Abstract
Si analizzano cronologicamente i suoi più importanti contributi alla letteratura italiana, saggi e articoli da Dante a Ungaretti, passando attraverso Leopardi e Manzoni.
The most important contributions to Italian literature are chronologically analyzed, essays and articles from Dante to Ungaretti, passing through Leopardi and Manzoni.
Parole chiave
Keywords
Ho l’onore di ricordare uno dei più prestigiosi docenti di Letteratura Italiana della nostra facoltà, in quanto primo suo laureato a Firenze nel lontano 1969 (con tesi l’edizione delle lettere di Benedetto Dei), dopo aver seguito corsi e fatto esami con Lanfranco Caretti: insomma avevo degustato i due luminari della Facoltà. Poi, laureatomi con De Robertis, posso dire che sono rimasto l’unico suo assistente ufficiale qui sopravvissuto, essendo precocemente scomparsi gli stimatissimi colleghi degni di tanto maestro Guglielmo Gorni, Giovanni Parenti e Giuliano Tanturli, che giustamente aveva definito De Robertis «gran maestro di filologia». E perché non citare anche, certo implicitamente sua allieva, l’eccellente filologa e paleografa nonché sua figlia, Teresa De Robertis? In verità di Nadia Ebani ho perso ogni notizia, vera mosca bianca “pascolista”, emigrata subito dopo la nomina a Verona. Il livello didattico di un docente si misura anche dagli allievi che produce e non ho la presunzione di includere anche me, ceduto da De Robertis a Mario Martelli. Non mi sento in grado di enumerare i molti altri allievi di De Robertis succeduti alla prima succitata mandata, in quanto quasi tutti più giovani di me, molti dei quali sono quelli che, assieme agli amici di chiara fama, nel volume Ricordo di Domenico De Robertis (Ricordo 2013) analizzano i metodi critici e i vari autori trattati e editi magistralmente da De Robertis, tutti in più sensi più o meno direttamente anche allievi di De Robertis (Giuliano Tanturli, Natascia Tonelli, Giuseppe Marrani, Beatrice Fedi, Paolo Orvieto e Raffaella Castagnola, Roberto Leporatti, Isabella Becherucci, Elena Parrini Cantini, Francesca Latini, Simone Giusti e la fedele Carla Molinari). Invito ad andare a rileggere quel Ricordo, dove ogni contributo è di eccellente fattura e illumina un settore di interessi di De Robertis. Nel mio contributo, scritto assieme ad altra indirettamente allieva di De Robertis Raffaella Castagnola, De Robertis lettore e interprete del Quattrocento, passavo in veloce rassegna il lungo capitolo di De Robertis, Esperienza poetica del Quattrocento del ‘66, contenuto nella storia letteraria Garzanti del ‘66, il secolo certo scandagliato con più acribia e competenza da De Robertis, con mia nota: «è di 400 pagine ma poteva essere anche di migliaia, se De Robertis avesse esibito al completo il suo sterminato archivio di dati custodito gelosamente, ma anche sempre disponibile per gli allievi o i cultori». Sui vari codici studiati da De Robertis puntualissimo Roberto Leporatti, Dalla parte della tradizione, alle pp. 77-97 del Ricordo. Insomma in quella puntigliosa e eruditissima rassegna quattrocentesca si è capito un metodo e, soprattutto, un insegnamento: per conoscere davvero un secolo bisogna averlo penetrato nei suoi intimi e spesso nascosti precordi, senza eliminare quel che reputiamo il trascurabile. Nel suo sfaccettato insieme, niente e nessuno devono essere esclusi: dai testi in latino a quelli in volgare, dai più eminenti umanisti, agli artisti, agli scritti dell’epistolografia diplomatica, fino alle scritture degli ufficiali di Mercatanzia, alle registrazioni delle spese della Cancellerie. E altro insegnamento ben evidenziato da Natascia Tonelli:
