35948/DILEF/2023.4310