Dev’essere questa la forza specialissima della saggistica di De Robertis, la sua unicità: il coinvolgimento assoluto che raggiunge e la commozione che sempre suscita con l’intensità della compromissione che mette in atto; la presenza di sé, del proprio sentire che significa non certo alcun tipo di soggettivismo o impressionismo da lettore, che, al contrario, in quanto filologo si attiene al massimo del rigore consentito in una disciplina come la critica letteraria; né significa certo la presenza dell’uomo e delle idee dell’uomo De Robertis a rivendicare la scena, che anzi, del rispetto del testo e del servizio al testo De Robertis ha fatto un imperativo etico, ma il saper rendere compiutamente perché sperimentato il proprio, e offrirlo al lettore.1
Per lui in sostanza ogni giudizio non può essere e non deve essere umorale dichiarazione di sensazioni del critico, di gusti personali o di precostituite esclusioni ed inclusioni, ma convalidato da una serie di autori e di documenti che avallino quell’affermazione, altrimenti destituita di ogni fondamento. Insomma eravamo abituati ad avere nelle cattedre d’italiano nelle varie facoltà eccellenti storici della letteratura e perspicaci critici (parlo in generale dei docenti di letteratura italiana, perché anche il nostro Caretti è stato buon filologo), ma forse De Robertis è quello, dopo Contini (del quale ho seguito due corsi), che «abbia praticato devotamente la filologia testuale nella sua completezza», avvalendosi soprattutto dell’essere un accanito “topo di biblioteca”, nell’accezione più nobile del termine con la quale chiamavo (dietro le spalle) il maestro, Mencuccio per gli amici intimi: non c’era biblioteca che non avesse frequentato e forse pochi manoscritti almeno per quel che mi interessa quattrocenteschi, non sono stati da lui consultati. Quando ho collaborato con lui e con gli eccellenti editori suoi allievi (Benucci, Manetti, Zabagli) all’edizione dei Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento (Roma, Salerno Editrice 2002, 2 voll.), De Robertis per ogni cantare tirava fuori le sue schede in cui potevamo leggere i manoscritti dei vari cantari, tutti direttamente consultati dal maestro. La raccolta è preceduta da De Robertis dal suo articolo Cantari antichi del 1970, in cui cerca di datare i vari cantari, soprattutto quelli più antichi, sicuramente anteriori al 1375, escludendo quelli già noti del Pucci, secondo un criterio cronologico estremamente documentato e coscienzioso (e non in base a intenzioni preconcette), escludendo i cantari che non hanno una cronologia accertata. Forse ciò che caratterizzava De Robertis era, almeno a mio parere, il suo perspicace scandagliare settori considerati secondari se non terziari, come appunto i cantari (trasmessi da una matassa ingarbugliata di manoscritti). E, sempre a proposito dei cantari, un suo saggio, non solo per me illuminante, che continuo a citare, è quell’articolo Problemi di metodo nell’edizione dei cantari, del 1961 (anche in Editi e rari del 1978), in cui De Robertis, constatata l’impossibilità di applicare rigorosamente la prassi lachmaniana a questa tipologia di testi, arrivava ad una conclusione per me di capitale importanza: «dal punto di vista testuale, un cantare ha l'età del più antico codice che lo riporta, quanto dire della più antica redazione che lo attesta»; quindi inibendo ogni ipotesi di filiazioni a catena da avantesti solo teoricamente ipotizzati.
Insomma erudite infiltrazioni e sondaggi nei terreni e autori più incolti dai critici, tipo anche altri articoli che hanno segnato i miei studi: Una proposta per Burchiello, del 1968 o i vari testi nenciali (Due altri testi della letteratura nenciale, del 1967; Ammenda e recidiva per una Nencia, del 1969); e la Novella del Grasso legnaiuolo nella redazione del Palatino 200. Testo, frequenze, concordanze, del 1968. E, sempre tra i minori riesumati da De Robertis: Antonio Manetti copista, del 1974, seguito dall’edizione critica della Vita di Filippo Brunelleschi del Manetti, preceduta dalla novella del Grasso legnaiuolo, del 1976; l’edizione dei Sonetti di Filippo Brunelleschi, del 1977, e la voce Antonio Cammelli nel Dizionario Biografico degli Italiani, del 1974; si aggiunga anche poco letto ma assai importante L’egloga volgare come segno di contraddizione («Metrica», II 1981, pp.61-80), in cui De Robertis analizza l’evoluzione dell’egloga, soprattutto nel Quattrocento. Un volume che riguarda da vicino me sfegatato pulcista è la sua edizione del Morgante, Firenze, Sansoni 1984; ma anche in questo caso a De Robertis non interessa tanto il Pulci maggiore, quello del Morgante e certo l’edizione curata da Franca Ageno (Milano-Napoli, Ricciardi, 1955), dotata di ampio commento è il testo ancor oggi utilizzato e non quello di De Robertis; ma a lui interessava accludere, dopo aver consultato vari codici non solo italiani, l’edizione delle Lettere di Pulci, testo che ho riprodotto con poche varianti e ricco commento nella mia recentissima edizione delle stesse Lettere (Alessandria, dell’Orso, 2024). Del 1974 un volume, Carte d’identità, Milano, Il Saggiatore, in cui sono riuniti vari saggi di De Robertis, a dimostrazione dei suoi interessi poliedrici, dal Medioevo al nostro ‘800, da Abelardo, a Burchiello, alla Sylva in scabiem di Poliziano, a Parini, a Manzoni, a Ungaretti. Ma per me più prezioso l’altro volume collettaneo, Editi e rari, studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 1978, e quel «editi» sta a indicare autori già studiati e noti la canzone La dolce vista e ‘l bel guardo soave di Cino, con la ricostruzione del testo e le varianti dei vari manoscritti; e, sempre altra ricognizione ecdotica, L’appendix Aldina e le più antiche stampe di rime dello stil novo; e «rari» sta a indicare, quasi duplici itinerari critici, appunto autori o testi che senza De Robertis sarebbero scomparsi nel dimenticatoio: oltre ai vari testi “nenciali”, sui cantari e su Antonio Manetti, le Rime antiche e testimoni recenziori; La Raccolta Aragonese primogenita, il cod. 3 della Società Dantesca Italiana; La composizione del «De natura de amore» e i canzonieri antichi maneggiati da Mario Equicola e il già ricordato Problemi di metodo dell’edizione dei cantari. Certo non ci sono solo i minori o minimi negli intessi di De Robertis, c’è anche soprattutto Dante. Ma anche nel caso di Dante, l’autore forse privilegiato negli anni ’60 e ’70, si tratta pur sempre un Dante, almeno allora, poco e spesso mal studiato, certo non il maggiore della Commedia, ma quello minore, del quale De Robertis ci fornisce l’edizione della Vita Nuova (del 1961 e del 1970, che io ancor oggi consulto), con relativo commento (Milano-Ricciardi, 1980 e poi ristampato assieme al testo nel tomo I delle Opere minori di Dante Alighieri, Milano-Napoli, Ricciardi 1984) e l’edizione critica e nazionale con successivo commento delle Rime, in cinque tomi (del 2022; il commento alle Rime è uscito nel 2005 per i tipi del Galluzzo, che, come dice Marrani, «chiude un cinquantennio circa di studi e di ricerche»). Due edizioni, da ineccepibile filologo, accompagnate da vasta ricognizione dei manoscritti, da quello che chiamava «lungo studio propedeutico» non solo alle edizioni dantesche - ma anche al preliminare approccio ecdotico a ogni autore -: il Censimento dei manoscritti di rime di Dante, del 1960, 1961, 1962, 1964, 1967 e 1970. Contrariamente a molti altri critici, per De Robertis lo studio di un autore è sempre e solo frutto di approssimazioni, che possono protrarsi per decenni, teoricamente senza un definitivo traguardo: nella bibliografia dei suoi scritti redatta dalla figlia Teresa ci sono ben 55 voci dantesche: insomma un continuo work in progress, di tessere che poi si ricompongono, ma a posteriori, in un mosaico. In sostanza un De Robertis che si immerge senza timore (che avrebbero altri critici, me compreso) nel mare magnum della tradizione manoscritta (delle rime di Dante), è, come ebbe a dire Tanturli «lo scrutinio della varia lectio condotto sino alle ultime propaggini del testimoniale. Opera immane i cui risultati vanno decisamente oltre quanto strettamente serve alla costituzione del testo delle rime dantesche». Un Dante inoltre associato a amici e concorrenti, come Cino da Pistoia, oggetto della sua tesi di laurea, e tra il 1950 e il 1964 ben sette suoi interventi su Cino. Oppure Guido Cavalcanti, del quale pubblica le Rime. Con le rime di Iacopo Cavalcanti, Torino, Einaudi, 1986. Nuova e approfondita analisi del Cavalcanti “biblico” è Un altro Cavalcanti? (del 2002). Insomma è impossibile isolare Dante da un ben più ampio contesto poetico, in cui i minori (rispetto a Dante) non sono semplici comparse: De Robertis fa interagire Dante con Cino e con Guido e con altri quasi sconosciuti. Altro autore assediato “di fianco” e non direttamente nei Fragmenta è Petrarca, ennesimo sintomo del carattere erratico e apparentemente dispersivo della pratica derobertisiana, basti consultare il suo Memoriale petrarchesco, Roma, Bulzoni, 1997, in cui sono raccolti assieme articoli che coinvolgono, direttamente o indirettamente, Petrarca: Petrarca petroso, dell’84, Petrarca interprete di Dante (ossia leggere Dante con Petrarca), dell’85; Contiguità e selezione nella costruzione del Canzoniere petrarchesco, del ’92; Rerum vulgarium fragmentum CIX, dell’86, La traversata delle Ardenne. Sonetti CLXXVI e CLXXVII; F. P. Carmen feriale; A farewell to arms; Per Renzo e Silvia retrouvé; A quale tradizione appartenne il manoscritto delle rime di Dante letto da Petrarca). Anche nel caso di Petrarca più che una lettura diretta dei Fragmanta, una soprattutto indiretta: di Boccaccio che legge Petrarca nel Chigiano L. v. 176 (Il Dante e Petrarca di Giovanni Boccaccio del ’74) o di Petrarca che legge Dante (quello “petroso); o sulle «strutture» del Canzoniere (in Problemi di filologia delle strutture, dell’85). Altrettanto prolungato e disseminato nel tempo il suo affetto per autori dell’800. Su Leopardi, come suo costume, De Robertis torna con le sue consuete approssimazioni prolungate e dislocate per un arco di almeno un trentennio, per cui si veda innanzi tutto il volume a lui dedicato, Leopardi. La poesia del 1996 e poi 1998; con abbandoni e ritorni, tipo intermittenti rapporti di coppia, più o mano denunciati nell’articolo Ritorno a Leopardi (se mai me ne fossi allontanato), del 2005. Omaggio al grande padre Giuseppe l’edizione a due mani dei Canti leopardiani (Giacomo Leopardi, Canti, Milano Mondadori, 1978, assieme a Giuseppe De Robertis), alla quale segue la sua edizione critica con gli autografi dei Canti, Milano, Il Polifilo, 1984, in due volumi. Importante il ricostruito percorso anche cronologico dei Canti (La data dei «Canti» leopardiani, del 1968) e quello dallo Zibaldone alla poesia, con anche però la contestazione, della «opposizione di schieramenti… se sia più grande o se soprattutto esista il pensatore o il poeta». Da pluriennale esperto dei secoli passati, i suoi collegamenti di Leopardi coi precedenti (Il Petrarca di Leopardi, del 1976, e Giacomo Leopardi e i rimatori antichi, dello stesso 1976) e l’attenta e nuova rilettura della Ginestra (La “verità” della «Ginestra», del 2000) e sulla lingua di Leopardi (Concordanze leopardiane del 1968). Anche nel caso di Manzoni, una lunga «fedeltà» più che ventennale, che va dal 1968 (Manzoni tra meditare e sentire) all’importante L’antifavola dei Promessi sposi, del 1974, a La lingua del Manzoni e Gli strumenti del lettore. Ancora sulla lingua del Manzoni, ambedue del 1975, all’altrettanto importante Renzo e Lucia, del 1976, al Male storico nel Manzoni, del 1978, a La mente di Manzoni, del 1991. Un Manzoni anche lui autore in progress, seguito passo passo dalle prime redazioni del romanzo a quella definitiva, il tutto accompagnato da altre saltuarie incursioni nella prosa e nella poesia manzoniane, senza mai avere la presunzione di approdare ad una unipolare e definitiva definizione dell’autore:
I lavori derobertisiani sul romanzo dei Promessi sposi, che si succedono regolarmente dal 1973, cioè a due anni dall’uscita dell’edizione di Caretti, al 1989 come costanti ‘divagazioni’ dagli altri più poderosi lavori (fra cui quelli danteschi e leopardiani) non mostrano, infatti, mai soluzione di continuità, anzi sono uniti tutti l’uno all’altro in un unico serrato ragionamento, di cui continuamente si ripetono le conclusioni fondamentali (la vocazione innata di romanziere e la strada della sua scoperta; il Fermo e Lucia banco di prova di questa, contenente in sé tutte le tappe del suo percorso verso il ‘capolavoro’; il rapporto di storia e invenzione precedente il problema della lingua e la risoluzione dell’uno e dell’altro nel corso della riscrittura del romanzo.2
Le escursioni su scrittori del ‘900 sembrano delle divagazioni, degli entractes, forse per scrittori già privilegiati dal padre: Giuseppe Campana (del padre si ricordi solo Sulla poesia di Campana, «Poesia» del 6 marzo 1947) e di conseguenza l’edizione anastatica dell’autografo campaniano curata da Domenico (Dino Campana, Il più lungo giorno. Prefazione di Enrico Falqui, Roma, Archivi-Firenze Vallecchi, 1973, 2 voll). E poi Ungaretti, che circolava, lui bambino, nella casa col padre che leggeva alcuni suoi versi. Quindi sulle orme del padre (del quale basti citare l’edizione delle Poesie disperse, con apparato critico delle varianti, Milano, 1945, in cui passava in rassegna appunto gli scartafacci preparatori conservati nel Fondo a lui intitolato nell’Archivio Bonsanti di Firenze, che documentano criticamente il sostanziale alleggerimento stilistico e retorico, la frantumazione della metrica tradizionale cui Ungaretti aveva sottoposto i suoi componimenti; e Giuseppe Ungaretti-Giuseppe De Robertis, Carteggio 1931-1962, Milano, Il Saggiatore 1984) venticinque anni di interesse ungarettiano di Domenico, con una lunga pausa di quasi trent’anni: dal 1946 di Ungaretti traduttore di Shakespeare e Nascita di una poesia sulle varianti ungarettiane, al 1974 con la lettura che conclude, unico autore novecentesco, la raccolta di saggi Carte d’identità (col titolo Nascita di una poesia): lì sono messe a confronto, anche con l’ausilio della puntigliosa rivisitazioni degli «scartafacci» e delle varianti due poesie di Ungaretti, Lido e Lago luna alba notte, ricostruendo il travagliato percorso redazionale. Nel 1977 continua la sua critica delle varianti ungarettiane (Varianti ungarettiane), per poi tornare al poeta con una serie di articoli usciti nel 1980 in occasione del decennale della sua morte (L’avventura più drammatica; Editi e rari ungarettiani; introduzione e note in Giuseppe Ungaretti, A proposito della guerra. Lettera a Prezzolini (1914); Per l’edizione critica del «Dolore» di Giuseppe Ungaretti; Giuseppe Ungaretti, in 10 poeti italiani contemporanei), in cui ancora è sempre notevole e costante rintracciare il percorso del testo tra stratificazioni e varianti. Ci sarebbe da aprire una non breve parentesi su quanto abbia condizionato Domenico il certo non facile rapporto coll’incombente e prestigioso padre Giuseppe: nella scelta di alcuni autori per così dire “familiari”, nella cosiddetta «critica degli scartafacci» o «delle varianti», quindi in termini di adesione, ma anche di reazione e di personale autonomia, con lo spostamento dell’obiettivo a secoli e autori quasi estranei al padre: filiale imitazione commista a forse inconscia competizione.
Bibliografia
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Ricordo 2013 = Ricordo di Domenico De Robertis. Atti delle giornate in memoria, Firenze 9-10 febbraio 2012, a cura di Carla Molinari e Giuliano Tanturli, Firenze, Pensa Multimedia, 2013.
Informazioni
- Data ricezione: 29/11/2024
- Data accettazione: 01/10/2025
- Data pubblicazione: 31/10/2025
- DOI: 10.35948/DILEF/2025.4380
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